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Primavera Sound Festival 2014 | Day 1
È giovedì 29. Vengo svegliata da un trillo del cellulare mai udito prima. Sono le 15.45 e l’app del Primavera Sound mi ricorda che tra un quarto d’ora c’è Colin Stetson all’Auditori Rockdelux. La serata di ieri seppur deludente si è conclusa alle 5 di questa mattina, ed io mi sono fatta fregare dal jet lag della corsa in taxi tra l’Apolo e il Borne. Questa applicazione che funziona da reminder e ti avverte ogni qual volta sta per iniziare una delle esibizioni che hai salvato tra i preferiti si rivelerà ben presto un’ansiogena trovata, complice la mia ingenuità prima della partenza nell’apporre stelline sulla quasi totalità degli show. Pur di non ascoltare quel trillo che arriverà puntuale ogni quarto d’ora la disinstallerò prima della fine del festival. In questi tre giorni il Forum non conoscerà imprevisti. Ogni evento inizierà e terminerà quando stabilito. Roba da sospettare che in questa rassegna che si tiene in una morbida cornice mediterranea ci siano in realtà molti ferrei zampini anglosassoni. D’altra parte, sarebbe impossibile pensare alla riuscita di tutta la storia senza una buona dose di disciplina alla base. L’organizzazione del Primavera Sound è una macchina sapientemente progettata per la prevenzione di ogni tipo di catastrofe ambientale che una bolgia di circa duecentomila persone che bramano divertimento sarebbe in grado di provocare. L’area in questione è uno spazio di circa 95.000 metri quadrati. Tre sono le coppie di palchi su cui si alternano gli headliner (Heineken-Sony, ATP-Rayban, Pitchfork-Vice), e tutt’intorno altri stage di dimensioni più piccole ospitano decine di altri artisti: uno di questi spazi è l’Adidas Original, su cui si esibiranno le band italiane di Sfera Cubica. Nel lasso di tempo in cui uno degli stage ospita un set, sul palco gemello i tecnici smontano l’allestimento del precedente show e rimontano il tutto per quello successivo. Se nella vita avete avuto modo di vedere l’armamentario di luci di scena che si portano dietro i Nine Inch Nails capite bene che il tempo di una esibizione, che va dai 40 ai 90 minuti, per questa operazione è estremamente ridotto.
Oltre agli stage all’aperto c’è un auditorium, il Rockdelux, al piano interrato del suggestivo edificio antistante il parco, fatto di specchi e roccia azzurro mare, il Museu Blau di Herzog & de Meuron. È qui che si esibisce Julian Cope. Lo storico cantante dei Teardrop Explode dagli anni 70 a oggi ha attraversato tutte le tendenze uscendone illeso e più eclettico di prima. Accompagnando la sua voce roca e intensa solo con la chitarra acustica, intona il collaudato repertorio di fronte a un pubblico trasversale per età ma omogeneo in quanto a predisposizione a lasciarsi coinvolgere da un sound nostalgico che è inevitabilmente le fondamenta di tutti i giovani performer là fuori sugli stage. Nel frattempo sul palco Heineken, uno dei più grandi, si fanno spazio i Real Estate. Americani del New Jersey e figli di Pitchfork, con un nuovo album registrato nello studio degli Wilco si guadagnano i piani alti della line-up dei uno dei festival più cazzuti. Personalmente non disdegno il Dream Pop, e mai oserei contraddire supporter di tale calibro, ma arrivata all’estremità sud del recinto del Primavera scopro che il numero dei presenti è alquanto esiguo, tanto che mi lasciano persino oltrepassare la prima fila di transenne fino all’area vip semi deserta (passeremo i giorni successivi a chiederci chi siano questi fantomatici vip senza peraltro giungere a una risposta). Il ritornello di “It’s Real”, noto agli italiani per lo più come jingle dello spot della tv in digitale del Berlusca, riesce appena a scaldare gli animi. I ragazzi saranno anche arrivati fin qui ma a quanto pare nessuno è riuscito a togliere loro quell’attitude da liceali che