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Guarentigia – Dove Vivono Gli Uomini

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Ok, l’italiano (forse) non è la lingua più adatta per scrivere canzoni; perde nettamente il confronto con la musicalità dell’internazionalissimo Inglese. L’italiano è la lingua della poesia, della prosa, della recitazione, dell’opera o, se vogliamo, la lingua del cantautore. Non certo la lingua per eccellenza del rock. Essendo anch’io autore e compositore, mi sono spesso ritrovato a dover scegliere di non usare la mia lingua perché “sporcava” in qualche modo la musicalità della melodia che avevo creato e sono sovente venuto al compromesso (a dire il vero mai troppo sofferto) di scrivere in inglese. Di contro abbiamo una più difficile comprensione da parte della mamma del vicino della porta accanto ma… come scivola bene sulle note!
C’è da dire però che, a differenza mia, molti autori italiani sono invece riusciti a rendere al meglio la sonorità della nostra parola sulla musica, anche in generi musicali come il rock o il punk. Non è questo il caso dei Guarentigia, almeno non per quanto riguarda quello che ho potuto ascoltare nel loro nuovo lavoro Dove Vivono Gli Uomini.

Il disco inizia con “Sola”, un brano che già da subito vi farà capire che la band milanese non scende a compromessi con la commercialità del rock radiofonico: la potentissima intro dura infatti ben 45 secondi, tempo dopo il quale qualsiasi discografico che intenda passarvi su Radio Deejay vi dirà che deve arrivare il primo ritornello. Il brano ricorda, soprattutto nei refrain, l’atmosfera e la melodia dei “vecchi” corregionali Timoria. Dopo i 5 minuti abbondanti della prima traccia ci ritroviamo sorprendentemente una piccola intro di percussioni che, prima dell’arrivo delle chitarre di Jacopo Iamele e Daniele Cetrangolo, ci illude quasi che il genere musicale dei Guarentigia sia eterogeneo: e invece no. Rock-on.
La pregevole voce di Luca Bianchino canta poi con estrema rabbia il pessimismo di “Nessuna soluzione”, terza traccia del disco, ritornello della quale richiama il titolo del disco: “se vuoi puoi convincerti che ci sia un mondo migliore, ma di certo non è dove vivono gli uomini“. Particolarmente apprezzabile in questo brano la linea di basso di Roberto Rizzi, ottimamente supportata dalla sua metà ritmica, la batteria suonata da Ivan Visciano. Purtroppo però, anche se a sprazzi intravedo la famosa musicalità delle parole fuse nella musica di cui ho scritto sopra, anche qui incappiamo spesso in sillabe eccedenti e parole infilate a forza nella linea melodica. Intendiamoci, può essere una scelta. Una scelta però che non condivido.
Il disco scivola sugli stessi binari, peggiorando a mio avviso sensibilmente proprio nella quarta e quinta traccia, ma non deludendo tutto sommato le aspettative iniziali. I Guarentigia hanno le idee chiare su quello che dicono e su quello che suonano, questo va detto.

Menziono infine la canzone messa al numero nove nella tracklist, “La patria, la legge”, denuncia alla corruzione e all’ipocrisia della società e di chi ci governa, purtroppo ancora e più che mai molto attuale.
Note molto positive del disco riguardano il suono e la resa strumentale globale: tecnicamente suonato molto bene, ottima scelta sonora e ottima realizzazione in fase di incisione e mix. Gli arrangiamenti non introducono alcuna novità stilistica nel panorama del rock ma fanno egregiamente il loro lavoro di supporto. Unico “appunto”, probabilmente ancora una scelta consapevole da parte della band ma che ancora non condivido, riguarda la presenza della voce solista (il volume un po’ basso, la scarsa brillantezza), forse un po’ troppo “dentro” il mix considerando l’importanza che la band vuole dare a ciò che dicono i testi.
Sul loro profilo facebook i Guarentigia scrivono “Crediamo nella potenza del suono, nella magia delle atmosfere e nel peso delle parole”. Che dire? La potenza del suono c’è tutta, l’atmosfera è apprezzabile ma un po’ contaminata dal trascinarsi delle parole sulla musica. Il peso delle parole, già. Anche quello c’è, francamente un po’ troppo. I testi sono senza dubbio non banali o forse talmente non volutamente banali che risultano il contrario. I messaggi che i cinque ragazzi lombardi fanno passare attraverso le loro canzoni sono però certamente importanti e degni di dibattito e approfondimento. Ma non siamo di fronte a un saggio, a un libro di pensieri e punti di vista sulla società. Siamo di fronte a un disco e personalmente da un disco mi posso anche aspettare un messaggio, ma anche e soprattutto una musicalità che deve esistere nella fusione tra la musica e il verbo e che mi porti a godermi appieno l’esperienza dell’ascolto. Questa musicalità, in questo disco, non l’ho trovata. Se però vi piacciono le intro chilometriche, il rock vecchio stampo Timoria-style, i testi non metricamente impeccabili ma importanti nei messaggi e cantati bene, concedete un ascolto a “Dove vivono gli uomini”.

