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“Nero” è il nuovo video dei Plunk Extend

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“Nero” è il secondo singolo dopo “Rosso” tratto da Prisma e uno dei cinque brani – ciascuno intitolato come un colore – che formano quello che, pur avendo la lunghezza di un ep, è per i Plunk Extend a tutti gli effetti un disco vero e proprio. Prisma è infatti un concept album dove i colori sono una metafora per raccontare storie dal carattere esistenziale, accomunate da un desiderio di fuga e di rifiuto della realtà così come è. I brani sono tutti contraddistinti da un suono art-rock multicolor che ha lo spirito dei Settanta ma si muove nel presente mescolando indie-rock, pop, psichedelia, hip hop, cantautorato, prog e molto altro. In concomitanza con l’uscita del nuovo video i Plunk Extend hanno iniziato un mini-tour partito lo scorso 25 marzo dal Barrio’s Cafè di Milano (dove “Nero” è stato proiettato in anteprima). Le prossime date saranno il 18 aprile al Factory Live di Cormano (MI) e il 23 maggio al Garbage Live Club di Pratola Peligna (AQ).

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Pagliaccio – La Maratona

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Il trio biellese Pagliaccio è giunto alla seconda prova su disco dopo oltre duecento concerti, condividendo il palco con artisti nazionali e internazionali e dopo una campagna di crowdfunding per finanziare La Maratona. La prova è stata superata ampiamente scavalcando anche le più rosee aspettative, segnando uno dei maggiori successi da quando è attivo Musicraiser. Testi scanzonati e irriverenti si mischiano a tempi in levare tipici del Reggae, con una vena di malinconia agrodolce che non ci fa capire se ridere o piangere: “Amore Cieco” è il manifesto ideale di questa scelta stilistica. L’unico momento in cui siamo sicuri di quali debbano essere le nostre emozioni all’ascolto è sicuramente nella leggerissima “Portiere Volante”, ironicamente scandita da un incedere Ska sfrenato. Il violoncello di Federico Puppi è il tassello che mancava per rendere perfettamente onirica l’atmosfera de “La Doppia Negazione”, una delle canzoni più memorizzabili del lotto. Molti altri brani sono meno cerebrali, più diretti e forse per questo si fanno sentire tutti d’un fiato, risultando al contempo simili tra loro, senza lasciare traccia del loro passaggio. “Pagliacci Tutti Voi!” è una dedica speciale al periodo storico e politico che sta vivendo la nostra povera Italia, piena di pagliacci e false promesse. Chiusura azzeccata di un lavoro che vive di situazioni che non sempre volgono dalla parte dei tre artisti, menestrelli moderni trapiantati in un paese retrogrado, fermo al bivio già da un po’. Sufficienza raggiunta e meritata.

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Belle And Sebastian – Girls In Peacetime Want To Dance

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Nono disco per la band scozzese, Girls In Peacetime Want To Dance è un concentrato di morbido Indie-Rock e luccicante Pop radiofonico, con una spruzzata di Folk nei ritmi e nelle armonie e quel tanto che basta di elettronica danzereccia per far muovere teste e piedi. Precisi come un orologio (12 brani per circa un’ora di musica) i Belle And Sebastian sfornano un caleidoscopio di emotività da sing along, motivetti fischiettabili, ritmi in quattro da video in slowmo, richiami Eighties e morbidezza pacata e sussurante. Un breviario del successo facile nell’Anno Domini 2015, dove poco s’inventa e tutto si ricicla (per bene, ci mancherebbe), l’importante è l’atteggiamento (musicale, ché il resto non sappiamo né vogliamo sapere): hip, cool, chiamatelo come volete, insomma, roba che funziona, garantita al 100%. Mi rimarrà nel cuore questo disco? Non so, ma non ci scommetterei troppo. Nelle linee affusolate delle melodie catchy, nei ritmi comodi per orecchie e glutei, nella morbidezza (sapiente, competente, senza passi falsi né scomodità) di un Pop perfettamente calibrato per il godimento senza troppi pensieri né preoccupazioni si nasconde sempre la trappola atavica di brani senza unghie, che non feriscono, ma proprio per questo non lasciano il segno. Un ottimo prodotto di musica di consumo, e, a costo di ripetermi, lo preciso: Pop architettato magnificamente, arrangiato e prodotto con gusto. Che però sulle mie papille sa di sottofondo, di riempitivo, di accompagnamento. Un perfetto contorno che per me non sarà mai una portata principale. Ma de gustibus…

