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Alex Secone alias IlSognoIlVeleno

Written by Interviste

La nuova promessa del cantautorato italiano viene dal nostro Abruzzo. Lui è IlSognoIlVeleno e nell’intervista che segue ci racconterà i sogni e le paure di chi vorrebbe poter vivere facendo quello che la natura sembra avergli suggerito. Ci parlerà dell’Italia e dei suoi difetti, delle sue canzoni e di Parigi, della musica e della vita. Belle parole di un uomo che con i suoi pochi anni ha più da dire di tanti vecchi santoni del Rock e ci chiede solo un pezzettino della nostra esistenza da dedicare alle sue canzoni. Chi scommette su di lui?

Ciao Alex. Per prima cosa, come stai?

Bene, grazie. Mediamente abbronzato e con tanta voglia di suonare.

Raccontaci brevemente chi sei come sei diventato quello che sei, musicalmente parlando.

Sono uno che studia pianoforte da quando aveva sei anni e che un giorno ha deciso di scrivere la sua prima canzone. Da lì è cominciato tutto. Col tempo poi, affini l’orecchio, gli ascolti, trovi dei musicisti che fanno al caso tuo e dai fuoco alle polveri.

Cosa ti manca per essere come Dente, Brunori, Vasco Brondi, Mannarino, Di Martino ecc..

Potrei darti due risposte: quella maliziosa e quella più istituzionale. Se volessi essere malizioso ti direi che non conosco un numero sufficiente di persone che contano nel fantomatico ambiente ‘indie’. La risposta istituzionale invece è che loro sono più bravi, che io sono più giovane di loro e che quindi ho tutto il tempo di crescere. Scegli tu quella che preferisci.

Qual è il futuro della musica italiana? Come te lo immagini?

Non molto diverso da ora per la verità. In Italia c’è sempre stata un’élite intoccabile e inavvicinabile e poi tutto il resto che si dà molto da fare ma che raccoglie un centesimo di quello che meriterebbe. Questo naturalmente non vale solo per la musica. Internet ha solo aumentato il numero di proposte, di gruppi, di dischi in circolazione. Poi però alla fine son sempre molto pochi quelli che riescono ad ottenere soddisfazione e sicurezza economica da un mondo come quello musicale. Il punto fondamentale, e anche molto semplice, è che le persone ascoltano quello che ascoltano gli altri.

Che diavolo di nome hai scelto? Inusuale direi. Perché?

Non lo so neanch’io. Mi piaceva l’idea di accostare due nomi che non avessero nulla in comune ma che insieme dessero l’idea di qualcosa di vagamente poetico. Alla fine è una sorta di sunto della mia musica, credo: da una parte l’aspetto positivo, sognante e dall’altro la disillusione, la totale mancanza di speranza.

L’Abruzzo non è certo terra per musicisti emergenti. Nascere a Teramo invece che Roma o Milano non ti spiana la strada. Diverse le infrastrutture, diverse le opportunità, i locali, la scena, le distanze dalla vita. È davvero un problema cosi grande o sono io che esagero?

Non esageri. E’ così. Purtroppo le possibilità di emergere non sono così tante neanche nelle grandi città che hai citato. Non so se sia un mio cattivo vizio ma io riconduco sempre tutto a un problema culturale prima che burocratico o di infrastrutture. La verità è che a noi italiani piace sempre ascoltare il già sentito, leggere il già letto, fare il già fatto. Dà un senso di sicurezza probabilmente ma così è. Lo spazio per le cose nuove è ridotto a poco più di zero e non parlo certamente per me. Ho la sensazione che sia un discorso che investe tutti a tutti i livelli.

Di recente hai suonato al Soundlabs di Castelbasso e Civitella (vicino Teramo), dove c’erano anche, Amelie Tritesse, John Wolfington, Nigel Wright, Delawater, Let’sBuyHappiness, A Classic Education, Veronica Falls, Orlando Ef, Di Martino, Jens LekmaneThurston Moore. Come è andata? Hai conosciuto qualcuno di loro?

E’ andata bene, ci siamo divertiti molto. Ho conosciuto Antonio Di Martino insieme ai suoi musicisti Giusto Correnti e Angelo Trabace. Sono persone splendide con le quali puoi parlare di qualsiasi cosa senza orari e non è una cosa così comune anche nel fantomatico ambiente indipendente. Antonio è una persona umile e perfettamente consapevole di quello che fa. Mi ha colpito molto e ricorderò sempre con molto piacere la lunga chiacchierata sul lungomare di Roseto.

