I Dischi del Minollo Tag Archive

Cose nuove dal mondo indie || The Singer Is Dead

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Sei brani che riescono a offrire un ascolto piacevole per un Math Rock emozionale, intenso, celebrale ma non esplosivo. Continue Reading

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Recensioni #04.2017 – Senza Benza / Adam Carpet / Droning Maud …

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ZIVAGO, esce il video di “Lo Specchio”

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Esce su youtube “Lo Specchio”, primo estratto dall’omonimo album del duo milanese ZIVAGO, uscito lo scorso 30 ottobre per l’etichetta I Dischi del Minollo. Forti contaminazioni che derivano dalla scena folk rock, da quella indie/new wave anni ’80 e ’90 e dalla tradizione melodica cantautorale italiana, contraddistinugono le sonorità del duo milanese che con questo album, composto da 9 tracce, racconta delicate storie caratterizzate da un tono intimista e ispirato. Una musica suggestiva che racconta di vergogne, peccati originali di cui non è bene parlare e a cui è contrapposta una voce che pare esterna, sradicata dal contesto. È la voce dello specchio, disinibita, disinteressata, appartenente a un mondo al rovescio dove non c’è morale e tutto è nitido nella sua potenza emotiva o nell’essere semplicemente una favola più crudele di altre.

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ZiDima – Buona Sopravvivenza

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I milanesi ZiDima sono un ciclone musicale che ha iniziato a calcare i palchi dalla fine degli anni 90. Dopo una vita passata tra autoproduzioni , i frutti del sacrificio sono stati raccolti nel 2009 col disco Cobardes uscito in occasione del processo d’appello per i fatti violenti della scuola Diaz nel corso del G8 del 2001. Da lì parte l’ascesa. Tappa fondamentale è il 2013 quando incidono “Come Farvi Lentamente A Pezzi”, singolo che accompagna la mostra “Muri Stracciati” di Silvano Belloni al Palazzo del Moro di Mortara e che farà parte delle nove tracce del nuovissimo album Buona Sopravvivenza. Con premesse così altisonanti è quasi d’obbligo attenderci lo scalino successivo per proseguire la scalata. La tesa “Un Oceano Di Fiati Distrutti” ce li fa accostare istantaneamente  ai Ruggine, ai The Death Of Anna Karina, ai Lantern, a quella corrente Post-Hardcore italiana che tanto bene sta facendo da diversi anni a questa parte. Le liriche spesse di tormento e intimistiche ci parlano da uno scenario alienante, dove comanda una tensione priva di ritegno. L’urticante “Inerti, Comodi E Vermi” è veloce come un sorso d’acido. La placida apparenza di “Trema Carne Mia Debole” nasconde in realtà una pantomima il cui punto focale è il conflitto interiore, recitata dall’ugola sibilante di Manuel. Il gioco si ripete e alla verdeniana “L’Autodistruzione” si contrappone la pacatezza di “Sette Sassi”, che si velocizza come una tormenta in mare aperto e lo fa senza avvertire, a pieno regime. Affrontare una tematica come l’amore non è mai una cosa scontata per la band: “Saziati”, che vede tra l’altro la partecipazione di Stefano Giovannardi ai synth e di Miriam Cossar alla voce, incorpora uno zenit fazioso privo di lucentezza dove anche un sentimento positivo si tramuta in un qualcosa di sulfureo. Buona Sopravvivenza mantiene le promesse fatte toccando la sfera personale di ognuno di noi con mani ruvide come carta vetrata. E nonostante questo dà un senso di piacere. A me e a voi che li ascolterete.