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Dry the River – Alarms in the Heart

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Due anni or sono vedeva la luce Shallow Bed, un album splendido, che dava nuova linfa alla corrente (intermittente) Indie Rock, ricco di sfumature originali capaci di saltellare dal Gospel al Folk per merito di due fattori fondamentali: la voce di Peter Liddle e il violino di William Harvey. In parole povere, per me il must to have del 2012. E’ scontato quindi nutrire aspettative importanti nei confronti di Alarms in the Heart, anche se replicare la qualità del precedente disco non è cosa semplice tenendo anche conto della dipartita dello stesso Harvey, il cui talento è stato essenziale per la riuscita di Shallow Bed. Le prime due tracce, in purissimo stile Dry the River, con le loro melodie malinconiche, ci fanno imboccare la strada della speranza, consapevoli che tutto sommato quello che stiamo ascoltando arriva fino al profondo del nostro cuore. L’ospite d’onore Emma Pollock, leader dei The Delgados, rende ancora più emotivo il viaggio duettando alla grande con l’ugola incantata di Peter Liddle. Dopo “Roman Candle” però c’è una brusca frenata che mi coglie impreparato. Stento a crederci ma per rivedere un altro scorcio di sole devo attendere “Gethsemane”, che giunge dopo due episodi piatti e lamentosi (“Med School” e “ItWas Love That Laid Us Low”). Anche “Everlasting Light”, secondo singolo estratto, è preceduto dalla passabilissima “Rollerskate” e ciò mi incute timore di andare incontro, verso la fine, ad altre canzoni deludenti. Mi duole dover dare ragione alle mie paure, attestando Alarms in the Heart come un lavoro venuto bene a metà, sperando che non sia la parabola discendente del breve (seppur intenso) successo dei Dry the River.

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Management del Dolore Post Operatorio – McMao

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Che la grande burla abbia inizio! L’ilarità dei Management del Dolore Post Operatorio la noterete sicuramente già dalla copertina (e dal titolo) del cd dove si prendono gioco del grande Mao Tse Tung. Qualcuno di voi, poi, probabilmente ricorderà il gruppo per l’esibizione in Piazza San Giovanni a Roma in occasione del concertone del Primo Maggio, dove Luca Romagnoli (il cantante) impugnò un preservativo come fosse un’ostia raccomandandone l’uso corretto a tutti. Fosse solo questo, fin qui nulla di così strano per chi li conosce, ma quando poi lo stesso ha deciso di calarsi le braghe davanti a tutti i presenti sono arrivati non solo la censura da parte della Rai (che riprendeva il concerto) ma anche la menzione sull’autobiografia di Piero Pelù dei Litfiba uscita da poco in libreria. I Madedopo hanno tuttavia molto di più da offrire al proprio pubblico, soprattutto sul versante incisioni in studio. Chiariamoci: molti li definiscono una band da vedere assolutamente live, io preferisco invece ascoltare i loro album. In McMao c’è stato anche un avvicendamento nella formazione: Luca Di Bucchianico ha sostituito il dimissionario Andrea Paone al basso; un cambio per fortuna paritario che non ha fatto perdere lo smalto e la grinta presenti già in Auff!. Si dice sempre che il secondo lavoro per una band sia il più difficile, ma già dal primo singolo estratto “La Pasticca Blu” è stato chiaro che il percorso tracciato da Auff! ha trovato in McMao un degno successore. La band lancianese cambia di nuovo pelle contaminando ancora di più la sua musica rispetto al disco che li ha lanciati. Ciò che appare chiaro è anche una maggiore attenzione ai testi, più curati seppur sempre molto diretti. Si parte con “La Scuola Cimiteriale” in cui l’elettronica un po’ english va a fare da contraltare all’attitudine Rock dei Madedopo, con qualche spunto alla Franz Ferdinand. Svettano fra tutte le tracce “Coccodè” e “Requiem Per Una Madre”, sempre a metà fra il Rock americano degli Weezer e la New Wave dei Devo.

