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Vampire Weekend – Modern Vampire Of The City

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C’è poco da ingannarsi, i newyorkesi Vampire Weekend sono tra le migliore realtà indie che l’America di ultima generazione abbia mai partorito; il quartetto, qui alle prese con l’ultimo work Modern Vampires of The City,  immaginano una componente di semplicità di cui spesso – chi sta all’ascolto – non ci si capacita, amano la loro musica e le relative funzioni quotidiane, quel torpore attento che ti tiene compagnia in ogni istante della giornata, il soundtrack perfetto per il vivere in città – magari non come la Big Apple smoggosa ritratta sulla cover –  ma che comunque ci si avvicina.

Un disco curatissimo in tutte le pieghe che tengono molto conto dell’insegnamento di Paul Simon e tenue nei colori e filamenti che legano l’ascolto per tutto il tempo, una lista di brani dalla struttura pop di lignaggio, per intenderci non piena di quegli intellettualismi spocchiosi e logorroici, ma quelle poetiche urbane dirette, che divertono rendendo inedita una pausa da un qualcosa che si sta facendo; brani anche pazzoidi, birichini come il beat che urletta “Diane Young” con un retrogusto Beckiano molto marcato oppure le apparenze afrikaneer che “Everlastings Arms” rimanda tra echi e sensazioni.

Da una recente intervista, Ezra Koening (il leader della band), dice i VW si stanno riscoprendo come spinta sonora e lentamente vogliono tornare ad abbracciare una certa tradizione con la commistione  – a tutti i livelli – del rock, chiaramente smarcandosi dalle immoralità di certe tendenze, ma un return forever che possa sorprendere e freneticare l’attuale piattezza mondiale; si sa che gli artisti spesso sono strani e boriosi nel parlare, ma per stare in tema pare che una minimale inversione in avanti pare nascere dal sound college che spira nella spensieratezza di “Unbelievers”, dalle scalmane educate di “Finger Back” o dall’improvviso cambio timbro della oscura “Hudson”, brano che prende posto in un calamitoso post-rock e che un poco spiazza, ma che dopo un minuto si adotta e si strofina come un amante vogliosa.
Il terzo disco per questa ottima formazione non è che il podio meritato di una piccola storia che non scarica versioni  malinconiche di sfighe esistenziali o qualcosa di affine, ma – e solamente – la sfida dei colori pop con l’anima trapelatamente insofferente dei Bread.

Datemi retta nei vostri prossimi weekend, fatevi succhiare il sangue da questi vampirozzi non male!

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Questi Sconosciuti – S/T Ep

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Spesso – o sempre – mettere d’accordo vecchio e nuovo non è sempre sintomo “volpino” per tenere (a filo del proverbiale escamotage) il piede in due staffe, cioè non prendere una posizione fissa e strutturata su quello che si vuole fare, molte delle volte è una accorta ed onesta velleità a fare le cose bene e senza far finta di essere “migliori”, e l’onestà intellettuale è la base di tutto, poi nella musica è la prima cosa che si riscontra, tanto vale non provarci nemmeno per un secondo. La lezione pare essere stata assorbita bene da questa band pugliese, i Questi Sconosciuti che con l’esordio senza titolo, ma con altri bei titoli da ascoltare, arrivano a prefigurare un trespass di ieri e oggi maturo e rimbombante, un indie-pop che interpreta una eccellenza sonora della quale sentiremo parlare in futuro.

Dodici tracce che tra sferragliamenti chitarristici, malinconie euforiche di stampo Battistiano “Due di Due”, “Me Tapino”,  in azione di congiungimento con irruenze degli anni Novanta di tempra Pere Ubu e Violent Femmes “Ciao, “Tutto il giorno” stilano una tracklist fumigante e radicalmente tormentata, un cammino sonoro che – ci ripetiamo – è una gran bella scommessa e che sorprende se non altro per lo scatto atemporale che porta in dote: Alessandro Palazzo voce/chitarra, Giuseppe Bisignano chitarra/voce, Francesco Lenti basso e Marcello Semeraro alla batteria, sono l’espressione di una “emergenza” che è già matura, una di quelle band sconosciute che già pare conoscerle da sempre, il loro stimolo sonoro è nella densità dei suoni e degli arrangiamenti, un Ep che a suo modo rinfresca la scena indipendente attuale con la semplicità e l’atmosfera artistica che già si fa  respirare avidamente dalla copertina.

Un ascolto di immediata accessibilità per la rivelazione di una band dalla personalissima cifra stilistica, melodia e pedaliere scoppiettanti che disegnano una piacevolezza delle forme e una rilettura del pop in maniera innovatrice, dalla intimità grigia di “Carah” alla punta di penna di “Perdonami Niente”, allo scatto imprevedibile ed epico di “Tutto Il Giorno” fino allo shake puntato di “Prove di Rivoluzione”, ending scalpitante e radiofonico a mille, nonché sintomo di un Sud sonico più che mai pronto a cariche di suoni verso l’alto dello Stivale, la riscossa che tocca e raggiunge il cuore di chi ascolta Questi Sconosciuti e già mette paura a tanti!

