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Rokia Traorè – Beautiful Africa

Written by Recensioni

Rockia Traorè, l’artista del Mali (esiliata in Francia) non è molto avvezza – anzi quasi per nulla – a far parlare di sé o di partorire dischi a catena, le sue sono lunghe riflessioni pensate per anni, lunghi primi piani  sulle condizioni del suo popolo e del resto del mondo, la sua terra è scombussolata da guerre e dalle ombre dell’Islamismo integralista; sei anni fa il suo ultimo album Tchamanchè ed ora un nuovo episodio liberatorio, Beautiful Africa, album pieno di vibrazioni energiche, una naturalezza sorprendente e coloratissima di donna libera e autodeterminata, tracce che come anelli di congiunzione legano insieme tradizione e percorsi europei tanto da apparire un arcobaleno selettivo di bellezza e pop ibrido, contaminato in un arte – la sua – imprendibile e imperdibile.

Si,Pop e roots che si abbracciano, chitarre, basso e strumentazioni di oggi incontrano lo n’goni, ritmi ancestrali che sposano l’human beatboxer , il linguaggio Bambara che fronteggia gli idiomi del vecchio continente, un tutt’uno misticheggiante di spirito che scorre come sangue nelle vene,  che vola come sabbia sul cemento delle idee; disco strapieno di musicisti più o meno conosciuti come il batterista inglese Sebastian Rochford, (Polars Bears), i coristi Maliani e Mamah Diabatè allo n’goni, la chitarra di Stefano Pilla  dei Massimo Volume, il basso danese di Nicolai Munch-Hansen e l’australiano Jason Singh all’Human-beatbox, certamente un parterre di rilievo per questa tenera autrice, dolce ambasciatrice di un mondo caldo e scottante, costantemente filtrato da veli jazzly, sospiri francesi e frenesie della terra madre.

La sua voce è un diamante sofferente, rugiada sabbiosa che innesca un ascolto profondo, la filastrocca amara e corale “Ka Moun Kè”, il blues arido del Mali che soffia divinità in “Kouma”, la dolcezza terribile e notturma di “N’Tèri” e “Sarama”, e lo scatto rock-pop che stilizza la titletrack sono gioielli inestimabili,  fintanto che arriva di sorpresa il funk tribale di “Sikey” che strappa per alcuni secondi l’attenzione su tutto il resto, ed è allora che ti accorgi che il disco ti ha rapinato l’interiorità.

Imperdibile senza come senza ma.

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