Il brano più convincente è “Il Cinematografo”, in cui le chitarre liberano tutto il loro impeto travolgente dopo un inizio più soft ed introspettivo. Per quanto ci riguarda possiamo solo dire che è forse poco riuscita la cover di “Fragole Buon Buone” di Luca Carboni. Inevitabile forse perdere il confronto con l’originale, anche se rimane apprezzabile il tentativo di rendere la canzone più “moderna” e fruibile per un pubblico Indie Rock con suoni ben lontani dalla versione del cantautore bolognese. Inoltre, forse al posto del singolo di lancio “La Pasticca Blu” avrei scelto “James Douglas Morrison”, omaggio all’indimenticato leader dei The Doors, dai contorni più radiofonici, ma sono veramente piccoli dettagli in un contesto musicale veramente riuscitissimo. I Madedopo sono ormai una splendida realtà nella scena Indie Rock italiana e conquistano, per quanto mi riguarda, il podio con I Cani e i Gazebo Penguins. Starà a loro in futuro confermare quanto da me scritto, ma se ascolterete i ritmi ossessivi e ripetitivi de “La Scuola Cimiteriale” non potrete che darmi ragione. Guai a inserirli ancora nelle nuove leve! La nuova rivoluzione musicale è

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Od Fulmine – Od Fulmine

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I sogni alcune volte riescono a realizzarsi ma le delusioni sono sempre molto più frequenti, la musica d’autore riesce a farci camminare spensierati e pulsanti sopra la bellezza della vita. Perché poi non è necessario esternare le proprie emozioni, potrebbero essere male interpretate e di colpo tutto potrebbe finire. Scrivono canzoni irresistibili come faceva Tenco gli Od Fulmine al debutto discografico con questo omonimo disco. Indie Rock d’autore tanto cercato dai Non Voglio Che Clara e sponsorizzato dai Perturbazione, la tecnica è quella giusta dei bei testi in chiave Rock, la formula perfetta per modernizzare il cantautorato italiano di tanti anni fa. Gli Od Fulmine sono di Genova e provengono da diverse ma affermate realtà musicali (Meganoidi, Numero 6, Esmen), il loro legame con la cosiddetta “scuola genovese” è strettissimo perché oltre Luigi Tenco si percepisce qualcosa di Fabrizio De Andrè e Umberto Bindi. Insomma, hanno imparato dai grandi maestri cercando di mantenere alta la qualità del cantautorato italiano. Brani come “Altrove 2” e “Ma Ha” spiegano benissimo il concetto di fusione tra cantautore e Indie Rock, soprattutto se viene considerato un sound prevalentemente estero e poco italiano. Se poi volete far increspare la pelle avete bisogno di un brano semplice ed emozionale come “Nel Disastro”, un classica struttura compositiva con un ritornello bellissimo: Ma nel disastro mi vedrai sorridere/Sotto un diluvio ritornare in me/Di notte ho visto quello che mi manca e tu mi vieni incontro anche se non lo fai più.

Non è facile trovare il giusto equilibrio nella musica, il rischio di strafare è sempre dietro l’angolo, gli Od Fulmine percepiscono soltanto le parti buone dell’arte, parlano di amore con chitarre indurite, non hanno paura di mettere a vivo i propri sentimenti. L’ascoltatore è libero di interpretare le canzoni come meglio crede, ognuno può vivere il proprio film senza dover rendere conto a niente e nessuno. L’omonimo disco degli Od Fulmine riesce a caricare di passione, giocando con intrecci sostenuti a volte dalle lacrime a volte dai sorrisi, piove ed immediatamente esce il sole, “Fine dei Desideri” come pezzo immagine dell’intero concept. Le cose che portiamo dentro non sempre riusciamo ad esternarle con la giusta precisione, questo disco parla con il cuore in mano, questo disco è veramente carico di considerevoli aspettative. E noi siamo fieri di ascoltare una band come gli Od Fulmine.

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Moongoose – Irrational Mechanics

