Ian Curtis Tag Archive
Ascolta la cover di “Ceremony” suonata dai Morning Tea
“Ceremony” è un pezzo scritto dai Joy Division prima che Ian Curtis morisse. E’ stato successivamente pubblicato dai New Order nel 1981 come singolo di debutto. In questa inedita versione suonata dai Mornig Tea (Sherpa Records).
Ash Code – Oblivion
Immaginate di camminare in una strada di periferia, una di quelle buie illuminata quel poco che basta da un paio di lampioni e dall’insegna neon di quell’unico bar presente, la meta perfetta per una notte in solitudine tra whiskey e sigarette. Una strada ai piedi di enormi grattacieli equiparabili solo a giganti di pietra, il tutto avvolto da una fitta nebbia. Questo è grossomodo lo scenario che si crea ascoltando Oblivion, il nuovo disco degli Ash Code. La band napoletana propone un sound che miscela il Dark con l’Elettronica; per essere chiari immaginate i Joy Division con un sound Elettronico, otterrete la coraggiosa proposta degli Ash Code. Nel disco c’è la cupezza e l’angoscia di quei gruppi Dark che hanno segnato la New Wave degli anni 70 e 80, il tutto amalgamato con dei synths e degli effetti che tanto piacciono ai Ministry. Oblivion è un disco di un certo livello che mette in evidenza la torbida indole degli Ash Code. La bellezza del disco sta nella sua capacità di coinvolgimento, insomma, ti trascina lievemente in oscure atmosfere. La voce di Alessandro è simile a quella di Ian Curtis, ha la stessa tonalità bassa e oscura. Claudia invece è un portento con i suoi synths, è colei che effettivamente crea la magia intorno alle canzoni. Infine c’è Adriano capace di mantenere ritmi eccezionali. In Oblivion ogni traccia ha una sua particolarità, anche se, personalmente, ritengo che la migliore di tutte sia “Waves With No Shore” con la sua melodia sinistra che ti fa decisamente viaggiare con la mente. La successiva “Dry Your Eyes” mette bene a fuoco il connubio tra Joy Division e Ministry: lo stile dei primi con l’elettronica dei secondi. “Crucified” ed “Empty Room” sono due tracce che danno la possibilità di ballare e muoversi a tempo. La titletrack ha un particolare suono in cui i synth e gli effetti ricordano tanto una di quelle musichette di quei videogiochi del Megadrive o dello Snes; se qualcuno ha giocato ai primi Splatterhouse si renderà conto delle interessanti similitudini. Passiamo direttamente a “Drama”, un altro pezzo da novanta in cui il grosso del lavoro viene svolto dalla talentuosa Claudia: la sua calda voce è accompagnata da plasticose e cupe melodie. La chiusura del disco spetta all’angosciante “North Bahnohf”: tetri synth ed oscuri effetti si accostano ai bassi toni di Alessandro. Con Oblivion parliamo di un album di alta classe che suscita un miscuglio di emozioni; è suonato bene e gli Ash Code sanno il fatto loro. Appena ho ascoltato questo lavoro sono subito rimasto rapito da quel particolare sound costruito su effetti e melodie che, in un modo o nell’ altro, ti riportano a pensieri di ogni tipo. E’ un disco da ascoltare assolutamente.