 

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Yo La Tengo – Fade

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Dopo anni passati ad ascoltare il rumore degli amplificatori e portarne – poi dopo – i segni indelebili in ogni dove, le nuvolette indie pop dei statunitensi Yo La Tengo sono un beneficio quasi “biologico” che arriva a lenire stress e logorii “della vita moderna” e che va a rivoluzionare pressappoco quel bisogno di intimità e solitudine che ogni tanto fa bene e rigenera il plesso solare.
Fade” è il nuovo della band del New Jersey, ed è difficile includerlo tra quei lavori che sanno troppo di terra e di cavalcate quotidiane in calcomania con giornate avulse e frenetiche, piuttosto uno di quei dischi che pare calare dall’alto, che cade appunto “dalle nuvole” per coccolarci, viziarci e farci prendere tutto il tempo per pensare, sentire, in somma riappropriarci della nostra “deliziosa parentesi oziosissima” nell’emisfero di sogni e affini; dieci “piani di delicatezza” che si ascoltano come un balsamo tenerissimo, dieci brani che escono come da uno scrigno custodito chissà dove e che si apre, accorto, come una medicina di bellezza per le nostre – di tutti – necessità di bellezza.
Tutto è sussurrato e confidato, un pop altolocato che gira armoniosamente al pari di una pastorale, di una semplicità esecutiva che innalza e fa sognare ad occhi spalancati e che non può fare assolutamente a meno di dilatarsi e viaggiare ai bordi smussati dell’immaginazione; con quell’afflato evanescente, quasi incipriato d’aria fine, che sa di Galaxie 500 e tattiche ispirate alla Sebadoh, gli Yo La Tengo si possono permettere tutto, andare controvento “Is that enough”, “Paddle forward”, lasciarsi sprofondare in un ancient bucolico di gemme e resine profumate di AppalachiI’ll be round”, o perdersi tra le sensazioni ovattate di GarfunkelCornelia and Jane”, “The point of it”, ma è con la stupenda architettura di “Ohm”, un ciocco schitarrato di fumo andato in circolo (che tra l’atro avvia il disco alla sua funzione di giro) che il cuore ai aggiorna e la mente emigra in un altro sistema  più su del nostro.
Maneggiare con cura, indie-pop fragilissimo e innocente.

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Chewingum – Nilo BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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In questi giorni mi sono perso in lunghe discussioni sul valore di una recensione e, parallelamente, sulle caratteristiche che rendono l’indie pop italiano un genere cosi prendere o lasciare, “o lo ami o lo odi”. Perché vi dico questo? Perché i Chewingum fanno un album secondo me godibile, divertente, sentito, “di pancia”, in 11 canzoni che stanno tra electro-funk e pop bagnatissimo, testi nonsense spalla a spalla con liriche perfette e dolci come un’alba sul mare, atmosfere eteree e follie senza capo né coda, con una voce che mi si incolla in testa e non se ne va più. Ce ne sono tanti in giro così, lo so, ma rimane un disco che si lascia ascoltare (e ricordare). So anche che molti di voi, a leggere queste righe, faranno una smorfia disgustata: ma mettetevi il cuore in pace, è una recensione, e come spesso accade, l’oggettività si perde dopo i primi quattro aggettivi.

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Lucy Van Pelt – L’instabile

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L’instabile” è la forza motrice discografica della formazione umbra dei Lucy van Pelt, un disco di trentatré minuti e trentatré secondi d’inarrestabile poesia, corrente elettrica e pensieri accavallati, un dieci tracce che elegge la perfetta sintesi dei tempi che si corrono a suo simbolo ed un bel trascinamento contagioso verso gli anni rock dei novanta italiani, della consapevolezza ed esigenza di smanettare dentro l’indie e quella viscerale esuberanza dell’opera prima che già al primo giro di giostra minaccia di prendersi più di uno spazio nell’underground di casa nostra e non solo.

Federico Minciarelli batteria, Francesco Tartacca voce e acustica, Matteo Rufini basso e Matteo Tiecco alla chitarra, questo il power della band che non avanza mai sporcato e sconosciuto dentro il cosmo rock, ma cerca di interpretarne una possibile nuova via e riesce a catturare l’attenzione per la “performance a concept” sulla quale alterna poesia melodica ed ispessimenti distorti, Il Santo NienteL’invidia”e Soul AsylumL’uomo italiano medio non ha senso”; brani compatti ed energia vitaminica si confrontano con momenti di lusso acustico cantautorale “Tra l’oggi e il domani”, la magnifica sensazione  psichedelica del minuto e quarantanove secondi di “MAV” che ti afferra per la collottola dell’anima e ti trasferisce tra le spire vorticose di “Senza di te” non prima di averti schiaffeggiato di grazia con la Vedderiana “Le tue risposte”.

Un esordio, questo che gela il sangue, splendifero nei dettagli, “umano” nelle parole, un atto d’amore sincero per la vera e bella musica, una scelta questa della band di suonare armonie e non solo pigiate di pedaliere; ora con una band così in giro crediamo che le cose potrebbero cambiare sotto la lente d’ingrandimento della ricerca di novità da mettere sotto il lettore stereo, e Lucy van Pelt – con o senza il parere favorevole di un Charlie Brown imbronciato –  tira avanti col vento in poppa.

Entusiasmante spirito ribelle “Instabile”.

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