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Il mondo dei Moongoose non è certamente razionale, la sensazione è quella di trovarsi perduto all’interno di forme geometriche tridimensionali. Poi queste forme iniziano a riempirsi d’acqua, il respiro si strozza in gola, tanto buio, Trip Hop anni novanta. Il primo disco ufficiale del trio Moongoose si chiama Irrational Mechanics e segna una svolta importante per le ambizioni di una band emergente alla conquista del grande pubblico. Le sonorità sono raffinate, non potrebbero essere altrimenti, la voce di Dea Mango lascia tensione a chi ascolta, dolce e tenebrosa nello stesso tempo. I brani viaggiano lenti con improvvisi battiti elettronici, l’opener “Closed Field” raggiunge subito la massima espressione del Bristol Sound, riff Dub rallentati con rabbuiate circostanze Soul. Potrei parlare dei Massive Attack ma rilegandoci all’attuale scena Trip Hop italiana citerei senza ombra di dubbio i Sixty Drops. La title track “Irrational Mechanics” rende quasi opportuno un abbandono della mente, molto coinvolgente la batteria, la voce ancora una volta riesce a fare la differenza. Non apprezzo il basso, sembra venire fuori da un altro contesto. Un continuo scivolare verso suoni glitch, la band stessa definisce questo concept nel seguente modo: “Le meccaniche irrazionali minacciano ogni certezza, rafforzano ogni debolezza. La realtà è armoniosa, la contingenza è caotica”. Tutto viaggia secondo una retta linea, non trovo quasi mai colpi di scena improvvisi e questo rende il mio ascolto attento e uniforme, non fatico mai e assorbo il tutto con desiderato piacere.

Cambiamenti improvvisi di tempo vengono percepiti in “Fomenta” ma il risultato non sembra essere gradito dalla mia attenzione che fino a quel momento si spostava sopra ben altre sonorità. Adoro la parte ipnotica del Trip Hop e la sua versione originale, riuscire a modernizzarla è una cosa molto difficile e soprattutto rischiosa. I Moongoose registrano un disco difficile, cercano di buttarci dentro eroicamente il (quasi)moderno concetto di Indie Rock, la loro prova non delude affatto e meritano interesse. Per ascoltare Irrational Mechanics bisogna essere dotati di grande concentrazione e spirito propositivo, a noi questo tipo di scommesse piacciono molto. I Moongoose fanno parte di quella schiera di band che non possono che fare bene alla musica considerato, anche, il valore di una cantante emozionale come Dea Mango. Una puntata sopra cui sarebbe opportuno alzare la posta.

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Party in a Forest – Ashes

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Party In A Forest nasce una fredda mattina di dicembre, sotto il cielo di Bologna. Uno di quei giorni in cui tutto va fondamentalmente bene, piove ed è una gran noia. […] Party in a Forest è la luce, i colori, le voci di una festa immersi nell’enigma della foresta.”

È un lunedì qualunque, quando mi ritrovo a leggere queste parole, già pronto per l’ascolto del disco pervenutomi: Ashes, primo titolo dei Party in a Forest. La descrizione della band mi ha messo di buon umore e mi aspetto grandi cose da questo disco. Mi metto all’opera. La prima traccia ha un certo non so che di Indie ed ascoltandola mi sovvengono due nomi caratteristici della mia tarda adolescenza: The Strokes e Bloc Party. Mi sa che l’ispirazione è nettamente quella. E la cosa non mi spiace mica! Lo strumentale è ben impegnato, le chitarre strimpellano note lunghe, acute e trascinate in un perfetto Indie Rock, la batteria accompagna con gran stile ed il basso sa il fatto suo. “Tired” s’intitola e merita una citazione bella grossa! Fra descrizione e traccia uno mi sento già appagato. Sana musica, che di tanto in tanto viene alla luce. La seconda traccia apre con un giro di basso piuttosto importante e all’atto del cantare, assurdamente, mi viene alla mente “Wake Me Up When September Ends”, che sparisce un attimo dopo. Qui la voce singhiozza e sfocia in un qualcosa di simil Emo, del tutto contrastante con la melodia allegra e saltellante. Ma d’altra parte il testo è un inno al “non ci pensare” e la componente Emo percepita va via da sé. Sta di fatto che la traccia non mi ha particolarmente colpito. Mettiamoci alla ricerca di qualcosa che ci faccia saltare dalla sedia! “I’ve Been Blind” apre con un arpeggio malinconico degno dei sound di fine anni 90 e può andar bene. La voce singhiozza ancora e stavolta è accompagnata da un testo adeguato. Il resto della traccia è articolato intorno a un basso molto cupo e in prossimità del ritornello lo strumentale cresce, facendoci sperare in un’esplosione, che in realtà si traduce in un lamento. Non è una cattiva traccia, ma stiamo via via discostandoci dai buoni propositi iniziali. Ad un certo punto mi soffermo sui titoli delle tracce e scopro una vena malinconica in buona parte di essi. Devo abituarmi all’idea che l’Indie percepito sia una comparsa da premessa?