We Were Promised Jetpacks
Band scozzese giovanissima, dal nome Indie che più Indie non si può e con due dischi all’attivo senza infamia e senza lode. Ora i cinque ragazzetti (che oltre ad essere terribilmente Indie presentano dei volti terribilmente anglosassoni) approdano nel piccolo Spazio 211 di Torino per presentare il loro terzo lavoro in studio, che pare finalmente dare arie meno radicate al comodo suolo del frenetico Alternative Rock britannico. Alcuni miei amici sostengono che i We Were Promised Jetpacks abbiamo un live set killer. E questo non è l’unico motivo che mi spinge a muovere il culo dal divano il giovedì sera, ma ci si mette anche Daniele Celona che prepara le danze in apertura del concerto. Il cantautore torinese rimane uno dei miei preferiti di questi tempi, anche con uno scarno set acustico da solo, ammalia i presenti con la sua poesia Rock. Dolcezza, timidezza e pennate violente sulla sua chitarra acustica riempiono l’aria di forti emozioni. E allora oltre a nuovi brani (che vedranno la luce a breve nel suo nuovo disco) sentiamo anche le bellissime perle “Millecolori” e “Acqua” che, anche senza la potenza delle valvole e dei colpi di batteria, dimostrano di essere pura perfezione cantautorale. E’ proprio vero che una bella canzone rimane tale anche quando è scorporata di tutti i suoi fasti e ornamenti. Alle 23 circa salgono sul palco i WWPJ (com’è Indie chiamarli così!), poche luci ma ben assestate e le atmosfere della opener del nuovo disco. “Safety In Numbers” parte sottile, con la voce di Adam Thompson che scandisce bene i beat. Le tre chitarre crescono e la puzza di umido e di sudore sale, pare arrivare diretta da un becero garage di Camden Town. I cinque suonano più inglesi che mai e hanno una pacca di rara intensità. Poche fighetterie insomma e colpi ben scanditi a colpire in faccia il centinaio di persone davanti a loro. A seguire ancora un brano nuovo. “Night Terror” si propone con tanto di violenza sul rullante e basso superdistorto e ci manda un po’ al di la dell’Oceano, echi di The Strokes e The Killers. Subito dopo arriva la sicurezza di “Quite Little Voices”, bruciata già al terzo pezzo, con quegli incastri ritmici così storti e poi un treno dritto che pare avere la losca intenzione di riesumare sua maestà Ian Curtis. Spazio 211 si scalda definitivamente, ma la band non fa una piega, continua imperterrita a macinare groove nervoso con “Roll Up Your Sleves” fino all’arrivo di un’altra nuova gemma. “Disconnetting” ha sapore Trip-Hop e la voce di Thompson e il rullante di Darren Lackie si sposano benissimo alla cupa danza. L’assolo di chitarra poi è un viaggio intergalattico, poche frenetiche note in spazia aperti, senza confini. Proprio vero che questo nuovo album “Unravelling” riserva succose novità, come la seguente “Moral Compass”, scura, gutturale e con un ritornello epico e teatrale. I coretti lievemente Coldplay, spezzati dal solito intrecciarsi di ritmiche schizofreniche in “Keeping Warm”, ci accompagnano verso la fine del set breve ma intenso, carico di adrenalina e di chitarre composte ma sudate. Non si può dire che questa band presenti delle hit stellari, ma ha dalla sua un meccanismo ben congegnato e soprattutto ben focalizzato sul risultato live che, inutile girarci attorno, è raggiunto in piena regola. Altra dimostrazione è la New Wave dei primissimi U2 tirata al Noise più incazzato in “It’s Thunder And it’s Lightnening”. L’ultimo brano è a sorpresa una novità, “Peace of Mind” ci abbandona cadenzata, per nulla scontata, processione elettrica verso una luce artificiale. Verso un suono che non è per nulla leggendario, e non vuole neppure esserlo. Ma arriva lo stesso forte e chiaro, come un fascio laser ben mirato sulla nostra testa. Pronto a sparare, ci lascia coi nervi tutti ben tesi.