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Mad Pride è l’esordio solista di Lukasz Mrozinski

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Mad Pride segue l’EP Trust In Love To Be (2013 I DISCHI DEL MINOLLO/Believe) e rappresenta l’esordio da solista di Lukasz Mrozinski. Fondatore dei Theorema, del progetto noise aSzEs0, voce e chitarra dei Merçe Vivo, chitarra nella storica noise-band torinese Seminole, nei Toda e nel progetto di sonorizzazione Rebe. Supportato dalla collaborazione tra le etichette I DISCHI DEL MINOLLO, EDISONBOX e VITTEK RECORDS, dal movimento Torino Mad Pride, dal distributore Audioglobe e dalla partecipazione di numerosi artisti torinesi, tra i quali Matteo Castellano, Stefano Amen, Maurizio Suppo, Martha Helika Mrozinski, Gabriele Maggiorotto, Enrico Supertino, Linda Messerklinger, Eros Giuggia e il pittore visionario Cosimo Cavallo.

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Violente Manipolazioni Mentali, il nuovo concept album dei Mastice

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Esordio del duo ferrarese formato da Igor Tosi (voce della band Devocka) e Riccardo Silvestrini, pubblicato dall’etichetta discografica I DISCHI DEL MINOLLO, con distribuzione Audioglobe. Il progetto Mastice rappresenta la dura quotidianità, dove riverberi e ritmi meccanici si intrecciano ad oscillazioni e parole. Sensibile alle sonorità industrial e ambient, Mastice possiede una forte natura elettro Rock. Il progetto esordisce con la cover “Vita in un Pacifico Nuovo Mondo” all’interno della compilation-tributo ai Fluxus Tutto da Rifare (Mag Music/ V4V Records). Registrato alla Masticheria di Ferrara da Samboela (Luci Della Centrale Elettrica, Devocka, Bob Corn) tra dicembre 2013 e maggio 2014, il disco è stato preceduto dall’EP digitale in chiave ambient “VMMprologue”, realizzato in collaborazione di Sozu Project.

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King Suffy Generator – The Fifth State

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Dopo il Quarto Stato arriva il Quinto. I King Suffy Generator, ispirati dalle opere del pittore e scultore Giorgio Da Valeggia, ne fanno un concept-album, strumentale, sul processo che ha portato l’uomo ad essere vittima della stessa società che aveva in passato cercato di cambiare. Da forza motrice a ingranaggio muto.

Il disco si apre con “Derailed Dreams”, tra chitarre e basso pulsanti, melodie imprevedibili, ritmiche ossessive, fino all’apertura del finale. Si prosegue con “Short Term Vision”, dalle parti dei God Is An Astronaut più intensi, o come una versione meno graffiante dei Kubark: arpeggi circolari, pulsazioni zoppicanti e atmosfere ariose, con in coda un finale perfetto, che s’inchioda nella mente con sorprendente facilità. “Rough Souls”, basata su appoggi di synth su sfondo noise, è nient’altro che una decompressione intermedia che ci porta a “Relieve The Burden”, acida e pungente, dove le chitarre predominano, alte e frizzanti, a scalare su e giù per la tastiera in riff inquieti, infestanti, e inserti ruvidi – la lezione della Psichedelia sixties viene assimilata e rielaborata attraverso il prisma del Post-Rock anni 90. Col piede si tiene il ritmo, con la testa si viaggia lontano. Il finale viene lasciato ad una coda di pianoforte e voci distanti: una nota malinconica prima dell’uno-due finale.

“We Used to Talk About Emancipation” parte con un solido impianto ritmico, furioso e asimmetrico, e finisce riprendendo l’atmosfera, incattivendola, della chiusura di “Short Term Vision”, in un corto-circuito che provoca un interessante deja vù;mentre “Tomorrow We Shall See” mantiene alta la carica energetica degli ultimi due brani e la porta in situazioni ritmiche prima ondeggianti poi martellanti, con le distorsioni delle chitarre che premono contro basso e batteria, aprendosi qua e là in scoppi o distensioni improvvise che spezzano la continuità del brano, facendolo diventare una piacevole corsa ad ostacoli che non perde però in naturalezza. Verso la fine si rallenta e si prende un bel respiro: la sensazione è quella della camminata gonfia d’ossigeno dopo lo scatto feroce per arrivare al traguardo. The Fifth State è un ottimo album di musica strumentale: Post-Rock energico, abbastanza orecchiabile, psichedelico, atmosferico. Ai King Suffy Generator manca solo qualcosa che possa rendere più personale la loro opera. Detto questo, il disco ha senza dubbio tutte le carte in regola per poterlo consigliare, senza scrupolo alcuno, a tutti gli amanti del genere.