Perché il Soundlabs non decolla?

Le ragioni sono diverse. Il Soundlabs ha sicuramente il merito di voler essere un festival diverso dagli altri, con grandi artisti magari poco conosciuti in Italia, ma questo naturalmente non basta. E’ ancora più difficile organizzare tutto questo in provincia. Se aggiungi che il costo dei biglietti non è proprio popolarissimo le cose si complicano.

Cosa non funziona nel sistema musicale italiano? Colpa dei media, del pubblico, delle etichette. Perché a vincere sono sempre i peggiori?

Premettendo che non credo che a vincere siano sempre i peggiori posso dire che anche qui i motivi sono tantissimi. E’ difficile rispondere a questa domanda in maniera completa e con cognizione di causa. Io dico questo: penso che l’Italia stia vivendo una delle peggiori crisi culturali della sua storia recente, perfino peggio di quella degli anni ottanta. Naturalmente i media si adeguano dando al pubblico ciò che il pubblico vuole. I media però non si limitano ad assecondare questo gioco al ribasso ma loro stessi ne sono i corresponsabili dando vita a un terribile cortocircuito dal quale è difficilissimo venir fuori. Odio le generalizzazioni e quindi so perfettamente che ci sono tante persone che rifiutano questo status quo ma evidentemente non sono ancora abbastanza per poter cambiare le cose in maniera radicale.

Il tuo primo album si chiama “Piccole Catastrofi”? Semplice ironia?

Potrebbe essere. Le catastrofi del disco sono a volte catastrofi personali, private; altre volte invece riguardano il nostro paese, hanno una dimensione più ampia. Sono un pessimista ma il disco non lo è. Lo definirei più un album dei ricordi e delle disillusioni.

Il primo brano è “Nouvelle Vague”. Hai un legame particolare col cinema francese di Truffaute/Godard? Catturare “lo splendore del vero” diceva Godard. Parole fatte per te. E’ una casualità?

Il cinema francese, e nello specifico il breve periodo della nouvelle vague, mi ha sempre molto affascinato e di conseguenza ricopre un aspetto importante in quello che è stato tutto il processo di ispirazione e scrittura del disco. Fu un periodo molto speciale, contraddistinto dalla voglia spasmodica di andare controcorrente, di cambiare le regole esistenti. E’ una cosa vitale per l’arte in genere e per questo ho voluto omaggiare quell’atmosfera speciale nel mio primo disco.

C’è anche tanta Francia dentro l’album. C’è qualcosa che ti affascina di Parigi e dintorni più che il resto del mondo?

Diciamo che Parigi ha un’atmosfera del tutto particolare e soprattutto riconoscibilissima. La vedi, la vivi e ti rendi conto che quelle sensazioni che ti circondano non le trovi da nessun’altra parte. E’ questo che mi piace di Parigi, la sua unicità, il suo stile, la sua raffinatezza che nessuno potrà mai cancellare.

In “Bistrot” trovo evidente l’assonanza con la “Ballata Dell’amore Cieco” di De Andrè. Omaggio, caso o cosa?

Solo un caso. Confesso di non aver mai pensato alla canzone di De Andrè. Dopo tutto, pur essendo caricata di eccessiva enfasi per evidenti motivi di scrittura, è una storia d’amore travagliata e violenta di cui non è così raro leggere sui giornali. Al di là dell’esagerazione a me interessava il significato sotteso del testo, mettere in luce l’avidità, la violenza e l’opportunismo di cui è capace l’uomo.

La cosa più bella del disco è che, nonostante si capisca che c’è tanto dentro, dagli arrangiamenti splendidi, ai testi, dalle melodie indovinate, alla strumentazione più variegata, si respira un’atmosfera di naturale semplicità che non significa tuttavia, testi immediati e banali. Cosa ti piace del tuo disco? E cosa non ti piace?

Soprattutto le melodie, lo confesso. Alcune le trovo davvero indovinate. Mi piace molto anche il respiro volutamente retrò degli arrangiamenti. Non sono completamente soddisfatto della produzione ma è pur vero che è il primo disco. C’è tutto il tempo di intuire e seguire il proprio suono.

Dal vivo non sei solo. Presentaceli.

