Cavalcare sempre la cresta dell’onda non è cosa semplice, soprattutto per una band ormai decennale e con sfracelli di dischi, progetti e collaborazioni alle spalle. Gli Zen Circus dopo un anno di silenzio volontario dedicato ad altre situazioni non mancano l’appuntamento discografico del duemilaquattordici (dove l’Indie italiano d’èlite sput(a)erà dischi a ripetizione) partecipando alla fiera delle uscite con il nuovo Canzoni Contro la Natura. Io sinceramente non ho mai capito cosa la gente si aspettasse dal Circo Zen, non capisco neanche quando venivano considerati questo eccelso prodotto, però capivo che mi piacevano e pure parecchio. Naturalmente il genio non vive eternamente dentro l’indole compositiva di Andrea Appino e compagni, ma una volta entrati nella loro dimensione scanzonata tutti gli altri ascolti che seguono perdono di lucidità. Penso più a Zen Circus come schiaffo all’ipocrisia culturale in Italia. Il precedente disco solista di Appino (Il Testamento) non aveva infiammato il mio cuore lercio da punk invecchiato ma mi aveva così poco coinvolto che quasi non riuscivo a spiegarmi la targa Tenco come miglior esordio. Canzoni Contro la Natura arriva proprio nel momento in cui avevo bisogno di spensieratezza musicale, non mi aspettavo stravolgimenti epocali, sapevo quello che avrei trovato. “Viva” primo singolo estratto dal disco mette subito le cose in chiaro, pezzo semplice e bastardo, il diretto interessato capisce subito quali saranno i compromessi dell’intero lavoro. Un buon lavoro di marketing e il gioco è fatto. Problemi relazionali in “Postumia”, siamo una società incapace di comunicare, un invito a guardarsi negli occhi suonato a ritmi poco concentrati. “Il futuro me lo bevo per non pensarci” cantano i combattenti del Folk Rock. E anche qui spezzo quindici lance a loro favore. Title Track “Canzoni Contro la Natura” e reggetevi forte perché a parte il basso crepato come meglio non si poteva e un ritornello alla kiwi e melone il resto mi delude assai. L’arroganza degli Zen Circus dove è andata a finire? Pezzo molto potente che perde il controllo, poco istinto e tanta finzione. È destinata a diventare la Hit del disco. Voglia di fare “spessore artistico” in “Albero di Tiglio”, il testo e la voce di Appino prendono tutta la scena di una canzone dai riff mediocri che non lasciano niente di dolce in bocca, innervosisco davanti a questa necessità di sentirsi intellettuali. De Andrè volutamente ricordato in “L’Anarchico e il Generale”, viene subito alla mente “Il Pescatore” anche perché Appino non è affatto nuovo a questo genere di omaggi, già nel suo precedente disco da solista aveva composto il brano “La Festa della Liberazione” ispirandosi fortemente al brano di Dylan “Desolation Row”. Queste trovate artistiche sono da considerarsi perfette per paraculare l’ascoltatore, Appino mi piace. “Mi Son Ritrovato Vivo” è il classico pezzo sornione alla Zen Circus, ci siamo capiti, niente da aggiungere. “Nessuno regala niente nemmeno l’onnipotente”. Arie Folk che sanno d’Irlanda. “Dalì” puzza di Western e non trovo la collocazione giusta per incastrarla, improbabile riempi disco al gusto di necessità. Non gradisco le forzature. Azzardano molto a fare i cantautori nonostante il risultato giochi a loro svantaggio in buona parte dei pezzi. Questi Zen Circus sono parecchio lontani dagli anni di Villa Inferno con Brian Ritchie, inevitabilmente gli anni passano per tutti e le idee iniziano a mancare. Canzoni Contro la Natura andrebbe preso e scremato per bene e ne uscirebbero fuori due dischi distinti, uno con voto dieci e l’altro con voto due. La media è sei, giusto Prof?