Non male la traccia successiva, che ben conserva il mix di Emo (Secondhand Serenade style) e Indie Rock degno dei migliori The Killers. Qualcosa mi fa pensare che la fusione di genere forse forse funziona bene, seppur nuova per le mie orecchie. Paradossale come non stonino la felicità e la malinconia se opportunamente e consapevolmente affiancate. Ecco! Questi Party in a Forest, piacciano o meno, mi trasmettono un’estrema consapevolezza! Nota di stima, più uno sul punteggio e passiamo avanti. Inoltrandoci nel pieno del disco, incontriamo una batteria che sa tanto di “My Chemical Romance”, di quelle che suonano come una marcia diligente ed ordinata. Il sound mantiene un’ottima organicità e la band nel complesso continua a funzionare bene, anche su tracce che non mi smuovono come la numero cinque. Confermo, se Ferdinando urlasse a squarciagola di qua e di là e fosse un po’ più stonato, saremmo innanzi ad una versione moderna dei “My Chemical Romance”, meno sofisticata ed un po’ meno Hardcore, ma certamente più orecchiabile. Vi avessi ascoltato un po’ di anni fa, sarebbe stato amore a prima nota.

Ma i ragazzi sono ottimi musicisti, questo è un dettaglio insindacabile, e attraverso “Ashes”, che dà il titolo all’album, riescono a farmi fare su e giù con la testa. Avanza spedita la traccia, fra arpeggi e batterie prepotenti. Suona molto Yellowcard, non male. Questi Ferdinando, Alessandro e Manuel ne hanno di ispirazioni. O forse son solo pure casualità, sta di fatto che riescono a generare un sound assolutamente pulito ed orecchiabile, forse un po’ troppo battuto, ma che conserva la sua efficiacia e li conduce ad un pubblico ben più vasto di quello raggiungibile attraverso una musica rigida ed inscatolata. La scelta del cantato in lingua inglese, inizialmente, mi aveva lasciato perplesso, in qualità di portabandiera della musica italiana. Tuttavia, devo riconoscere che, visto il genere, l’inglese calza molto meglio, semplifica i testi, migliora la musicalità ed apre porte ben più grandi.

La traccia successiva riesce a fondere insieme un’Indie classico della sua definizione ed un Rock’n’Roll appena appena accennato nelle chitarre. Scorre rapida e non mi stupisce e mi conduce a “Before You Go (Take Me Home)” che apre con un’intro stile Augustana e mi chiedo se me li ricorda proprio tutti o se sono tutti uguali. Il cantato è cupo e conferma le due tonalità percepite nel corso dell’album: o singhiozza o si tiene su un profilo a bassi toni il nostro Ferdinando. Però a poco più di 2’ dall’inizio la traccia apre bene e quasi inaspettatamente, lasciando buono spazio ad uno strumentale ben lavorato, in cui si insinua un guitar solo carino, ma non spettacolare. Torna la voce singhiozzante, accenna un urlo, ma i Chemical non li tocca per davvero neppure stavolta.

I titoli di coda sono accompagnati da una traccia ad ottimo contenuto strumentale, con tanto di effetti e pedaliere. Molto lenta, ma altrettanto lavorata. La batteria si articola in un semplicissimo cassa, cassacassa, rullante per tutta la durata del brano. Un giro banalissimo che il più delle volte funziona bene; stavolta compresa. Un po’ statica come traccia, ma si adagia bene sul numero che porta. Abbiamo scrutinato tutti i brani e ne abbiamo valutato la compostezza. È giunta ora di tirare le somme. I Party in a Forest sono senza dubbio un gruppo che lavora bene, che non si preclude alcuna tipologia di pubblico. Il genere trattato è un genere piuttosto semplice, orecchiabile e facilmente arrivabile dal più degli apparati auditivi. Non posso negare che siano tutti e tre ragazzi capaci, ma è altrettanto vero che l’aprirsi a pubblici troppo vasti si paga con la qualità dell’opera. Non si fraintendano le mie parole, per carità! È un buon gruppo, nulla da togliere, ma nulla che valga la pena di consigliare, se non ad un amico in crisi di prendiamoci una pausa o di devo capire cosa voglio dalla vita, cose così. Mancano in esercizi di stile ed in articolate esposizioni di doti artistiche. Fossi l’ascoltatore medio gli darei il massimo dei voti, essendo che i ragazzi si fanno ascoltare senza troppe pretese. Tuttavia io sono quello fissato che cerca sempre la vena artistica, quello che sente la musica e se ne sbatte della canzone, quello che la musica come sottofondo è da sfigati. Al massimo è il resto a far da sottofondo alla musica. Non riesco a negargli la sufficienza e ammetto che, senza dubbio, i Party in a Forest valgono molto di più, ma forse in altra sede. In questa sede, mi riservo il diritto di essere strettamente selettivo e voglio vestire i panni del redattore cattivo che formula i voti miscelando tutte le componenti necessarie. Il miglior sunto che mi riesce è una cosa del tipo “sono come gli Augustana: compri il disco, lo metti nello stereo e intanto fai i cazzi tuoi”. Però il disco lo comperi.