strimpellano in garage. Il primo intenso live della mia giornata deve ancora iniziare, e sta per farlo proprio alle mie spalle. I Midlake salgono sul Sony al tramonto, e l’atmosfera è quanto di più appropriato si possa immaginare. Tengono botta nonostante il peso dell’assenza di Tim Smith, e l’aria vibra in egual misura della compostezza melodica dei brani rodati di The Trials of Van Occupanther così come delle sferzate elettriche del nuovo Antiphon. Nel mentre, a qualche centinaio di metri da qui, sono certa che i C+C=Maxigross se la stanno cavando alla grande, dando sfoggio del loro Folk fatto di lisergici cori a cappella. Un pizzico di orgoglio italiano mi dice che dovrei presenziare, ma questo è solo il primo dei tanti momenti che mi vedranno costretta a scegliere tra la performance di una pietra miliare della musica degli ultimi decenni e quella di un promettente progetto affacciatosi da poco sulla scena contemporanea. Resto al Sony a veder calare il sole di questo primo giorno di Primavera sul giro di chitarra di “Head Home”. Quest’oggi i miei piani prevedono poche brevi corse, palleggiandomi dal palco Sony all’Heineken, che si fronteggiano a poche centinaia di metri l’uno dall’altro. Dopo una decina di minuti di performance delle Warpaint però mi pento un po’ di non aver fatto una lunga passeggiata fino allo stage Vice, dove nel frattempo immagino quella bolla emozionale di sintetizzatori allo stato liquido che dev’essere il set dei Caveman. L’Art Rock tutto al femminile delle Warpaint è interessante nel suo muoversi in un preciso universo sonoro, che non si lascia scalfire da tentazioni mainstream, ma i malinconici bassi sembrano non riempire a sufficienza un palco tanto imponente e gli spiriti di un pubblico avido di energia propulsiva che faccia partire la serata. Alle ore nove e un quarto, con in mano un hamburger che sa di topo, sono di fronte alla più dilaniante delle decisioni di oggi. Dopo questo surrogato di cena le strade possibili saranno tre. Tra poco lo stage ATP sarà invaso da una numerosa formazione da poco ricongiuntasi, caposaldo del Folk Rock del secolo appena trascorso. A dieci minuti a piedi da qui, sul palco Pitchfork, sta invece per salire una delle band più promettenti dell’anno, freschi di un album con la 4AD che mi è piaciuto un sacco. Tra i Neutral Milk Hotel e i Future Islands scelgo la terza strada, e con una discreta scorta di birra torno al Sony ad attendere St. Vincent. A conti fatti, delle gesta passate di questa fanciulla dalle sembianze della strega buona del Mago di Oz sono abbastanza ignara. Il self-titled uscito quest’anno è il suo quarto album e a quanto pare finalmente il disco della consacrazione, polistrumentale nel sound e polisemico nelle liriche, che le vale il nome scritto col font grande sul cartellone del festival, come quello di alcune band con cui fino a ieri si esibiva come opening act. Qualcosa mi dice che vale la pena vederla en directo. Annie Clark sale sul palco, è eterea e stupenda e sprigiona immediatamente tutta l’energia della sua musica inusuale come il fascino che emana da ogni poro. Elegantemente robotica nelle movenze, che diventano spesso vere e proprie coreografie, mi dice che la mia scelta è quella giusta, questo è uno show di quelli che meritano di essere visti dalle prime file: la maestria negli assoli di chitarra e la voce suadente e rotonda sono un tutt’uno con il suo sguardo altero e maledettamente magnetico fisso sul pubblico davanti a lei. Sofisticata nel suo look futuristico fatto di opposti che combaciano, il bianco platino della chioma selvaggia e il nero del neoprene che le calza come un guanto, intonando la melliflua “Prince Johnny” sale su un piedistallo sui cui gradini poi improvvisamente si abbandona, ed io penso solo che poche dive nella storia sono state in grado di rotolarsi giù per le scale in maniera tanto sensuale.