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Appino e Il Testamento 25 Aprile @Magnolia
25 aprile in un Magnolia non pienissimo sono in attesa di partecipare a un live ricco di aspettative, soprattutto musicali, visto che per il suo primo lavoro da solista Appino si è circondato di musicisti di gran rispetto come Giulio Favero e Franz Valente, militanti nella sezione ritmica del Teatro Degli Orrori, ed Enzo Moretto dei navigati A Toys Orchestra. Il lavoro realizzato dalla voce degli Zen Circus si discosta, e non poco, dalla consueta veste nella quale si è solito ascoltarlo. Niente Pop/Punk irriverente e ironico, tutto è momentaneamente congelato per dar spazio a un mondo oscuro, tetro fatto di demoni e masse alienate, di sentimenti dalle sfumature nere come la pece e rosse, di quelle porpora degne di un horror all’Argento. La gente stasera non è venuta con le scarpette lustre e le maglie lucenti per passare una serata scanzonata, è tutta lì per ascoltare un album che ha rapito per la profondità dei testi e il peso delle parole. Il live purtroppo incomincia con qualche problema acustico, il Magnolia è un posto nato per la musica ma questa volta le pecche sono molteplici sia per la voce sia per il basso. L’inizio è comunque oltremodo irruento, rock duro e puro quello che esce dalle note di “Fiume Padre”, “Fuoco” e “Lo Specchio Dell’Anima”. Tripletta devastante dove l’impronta del duo ritmico del Teatro Degli Orrori si fa sentire di prepotenza, manca solo che Appino si trasformi in Capovilla, ma questo per fortuna non accade. Si accentuano le sincopi e i toni psichedelici con “Passaporto”, nella quale Favero abbandona il basso per dedicarsi ai synth. Fino adesso i suoni sono ricchi di distorsioni e la stessa voce di Andrea si fa decisamente più sporca rispetto al disco. il live rende questo disco, grezzo, accentuandone in maniera decisa la durezza. E’ tempo di ascoltare la title track “Il testamento”, dedica a Mario Monicelli ed intensa come poche. Si prosegue con un omaggio e una dedica ad un giorno come il 25 aprile e “Questioni Di Orario” risuona per tutti quelli che sono figli di nessuno, un po’ come noi italiani verrebbe da pensare. L’esplosività della prima parte lascia il passo a melodie più chiare e delicate nelle quali le chitarre travolgenti si prendono un profondo respiro per lasciare la sola voce di Appino nei “I Giorni Della Merla” a scaldare la platea, tanto che dismessi per un attimo i panni da roker scende a cantare con il pubblico, come se all’improvviso fossimo tutti catapultati ad una festa tra ragazzi che urlano emozioni al cielo. Si continua sul filone ballata con “Godi” e con un marcato accento pisano si fa anche ironia sul tema del carpe diem. Il momento intenso e melanconico si infrange nell’istante in cui si intuiscono le note di “Tre Ponti”, il ritmo riprende e la chitarra di Moretto si incendia, tanto che lo stesso Appino finisce travolto in un duetto all’ultima nota. Segue il primo singolo “Che il lupo cattivo vegli su di te”, una vera ninna nanna di cui però rompe gli schemi tradizionali per trasformarsi in un incubo ad occhi aperti degno dei fratelli Grimm. Pelle d’oca non c’è altro da dire, difficile stare fermi o non cantare un motivetto così pervasivo. Seconda citazione per Monicelli con il brano “Solo Gli Stronzi Muoiono” con annessa invasione di campo o di palco da parte di un troppo esuberante ascoltatore, per fortuna allontanato dal microfono dalla discreta security. Appino si rivolge al pubblico: “Avete paura di morire?” E mentre sale un corale no in sottofondo parte una sommessa marsigliese sulla quale si innesta una paranoica “Schizofrenia” pezzo selvaggio, vero Punk Rock che chiude il concerto. Il gruppo esce ma tutti sanno che manca ancora qualcosa all’appello, e infatti si torna sul palco per i saluti finali e per concludere questo viaggio nell’Ade personale di Appino con due brani: l’attuale “1983”, canzone dedicata al presidente Pertini e al suo discorso di Natale, e con ultima perla: “La festa della Liberazione”. Appino indossa le vesti da cantautore vissuto, imbraccia la chitarra e la fisarmonica e ci incanta con una ballata alla Bob Dylan dal sapore agre come il fiele, che per me vale tutto il concerto. Il super gruppo ci lascia ai synth e alle distorsioni ad libitum che stonano con tutto l’atmosfera creatasi lasciando gli ascoltatori allontanarsi tra rumori e distorsioni. Bel lavoro, bel concerto, un 25 degno di essere ricordato.
Appino – Il Testamento
Andrea Appino, la “faccia” degli Zen Circus, da alle stampe questo Il Testimone, un progetto in solitaria che non significa per niente l’addio alla band sopracitata, solamente una valvola di sfogo personale, per mettere in musica i suoi tasti sensibili nonché i bruciori poetici della finezza, tracce (quattordici) che lavorano stili diversi e destini differenti, un bella mixture di rock, forza e amore, magari ricco di troppe parole, ma che non rubano lo spazio alla musica, piuttosto un’audace convivenza ed un primo approdo all’ipotesi di un “destabilizzante” disco perfetto. L’artista pisano, qui col violino di Rodrigo D’Erasmo, Franz Valente alla batteria, Giulio “Ragno” Favero al basso e Enzo Moretto alle chitarre, non lascia niente di intentato, scrive, corrobora e fabbrica un piccolo manifesto underground pregevole, argomenta – tra gli interstizi della tracklist – umori e rumori di pensiero, come lo stupendo omaggio alla memoria di Mario Monicelli inciso nella titletrack, traccia che già di per sé alza il quoziente “intellettivo” dell’intero registrato: la sua è un’arte dove realismo e vissuto artistico si fondono all’unisono, un corpo ed un’anima al servizio di una credibilità che viene spontanea e che elude vie o transiti “faciloni” pur di arrivare, una scrittura che addenta un filo logico e ne tesse poi una sequenza da raccontare ad alta o viva voce. Senza mezzi termini, l’album è una radiosa premessa, potrebbe diventare grandissimo come pure il suo autore ed è giusto che sia così, non è di tutti i giorni ascoltare un esponente di una famosa formazione rock che riesce a divincolarsi dal precostituito ed intraprendere – di testa sua – un percorso non riempiticcio, vizioso o da primadonna, è raro, e quando capitano c’è da tenerseli stretti stretti.
Un serafico Giovanni Lindo Ferretti che balugina in “Passaporto”, il delirio di “Specchio Dell’Anima”, la ballata folk di stampo Bubola “La Festa della Liberazione”, una parvenza di dolcezza amara “Godi (Adesso Che Puoi)” e la giugulare paonazza che fibrilla nell’hard-core addomesticato di “Solo Gli Stronzi Muoiono”, e poi ancora amore, rabbia, depressione, gioia e sogni, e poi ancora un Appino che brilla e commuove in una splendida “opera prima”, in una tenera “prima volta”.