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Band Bunker Club – Musica per Cafalopodi e Colombi Selvatici

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La band astigiana sa essere evocativa e raffinata ma sa anche prenderti a schiaffi usando le parole al posto delle mani.
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The Great Northern X – Coven

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Sono al secondo disco ufficiale i veneti The Great Northern X, hanno speso l’intero anno 2013 per dare vita a Coven. Si parla di Rock duro con complicanze sentimentali molto evidenti, la rottura metallica delle chitarre ammorbidita dalla voce calorosa, questo lavoro sembra arrivare da un’epoca ormai lontana. Forti sentori di vintage, adoravo gli Annie Hall. Perché dentro Coven appaiono forti le somiglianze con il primissimo Indie italiano, gli ambienti proposti portano esattamente a quel tipo di sensazioni, a quelle indimenticabili e toccanti situazioni. Poi bastano un paio di cuffie, chiudere gli occhi e abbandonare la mente per godere voracemente dell’ultimo disco dei The Great Northern X. Si parte con “Skunk”, e un sound vagamente Punk ci butta direttamente a tanti anni fa quando gli Atleticodefina erano considerati L’Indie. Molto dolce e orecchiabile il ritornello emozionale, strappa lucidità dagli occhi. Le chitarre urlano Folk nella ballata “Let’s Drown Our Sorrow”, sarebbe il caso di continuare a piangere ma di gioia. Bella, molto bella.

Tristezza come non ci fosse possibilità di reazione in “The River Song”, le canzoni tristi sono quelle che ci piacciono di più, poi quell’armonica materializza l’immagine di Jeffrey Lee Pierce, il ritornello segna il momento di maggiore carica emotiva di tutto il disco. Si tornano ad usare riff di Rock duro in “Dead Caravan”, tanti anni novanta dentro, parecchio Noise e zero voglia di sperimentare. Un brano distante dalle precedenti canzoni, sempre chitarre protagoniste e voce particolarmente riconoscibile. Ancora tanto Noise nella Post Ballata “Machine Gun Stars”, si ritorna nuovamente alla bellezza del passato, l’attuale mondo Indie italiano (se mai ce ne fosse ancora uno) non appartiene ai The Great Northern X. Loro hanno una visione nostalgica di suonare musica, hanno le loro idee da sviluppare senza l’aiuto di nessuna partecipazione, sono loro a suonare in assoluta autonomia (e presa diretta) l’intero Coven. Perché è importante dimostrare di essere capaci di fare un grande disco con le proprie forze e senza l’aiutino di qualche musicista di spessore. Tutta farina del loro sacco, liberi di piacere, liberi di accettare critiche. “Carol” è dura all’inizio, una pietra che viene man mano ad ammorbidirsi quando arriva il ritornello, il momento clou del pezzo. La forza indiscussa dei The Great Northern X è sicuramente il fatto che riescono ad esplodere tante sensazioni nei ritornelli, sono capaci di renderli unici e particolarmente attesi. Strappa lacrime oserei maldestramente dire. La chiusura di Coven passa per le note struggenti di “Fever”, è un peccato non lasciarsi accompagnare verso la fine di questo percorso tenendosi stretti per mano ai The Great Northern X, spegnere il cervello e buttarsi senza timore in questo viaggio. Un secondo disco dalle grandi aspettative, piacerà tantissimo e la band veneta avrà tutte le soddisfazioni possibili, in questo periodo musicale spento e ripetitivo loro sono giustamente qualcosa di bello e sensazionale. Chiudete gli occhi e iniziate a sognare, tutto il resto non conta nulla.