Musica e Cinema: Control
Control (UK, USA, Australia, Giappone)
Anno 2007
Durata 122 min
Regia Anton Corbijn
La vita del frontalist dei Joy Division Ian Curtis (Sam Riley), tratta dal libro biografico “Touching from a Distance”, in italia pubblicato da Giunti editore con il titolo “Cosi vicino, cosi lontano” (permettetemi un off-topic, tradurre “toccandosi da lontano” con un titolo che richiama in modo palese un film di Wenders, è semplicemente senza senso) di Deborah Woodruff Curtis, moglie di Ian (Samantha Morton), è descritta, almeno all’inizio, come quella di un adolescente normale. Va, abbastanza svogliatamente a scuola, ha un migliore amico, a cui frega la ragazza che poi diventerà sua moglie, è fruitore dei concerti delle allora emergenti band britanniche Alternative, la sua camera è piena di dischi e di poster dei suoi idoli ed è tifoso del Manchester City. Si sposa, ha una bambina e un lavoro, in un grigio ufficio di collocamento, canta nel suo gruppo per locali e pub di Manchester e dintorni, via via più importanti, fino alle soglie di una tournèe negli Usa che potrebbe consacrarlo.
Come ogni opera biografica che si rispetti, il film rappresenta uno spaccato di quei anni (fine anni Settanta inizio anni Ottanta britannici). Ma a differenza di altre opere del cinema inglese anche recente, non ci sono riferimenti politici e/o sociali in quella che resta uno dei periodi più tumultuosi della storia inglese, ossia l’ascesa della Thatcher e del neoliberismo che tanti squassi provocarono, soprattutto nel nord-ovest dell’Inghilterra da dove Curtis veniva. Invece gli accenni a quell’epoca riguardano solo l’ambiente musicale underground del tempo. E non potrebbe essere altrimenti dato che la sua vita e il suo mondo, la sua arte e la sua estrema sensibilità sono al centro di tutta la pellicola. Il rapporto con la moglie e l’amante Annick (Alexandra Maria Lara) rappresenta in modo molto chiaro e paradossale l’affresco di questo poeta maledetto moderno; cioè il non sapersi staccare da nulla che lui ama, quasi in maniera spasmodica, dai suoi affetti. Ai più, un tale comportamento sembrerebbe egoistico ma qui viene descritto come un estremo gesto di ipersensibilità che lo porterà alla fine all’autodistruzione.
Cosi come per l’ambiente che lo circonda, anche gli altri personaggi risultano schiacciati dalla sua figura: il suo gruppo quasi scompare, Tony Wilson è trattato come una comparsa, i genitori sono dipinti in modo anonimo e asettico. L’unico che emerge un pochino è il manager dei Joy Division, ma forse più per la bravura dell’attore che lo intrpreta (Toby Kebbel) che per altro. Il rapporto con la malattia, incontrata casualmente e che sarà fonte del brano “She Lost Control” e l’abuso di psicofarmaci per curarsi, anche in questo caso, quasi non traspaiono nel film, quasi come scelta di far emergere ancor di più le sue debolezze e i suoi tormenti. La sua musica, poi, è l’elemento centrale del film. Non a caso la regia è curata da Anton Corbijn, qui al suo primo lungometraggio, che proviene dai video musicali (“Atmosphere” dei Joy Division, “Heart-shaped Box” dei Nirvana e “Straight to You” di Nick Cave and Bad Seeds, sono solo alcuni dei video che ha diretto), dal già citato sonoro (i brani sono realmente suonati e cantati dagli attori, escluse le sole “Love Will Tear us Apart” e “Atmosphere”, mentre sono presenti, nella colonna sonora, brani di The Killers, Bowie, Sex Pistols e New Order, spesso risalenti, quando possibile, all’epoca dei fatti), alla scelta del bianco e nero, fino alla lentezza della regia, non fa altro che amplificare il senso di cupezza del personaggio Ian Curtis.
Il regista sceglie di far passare l’ultima notte di Ian , ascoltando l’album The Idiot di Iggy Pop e soprattutto vedendo il film “La Ballata di Stroszek” di Hezog che ci sentiamo vivamente di consigliare. Control è quindi come un bel film, che sicuramente piace e piacerà ai fan dei Joy Division o degli ambienti musicali alternativi, ma sarà difficilmente apprezzato da chi certi ambienti non li conosce non li frequenta o non li ha mai frequentati.
Il film completo in lingua originale