Al termine della performance di St.Vincent, il palco sui cui a breve saliranno i Queens of the Stone Age è già sotto assedio. Mi tocca un bel posto sfigato da cui non ho la possibilità di vedere altro che i maxischermi, tra gli stand degli alcolici e i cessi. I QOTSA mi regalano le inconfondibili chitarre di “No One Knows” poco prima che io mi congedi: mi inchino a tutto il Rock e il Blues e la psichedelia del talento di Josh Hommes e soci ma nel procedere all’infausta selezione a cui mi sono dovuta piegare ho ormai capito che una corsia preferenziale va riservata a quelle esibizioni che si prospettano veri e propri live show sotto ogni aspetto, in cui è essenziale la componente visiva, e se con Annie Clark ne avevo solo il sentore con gli Arcade Fire sono invece pronta a metterci la mano sul fuoco. Lancio un’occhiata di nuovo verso lo stage Sony e capisco che è già ora di andasi a sudare uno spazietto vitale tra la folla. Quand’è che gli Arcade Fire sono diventati grandi? Voglio dire, per me lo sono stati sin dal primo ascolto di Funeral, ma quand’è che in generale la devozione per loro è passata dalla forma dell’ascolto estatico a quella dell’esaltazione collettiva? Sì, voglio dire esattamente quella cosa là: quando sono passati dall’underground al mainstream? Non parlo di dimensioni ne’ di zeri nel cachet. Il mio è puro stupore nel constatare che ad attendere gli eclettici canadesi ci sia una campionario umano tra i più assortiti, ragazzini che ti aspetteresti di trovare ai piedi di Justin Bieber compresi. Sentire poi intonare “Rococo” dalla folla come fosse un coro da stadio è l’ultima cosa che mi sarei aspettata. Si può giungere ad un prodotto dal taglio tanto universale pur percorrendo strade squisitamente tortuose e innovative? Credo che sia questa la scommessa che gli Arcade Fire hanno vinto a mani basse. Il set dura un’ora e mezza che vola via, su un palco pieno zeppo di strumentazione di ogni epoca, Win Butler e la sua chitarra piantati nel mezzo di un carnevale di luci ed effetti e di specchi sospesi che li moltiplicano all’infinito, Régine che volteggia da un capo all’altro imbracciando gli strumenti più impensati, e tutta intorno una grande famiglia allargata di musicisti che si producono in armonizzazioni estreme con una disinvoltura sconvolgente. Lo spettacolo ruota tutto intorno ai brani di Reflektor. Quattro adolescenti spagnoli accanto a me gridano indemoniati in un inglese esilarante le parole di ogni pezzo. Dopo il sofisticato ritmo Dance di “Afterlife” le luci si abbassano, e in un attimo Régine è su una pedana del bel mezzo della folla, lei e Win si guardano da lontano duettando sulla morbida di coda di “It’s Never Over”. Un intermezzo di Samba tropicale, su cui salgono sul palco a ballare anche le testone di cartapesta ormai segno distintivo del Reflektor Tour, sfuma poi in un Rock acido che diventa “Normal Person”. Nel bel mezzo del ritmo travolgente di “Here Comes the Night Time” una miriade di coriandoli esplode e colora l’arco di cielo scuro sopra la folla. È un crescendo interminabile, che soltanto nei cori trionfali di “Wake Up” trova la sua naturale conclusione.
Ne esco sazia ed esausta. Sono in piedi da sette ore ed è per mia pura e inesorabile stanchezza che i Disclosure vincono sulla Techno teutonica dei Moderat. Quando la folla dietro di me si disperde i fratelli Lawrence sono già sul palco Heineken. È un set House che possiamo anche gustarci seduti a terra in mezzo a una specie di discarica di bicchieri di plastica. La realtà è che tutto quello che verrà dopo i pirotecnici Arcade non avrà molto impatto sui miei sensi. Gli stessi Metronomy sottolineano meravigliati (e forse un po’ delusi) il fatto che a loro tocca chiudere alle 3.30 una giornata che ha visto susseguirsi una serie di mostri sacri, davanti a un pubblico ormai più che appagato. Un po’ del loro elegante Elettro Pop dal sapore anni 70 seduti sui gradini della cavea del Rayban ed è ora di salutare il Forum. Al cospetto di Mangum e soci c’era invece la mia amica Elena.
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Attendevo con ansia il live dei Neutral Milk Hotel, più o meno da quando rimasi folgorata al primo ascolto del loro album più acclamato. Ed avevo delle grandi aspettative che sono state più che confermate. Il fondatore della band Jeff Mangum sale sul palco con il suo gruppo fresco fresco di reunion (fortuna per noi). Difficile non restare colpiti dai personaggi quasi fiabeschi che lo compongono e dalla particolare strumentazione che hanno, tra cui banjo, cornamuse ed una sega ad arco. Il concerto inizia con la prima traccia di In the Aeroplane Over the Sea ed il pubblico è già in delirio. Ma è solo quando il resto della band lascia solo sul palco Mangum per intonare “Two Headed Boy” che mi rendo conto del grande potere di quest’uomo. Soltanto con la sua voce ruvida e con la sua chitarra, è in grado di toccare le parti più intime di ognuno di noi. Tutti attorno a me cantano, ammaliati, e a me scende quasi una lacrimuccia. Il resto della band poi torna sul palco per concludere con “The Fool”, Mangum si fa da un lato e sembra quasi un direttore che con la sua chitarra dirige la sua orchestra. Un concerto indimenticabile!