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Il Fratello – Il Fratello

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Tutto nasce da un viaggio negli States da parte di Andrea Romano, già Albanopower ed una infinità di altri progetti sonanti, un viaggio in California per girare una clip e dove una amica, Livia Rao, gli mostra una foto – quella che è poi nella copertina – e da li parte questo progetto, questo disco “Il Fratello”, otto tracce di cantautorato fine, bisbigliato, tenero e malinconico, in cui intervengono una miriade di collaboratori tra i quali nomi conosciuti nell’ambiente come Carlo Barbagallo, Mauro Ermanno Giovanardi, Colapesce e Cesare Basile, un progetto corale nel quale l’ascolto si immerge e vive un’apnea melodica e atmosferica non indifferente, leggera come la piuma di Forrest Gump.

Disco in punta di piedi e con un prorompente “recupero” emozionale che trascina dolcemente tutto, l’ascolto, i battiti e le solvenze tenui di una lunga notte, e che gira e gira all’infinito tra anima e cuore fino a restituire all’orecchio le melanconie elaborate lasciate a macerare nella grazia; nell’eterna ciclicità della musica tutto va e tutto viene, poesia, pathos, fato ed essenziale si gestiscono le partiture della magnificenza con poche cose, frasi, dettagli, e questo lavoro impalpabile ne è la cartina tornasole, una magnetismo tremulo che si fa suono e poesia all’istante. Dicevamo un lavoro corale, condiviso da strumentisti che hanno fatto parte delle esperienze musicali di Romano, una scaletta che conquista per l’ispirazione docile di cui è composta, tra i tanti brani il dondolio agro di un pensiero interrogativo “Cos’ha Che Il Mio Mondo Non Ha” con Colapesce, il macramè acustico da brivido che abbellisce “E’ Vero Che Per Te” che vede un Cesare Basile da incanto alla chitarra o il “bailamme metafisico” di “Nei Ricordi Di Mio Padre (demo 2004)” traccia finale con Mauro Ermanno Giovanardi a tirarne fuori la voce.

Ma non solo piccoli brividi, pure stimolazioni anni sessanta, flebili come fili d’erba “Per Chi Ne Avrà” come ricordi stoppati tra le corde di una chitarra e pulviscoli di ieri, retroguardie fumè “Tra i Lacrimogeni” che,  con accordi aperti fanno di questo ascolto una esperienza estetica senza prezzo, divinamente senza prezzo.

Al diavolo le mode, qui c’è tutto l’occorrente per svanire nel bello senza tempo.

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Devocka – La morte del sole

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Sempre perfetti – ultimamente prendono distanze dal loro animo da caos  – nel cristallizzare la loro natura assolutamente unica, i ferraresi Devocka  – mai gregari a nessuno  – in questo momento di morte apparente di molta musica pesante che seguita ad accecarsi per guardarsi l’ombelico e ripescare il ripescabile, escono con un nuovo squarcio sanguinante sugli scaffali della bella ossessione, “La morte del sole”, undici tracce che hanno controllo su tutto e specialmente su quei territori umidi e malati del post-rock, tra le melme della new-vave sui quali favoriscono il ribollio di un malessere doc che gioca il suo gusto sadico e apicale di firmare la dovuta distanza qualitativa da tutta la merda sonora che c’è in giro.