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Widowspeak – Almanac

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Arrivano dallo Stato di New York i due Widowspeak, e ci portano un bastimento carico di chitarre western e ambienti ariosi, voci eteree e atmosfere sognanti.
Registrato in un fienile vecchio più di cent’anni, Almanac (come i vecchi annuari con i consigli per agricoltori e naviganti) è il frutto soprattutto del labor limae del chitarrista Robert Earl Thomas, che ha espanso i demo prodotti dalla coppia dopo l’esordio omonimo del 2011 con strati e strati di chitarre, armonium, piano Rhodes, organi. Il risultato è un fondale a metà strada tra il West e il mondo dei sogni, dove tutto levita leggero, il vento soffia piano facendo roteare la polvere e le stelle tremolano distanti: davanti ad esso scorre il tempo della natura, con i suoi cicli infiniti, la vita e la morte delle stagioni, la giovinezza, l’amore.
Ma il disco non sarebbe lo stesso senza l’altra metà del duo, Molly Hamilton, che ci regala linee vocali sottili come carezze, leggere come soffi. E questa leggerezza è il marchio di fabbrica di tutto il lavoro, caratteristica centrale e ragione di vita del duo, che ci tiene sospesi sia negli episodi più incantati (“Perennials”), sia in quelli dall’andamento più western (“Thick as thieves”, “Minnewaska” – sorta di canto popolare sui generis -, “Spirit is Willing”), sia in quelli più spiccatamente pop (“Devil Knows”, “Ballad of The Golden Hour” – che fino al primo inserto di slide guitar sembra un brano da cantautrice folk anglosassone, tipo Amy McDonald).

Un ottimo prodotto, nel complesso, tra echi di Slowdive e capacità di sintesi alla Low. Da gustare passeggiando nei boschi (ma quelli con le sequoie), oppure osservando le onde disegnate dal vento su pianure coltivate a grano. O anche sdraiati su un prato, o seduti in veranda, ad aspettare le nuvole. Consigliato.