La banda che suona con me dal vivo è così formata: Andrea Marcone alla batteria, Emanuele Carulli alle chitarre e Sandro Cubeddu al basso. Andrea è quello che mi segue da più tempo, Sandro ed Emanuele sono entrati a far parte del gruppo qualche mese fa. Ci divertiamo molto in giro, sono molto contento della resa sul palco.

Cosa ascolti di solito. Consigliaci un gruppo o un disco del passato e fammi un nome su cui scommettere (non necessariamente italiano).

Ho i miei punti fermi che torno ad ascoltare ciclicamente (Bowie, Battisti, Cohen e Tenco su tutti) ma per il resto la mia curiosità mi guida automaticamente verso nomi e dischi nuovi da ascoltare.

Per quanto riguarda il disco del passato ti dico Songs of Leonard Cohen, il suo primo disco, che per me ha significato un punto di non ritorno verso certe atmosfere. Il nome su cui scommettere naturalmente sono io.

“Bisognerebbe dare onorificenze alla gente che fa i plagi”.  Che ne pensi?

Credo che la frase sia di Renoir. In ogni caso, con tutto il rispetto, distinguerei tra plagio e citazione. La citazione può essere un modo intelligente di saper riconoscere in modo onesto le proprie influenze. Ha una sua legittimità. Il plagio manca a mio avviso di quell’aspetto ‘critico’ che ogni artista deve necessariamente avere per far sì che la propria arte, e l’arte in generale, faccia un passo in avanti, cambi, muti la sua forma.

Dal vivo, a prima vista sembri un tipo parecchio spavaldo e sicuro di se ma parlando mi sei sembrato invece piuttosto malinconico e disilluso. Chi sei veramente?

Non sono di certo spavaldo. Sicuro di me forse sì ma anche qui ci sarebbe molto da dire. Malinconico e disilluso penso che siano due aggettivi che centrano meglio la questione. Per il resto preferisco che siano gli altri a dare di me le loro versioni. Io non credo di essere capace di descrivermi, sono troppo pigro per farlo.

Quali sono i tuoi prossimi progetti live e studio?

Per quanto riguarda i concerti c’è da pianificare il programma invernale. Spero di riuscire a suonare in posti ancora mai raggiunti finora. Per quanto riguarda invece il lavoro in studio è ancora presto. Sto scrivendo però alcune canzoni nuove, mi piacciono molto ma ripeto, è ancora prematuro per parlare del secondo disco. Vorrei portare in giro Piccole catastrofi ancora per un po’.

Dove vuoi arrivare?

Non lo so. Citando qualcuno, non mi interessano gli arrivi, mi importano solo i viaggi.

Il mio tormentone. L’arte è prostituzione, diceva Baudelaire. Si può (soprav) vivere oggi, solo della propria arte?

E’ difficile in generale, lo è ancora di più in Italia. Vivere della propria arte è quasi impossibile, sopravviverci è una prospettiva più realizzabile. La sopravvivenza non la vedo, però, come una prospettiva così negativa. Io mi accontenterei senza problemi ma anche la sopravvivenza è da sudare. E molto.

Quale è il tuo sogno di musicista e la tua paura più grande?

Un sogno potrebbe essere quello di arrivare al maggior numero di persone possibile senza perdere nulla in libertà artistica, anche se il sogno più grande per me resta riuscire a ricordare i testi sul palco, sarebbe davvero fantastico. La paura più grande invece è rendersi conto di non avere più la minima ispirazione neanche per riuscire a mettere due accordi in fila, non essere capaci più di scrivere mezzo verso. Ecco, questo per me sarebbe uno scenario da fine del mondo.

In relazione al tuo percorso artistico a chi devi dire grazie e chi mandare affanculo?

Beh il grazie più grande va certamente alla mia famiglia che ha sempre appoggiato qualsiasi pazzia mi venisse in mente di fare in relazione alla mia volontà di suonare. Mandare affanculo invece non fa parte del mio carattere, preferisco tacere e godermi in silenzio l’altrui disfatta quando arriverà il momento. Perché arriverà.

Chi odi della scena indie italiana? Chi ti piace? Voglio nomi.

Non farò mai un nome a mezzo stampa. Non riuscirai a tirarmelo fuori neanche con l’ausilio di terribili torture medievali.

Dimmi quello che avrei dovuto chiederti e non ti ho chiesto? Poi, se vuoi, rispondi.

Avresti dovuto chiedermi se dopo tutte queste risposte da finto intellettuale in realtà suono per conquistare cuori femminili.

La risposta è: “Assolutamente sì”.

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