Un tempaggio d’ascolto che respira anni di musica ansiogena riassemblata eccellentemente, sottesa da una paranoia scura ed una poetica claustrofobica che Peter Greenway assoggetterebbe volentieri alla sua causa estrema, non da meno a certe riletture sferraglianti di Jesus Lizard che emergono nell’angoscia intellettuale di questa ottima tracklist;  hanno molti biglietti da visita sonori i Devocka, una caratteristica imprescindibile che li vede da sempre innescare una reazione a catena tra chi li segua da tempo, ovvero concettualizzare l’urlo e la gogna dell’anima non in un piegare la testa, bensì in un gonfiare di vene riscattanti e impegnate a sobillare la ripresa di una coscienza umana dal disumano pensiero, e credete, sono ed è musica che ti coagula il sangue per poi scioglierlo in uno schizzo senza ritegno.

Il disco è un teatro fosco, dove ombre e lampi strapazzano tribalità elettriche, quelle sensazioni da incubo indotto in cui le performance del vocalist Igor sono giaculatorie verticali di un Carmelo Bene ancor più allucinato nelle verità seminate, quel freddo torpore infernale dal sapor misticheggiante e noise che partendo dal basso de “Ultimo istante” e risalendo a random questa scala di peccati e tormenti, ti gela la schiena con i “magnificat” subdoli di “Morte annunciata dell’io”, ti schiaffeggia col senso parallelo dell’utopia sgolata “L’amore”, l’escalation di corde elettriche che si aggrovigliano nei sogni disturbati di “Questa distanza”, quel Robert Smith che fa capolino insieme a lontani CCCP in “Carne” per poi chiudere e sentirsi “poveri Christi schiacciati” tra i fendenti svisati e le pedaliere sgomitanti che “Tecnologici” ci regala come beffa sublime da subire, di rabbia da riscuotere.

Oltre Igor, Ivan e Bonus, i Devocka al completo, rimane lo spazio costante di un musicare l’allucinazione con tutti i crismi occorrenti, ed è un musicare da fuoriclasse, hanno tutto quello che ci vuole per portare noi in fondo all’abisso e loro per salire in cima ad un Olimpo maledetto.

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Nicolas J. Roncea – Old Toys

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Giuro che un giorno imparerò a sognare, a disegnare nuvolette di panna con acquerelli chiari su sfondi scuri.  Non tanto per me, per accontentare gli altri. Un sound che ti avvolge come una coperta nel cuore di una gelida notte di gennaio, anni settanta nelle corde vocali, attitudine country. E’ il secondo disco di Nicolas J. Roncea battezzato Old Toys. Il sorriso viene meno lasciando spazio ad un magone intenso ma allo stesso tempo ben voluto, la stranezza del dolore che qualche volta porta piacere, la genuina semplicità di un disco suonato con il giusto appeal, poco sensuale e molto emotivo. Perché basta una chitarra ad allungare orizzonti, il semplice timbro della voce, qualche effettino elettronico piazzato al posto giusto e qualche onesta collaborazione (Mattia Boschi, Luca Ferrari, Ru Catania, Gigi Giancursi e Carmelo Pipitone) per mettere in piedi un album di tutto rispetto. Poi il talento Nicolas J. Roncea, è ovvio. Vuoi comprare il mio cuore?  Lo vendo al migliore offerente. Trovo analogie con gli esordienti Annie Hall e spero in questa cosa, poi mi strapazza per la testa anche la vissuta chitarrina di Bob Corn e del suo The Watermelon Dream , un susseguirsi di somiglianze vaghe, inutili, invadenti. Old Toys si lascia gustare interamente senza malizia, cantautorato elegante che esce dalla nicchia porgendo la mano verso l’indie pop più sofisticato, l’energia della melodia assale le nostre papille gustative, le atrofizza. La luce inizia ad invadere la stanza.

Io mi lascio investire da questo disco maturo, pronto per gettarsi nella folla senza arrossire, tenendo sempre alta la qualità della musica espressa. Old Toys è un buonissimo disco, Nicolas J. Roncea è un ottimo cantautore dei giorni nostri.

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