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Stereofab – Demo

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L’avvento e l’innovazione di internet potrebbe essere un arma a doppio taglio per le band emergenti.Infatti c’è la possibilità, attraverso la miriade di social network esistenti, di avere molta più visibilità rispetto agli anni passati, in più la facilità dei free download permette l’ascolto immediato ad ogni angolo del globo, senza l’interferenza del denaro. Ma quello che non è mai cambiato è il valore del Live. Il gradino più difficile da salire, quello per il quale si fanno mille sacrifici e si spendono mille ore di studio e di prove. Quell’esperienza che ti da tutto o niente. Quell’ora che fa esistere il gruppo,al cospetto del pubblico. Ma l’esistenza è determinata anche e soprattutto dall’ascolto (scopo principale di tutto il lavoro) di un album, di un ep o di una prima demo. Infatti questa infinita ricerca ci porta alla conoscenza di un giovane gruppo foggiano, gli Stereofab. Progetto nato nel 2011, che vede Roberto Consiglio alla chitarra e alla voce, Stelvio Longo al basso e Fabrizia Fassarialla batteria, nel 2012 sostituita da Davide Tappi.
Con una ventina di concerti all’attivo, in Puglia, nel 2012 esce la loro prima demo The Master Game. Quattro brani, per un totale di 11 minuti e 40 secondi.Tutto si apre con The box, che a mio parere, rimane il brano più interessante di tutto il lavoro, nel quale se vogliamo cercare quel quid in più, lo possiamo anche trovare. Testo essenziale, talvolta ripetuto (come la frase I can’trememberyourname), che senza rendersene conto rimane imprigionato nella testa, assieme alla sua melodia fortemente orecchiabile. Il che non è  negativo, anzi, quello è l’elemento che sembrerebbe il più importante per essere ricordati, anche se il ricordo è difficilissimo da ottenere. Consiglio: i brani più orecchiabili sarebbe più sensato non metterli all’inizio di un album(o, in questo caso, di una demo),proprio per tenere alto l’interesse.
Demo che procede in maniera similare nei restanti tre brani I hopeyoulikeit, Berline Today in a way, costruiti nella stessa maniera: intro di qualche secondo, testo essenziale, piccolo solo di chitarra, cantato e fine. Il tutto condito di un genere pop-rock, che non esalta, assieme al cantato lineare, privo di un colore riconoscibile, da smussare in alcuni punti lasciati striduli e che non dice niente, nemmeno nei testi. Testi cantati tutti in inglese e su questo si potrebbe fare un trattato. Cantare in inglese magari rendere più figo, ok. Ma l’inglese potrebbe anche rendere più anonimo l’anonimato più esagerato, soprattutto se accostato a delle parole che decantano i sentimenti e la soggettività, che potrebbero significare tutto per il gruppo e niente per chi ascolta. Sarebbe come scrivere un libro ma senza una vera idea di fondo. Quindi il succo del discorso è di studiare a tavolino ogni piccolo particolare, di fare più esperienze possibili, di scrivere tutto, magari anche in italiano, e soprattuttodi rendere ai testi dei protagonisti, delle storie chiare e dei mondi da esplorare, interessanti, soggettivi sì, ma anche universali. Perché in fondo la musica è questo: sentimento, ma anche ricerca meticolosa.
Per quanto riguarda la struttura dei brani bisognerebbe aprire la mente ed allontanarsi dall’idea che protagonista deve essere sempre, e per forza, la chitarra. Ogni strumento ha vita a se, quindi perché non esplorarli, lasciandogli un po’ di spazio e non farli dialogare tra loro, creando armonizzazioni più interessanti e magari allungando anche le parti strumentali? Certo fare questo è più difficile, ci vorrebbe più tempo, ma sarebbe anche l’elemento più importante per un netto salto di qualità.La predisposizione c’è e anche l’orecchiabilità,sul resto: tempo al tempo e ci risentiamo!

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NaNa Bang! – S/T

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Tira aria buona, aria sincera e oculatamente hipe; non sono elucubrazioni metereopatiche, ma considerazioni positive che vengono a galla dopo l’ascolto di questo ottimo esordio dei bresciani NaNa Bang!, formazione “rimodulata” in cui militano Andrea Fusari e Giuseppe Mondini (ex Gurubanana), otto tracce che grondano un indie con la consapevolezza del lo-fi, un calembour di hit a portata di tutti e che con la rapidità lenta delle cose buone si presentano all’ascolto con una sorta di sincera parata che non sconta nessun peccato, piuttosto un qualcosa di “sfacciatamente” (ri)trendy.
Dolciastre scorribande silenziate dal rombo dell’elettricità forzata, ballate e sensazioni temporali di anni Sessanta e di una Frisco agli esordi della beat generation, profumi ed essenze di Naked Pray, lontanissimi Nuggets, Three O’ClockBoomers” come pure un allampanato Country Joe and The FishPossibly bright”, “While I’m here”,“Thinkerbelly” quel suono Paisley che tanto ha fatto sognare, nebbioso e riverberato in una psichedelica che si taglia col coltello; “beach songs” a tutti gli effetti, brani dell’ingenuità perduta e della serenità conquistata che scorrazzano in questo disco come una sintesi di sole e “ieri” che non tramonta mai, e anche un’ulteriore conferma di un suono – rimodulato da questa straordinaria formazione in duo – che è sempre avanguardia senza anagrafe e droga legale per cultori accaniti.
Anche disco di flash e ricordi, in cui affiora una buona voce conduttrice che si muove tra i quadrangolari di una melodia stropicciata, picaresca, con la l’inerzia di un dopo sbronza, mentre il contorno è un allucinante teatro di sirene, echi e stridori di gamma che riportano alle cadenze dreamly di Steve WynnRefried beans”, mentre la florescenza DylanianaStroll” e la rivisitazione del brano di Daniel JohnstonTrue love will find you in the end” vanno a rendere omaggio all’impero dei sensi valvolari del piacere assoluto.
I NaNa Bang! mettono in scena un piccolo capolavoro di sabbia e luce, che non è testimonianza di uno stile passato, ma una nuova orma da seguire per restare al tempo, capace di emozionare e aprire teste ristrette e colpire tutta quella “futuristica” sonante che  sparge nulla.
Fatevi possedere da queste stupende tracce, non opponete resistenza al loro principio attivo, fregatevene dell’oggi!

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Black Flowers Cafè – Black Flowers Cafè Ep

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La musica è espressione di emozioni attraverso testi e melodia. Almeno per me.A volte complicate, a volte più semplici. C’è tutto dentro! Vita di strada, vissuta, libri, desideri, persone, gesti, droghe, alcool, sesso, odio, amore e tutto quello che ci fa drizzar la pelle e salire il sangue.
 
Perché questo stupido preambolo?! Perché avrei dovuto scrivere roba del genere?! Ovviamnte la risposta è semplice. Perché i Black Flowers Cafè mi incuriosiscono! Si presentano così,leggete cosa scrivono di loro: l’album racchiude, nello spazio di nove pezzi, quello che è un ideale viaggio immaginario, che parte dalla base missilistica di Baykonur, trampolino di lancio di quelle che erano le operazioni spazialisovietiche, per arrivare fino alla lucentezza astrale di Vega.”
Capisco che dalla base missilistica di Baykonur fu lanciato, per la prima volta nella storia, un uomo,Yuri Gagarin che fu anche il primo dei russi impiegato in una missione spaziale a tornare vivo. Grande risultato per quei tempi. E che Vega sia una delle stelle più brillanti e riferimento per i viaggiatori spaziali. Aaa sono la prima e l’ultima traccia!!!  Ok, allora prendo posizione e allaccio le cinture, meglio iniziare il viaggio, che più che immaginariosembra più un viaggio intergalattico. Un viaggio stellare visto che i nomi delle tracce, fatta eccezione per la prima, sono tutti nomi di stelle.
Inizio l’ascolto, prima traccia Baykonour, sul fondo uno speaker che annuncia il lancio di un missile e il basso che attacca e mi chiedo: chi cazzo sono questi Black Flowers Café?! Intanto la chitarra con un arpeggio incalza il synth creando un’atmosfera che più che ad un lancio da l’idea di un viaggio senza una meta precisa con lente progressioni che stentano a partire. Infatti non partono e attacca con grinta la seconda traccia Ophir Chasma.Si susseguono così, una dopo l’altra, le tracce di questo EP, con alti e bassi, un lavoro curato nei particolari con animo. Un album che scorre e ti ingabbia. Un viaggio scusate. Niente di troppo sperimentale, tutto perimetrato con cura a sonorità di questo millennioe ritmiche da missione spaziale. Ehehe. In certi pezzi nel modo in cui cantano e attaccano sento un proselito a Thom Yorke dei Radiohead. E’ un album ben fatto. Ogni pezzo è un passaggio, un passaggio del viaggio. Anche se qualche arpeggio a volte mi ha lasciato un po’ deluso. Ora sono curioso di vederli dal vivo, se capitano qui a Roma. Grazie del viaggio ragazzi!!!

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Dafne Bloom – Ginger sad

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Forse quattro brani sono troppo pochi per giudicare questo lavoro…

Purtroppo però mi trovo di fronte a un lavoro che assomiglia più a un demo che a un ep che dovrebbe essere anche venduto attraverso le piattaforme digitali…
Gli mp3, si sa, a volte limitano anche i suoni delle canzoni e può darsi che sia anche questo il caso dei Dafne Bloom.
Tuttavia ascoltandoli un po’ di amaro in bocca rimane…
Le qualità nel gruppo ci sono tutte, gli arrangiamenti sono anche strutturati abbastanza bene…
Il brano “Ginger sad” ne è un esempio col suo tappeto sonoro di tastiere sovrapposto a batterie ben ritmate e a un cantato che ricorda molto da vicino quello di Brandon Flowers dei The Killers.
I come from tekno” ha un inizio Krafterkiano ma poi si tuffa in una elettronica alla Nine inch Nails.

Forse però, un po’ più di chitarre e una mano di basso elettrico avrebbero giovato davvero molto al brano.
I “testi” pure risultano un po’ confusionari ma la cosa è evidentemente voluta, quindi almeno in questo il gruppo è ampiamente giustificato.
Baccanalis” invece ha un inizio molto ritmato in cui si innesta una chitarra abbastanza incisiva (almeno qui) e un cantato molto dark e oscuro che ricorda un po’ anche quello di Robert Smith dei The cure ed è sicuramente l’episodio più riuscito di questo disco.

L’impressione comunque è proprio quella di un vero e proprio baccanale sonoro…
Dafne in bloom” è invece una ballad dal tono decadente molto orecchiabile che potrebbe trovare anche spazio nei networks radiofonici ma a quasi tre minuti dall’inizio un improvviso cambio di volume nella regolazione dei suoni rovina un po’ l’atmosfera creata e purtroppo la cosa si ripete anche alla fine.
Peccato davvero quindi, perché il talento non manca e forse con la mano di un produttore di talento tipo Trent Reznor, il supporto di una major discografica e magari anche un mastering migliore questo lavoro avrebbe potuto tranquillamente sfondare.
Una nota di merito però va all’artwork per la copertina appena bicolore, davvero molto bella nel suo minimalismo (una piccola opera d’arte!).

Aspetto quindi i Dafne Bloom alla seconda prova perché per ora la sufficienza appare lontana…

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Amelie Tritesse – Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll

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“Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll” è il cd libro degli irreverenti spacca pensieri Amelie Tritesse, una carica bastarda di read’n’rocking in presa elettro diretta. Un disco di dieci pezzi accompagnati da un libro di racconti quotidiani di 64 pagine, testi ed illustrazioni.

Una cosa fregna. Poi il gioco musicale intrapreso tra brani recitati come qualche affermata situazione italiana insegna e pezzi in inglese di genuino rock and roll rendono questo lavoro interessante e propositivo per un ascoltatore che non cade mai nella solitudine della monotonia, rimanendo sempre attento alle circostanze. Molto Abruzzo nel complesso, la loro terra stanca di rimanere sempre al palo rinchiusa e tartassata da (in)fondati pregiudizi, l’orgoglio viene prepotentemente fuori, le palle ci sono e come.

Sensazioni bellissime in “Una ballata per Jeffrey Lee”, già ero cascato in queste sensazioni con il Circo Fantasma e non mi stancherò mai di farlo, un pianoforte struggente viaggia leggero ad accompagnare una calda voce dalle movenze interpretative di chiaro spessore.
Poi la title track “Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll” arrovella cattivi pensieri nella testa presa da un tiro profondo di spino, qualcuno aveva già provato queste “cattive abitudini” portandone fuori consensi di nicchia. Io non ho mai capito un cazzo del rock and roll. Giuro.
Un opera prima per questi ragazzi dagli alti canoni artistici da considerare con lode, difficilmente collocabili in questo caos musicale indipendente italiano, una fresca realtà che cerca di differenziarsi dalla massa usando egregiamente tutte le armi del proprio arsenale artistico.

Un folk rock con puntine di sporca elettronica da maneggiare sempre e comunque fregandosene dell’estrema cura, gli Amelie Tritesse vogliono apparire essenzialmente per quello che sono senza inganno. “Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll” prepara la musica verso un’altra rotta tutta ancora da esplorare, un ottimo inizio. Col botto.

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