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DelaWater – Open Book at Page Eleven

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Arrivano da Teramo i cinque Delawater, che nel disco d’esordio Open Book At Page Eleven giocano col sembrare poco, pochissimo italiani (e qui è un bene, s’intende): ciò che colpisce delle otto tracce (in inglese) di questo album, sospeso tra la morbidezza del Pop e una pasta sonora quasi Shoegaze, è il gusto nel comporre, la maestria nell’infilare, uno dietro l’altro, dettagli impeccabili, in un tentativo ammirevole di scrivere canzoni Pop (in senso lato) di livello che siano comode, semplici, ma architettate con attenzione, con amore (il primo singolo, “Now I Can See No More”, ne è un’ottima prova: strofa sommessa, ritornello intenso, aperto dai synth, e poi atterraggio su hi-hat in levare nella seconda strofa: da manuale), come una certa tradizione perlopiù inglese e americana ha fatto a partire dai meravigliosi anni 60 (citano tra i loro riferimenti i Beatles e i Love, per capirci). Tutto questo senza disdegnare attimi di disorientamento controllato e liberatorio (la seconda metà di “This Place Doesn’t Build Opinions”, per esempio), che spezzano la morbidezza quel tanto che basta per giungere alla fine del disco senza troppi rimpianti.

E quindi, come da ricettario, chitarre e ritmiche che non hanno paura di rendersi intense e vibranti, passando dalla morbidezza delle acustiche alle distorsioni pastose di elettriche ben calibrate, appoggiate ad un basso torrido e liquido, in mezzo a tappeti di synth e pianoforti che bagnano il tutto e rendono gli spigoli smussati, a prova di bambino, in un calore che più che materno è uterino, e per una volta l’ufficio stampa non mente: “Ascoltare la musica dei DelaWater è come immergersi in una vasca di acqua calda senza fondo, senza rischio di affogare”. Tuttavia, per essere un disco memorabile questo non basta. La bravura con cui i Delawater ci trascinano nel loro mondo acqueo, nel loro libro aperto (per caso o meno) sull’undicesima pagina, non basta a tenerci ancorati lì, a volerne ancora. Sembra una scusa da amante paraculo (“non ti amo, ma amo stare con te”) ma è la sacrosanta verità. Un bel disco, Open Book at Page Eleven, di Rock indie sognante e morbido, di melodie e armonie progettate al millimetro, di soundscapes aperti e confortanti, di Pop studiato e arrangiato e prodotto con coscienza ad ogni livello, ma che lascia poco il segno. Una volta arrivati qui, però, al prossimo passo la strada è breve: e i Delawater promettono bene.

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Warpaint – Warpaint

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Ho visto le Warpaint dal vivo nel loro primo concerto in Italia, al Magnolia di Segrate, non mi ricordo l’anno (ricordo però che chiudevano la serata i Dinosaur Jr). Già all’epoca le quattro fanciulle California-based mi avevano saputo conquistare (dopo aver già conquistato gente tipo John Frusciante, che aveva mixato e masterizzato il loro EP d’esordio, Exquisite Corpse) con la loro miscela di Indie rarefatto e ossessività psichedelica vellutata, sospesa, da persiane chiuse su cappa di fumo da bong, con la luce a filtrare, gialla e pallida, tra le volute lente. Ecco, le Warpaint mi fanno salire l’espressionismo.

In quest’ultimo album self titled, che segue il già fortunato ma alquanto sfilacciato The Fool del 2010, la strada della nebbia Psico Indie è stata presa con ancora più forza e convinzione, trasformandola quasi in un labirinto purpureo di involuzioni fosfeniche, un palazzo escheriano in cui perdersi in saliscendi e false porte. Gli ingredienti del preparato psicotropo sono semplici e neanche troppo imprevedibili (vedere ultimi dischi dei Wild Beasts, per esempio): ritmiche quadrate e ossessionanti, con largo uso di drum machine e percussioni varie; un mare di synth, arpeggi di chitarra in delay, insomma, tutto quanto di più atmosferico ed etereo si possa innestare intorno a pattern ridondanti e riff dai tempi spezzati e rotolanti; e per finire, voci lontane, morbide, d’una femminilità impersonale, una sull’altra, come un coro di occhi lucidi a brillare nel buio.

Il disco (prodotto da Flood, già al lavoro con, tra gli altri, Smashing Pumpkins, Sigur Rós, Nick Cave And The Bad Seeds e mixato da Nigel Godrich di radioheadiana memoria) non ci rimane impresso per qualche canzone in particolare (anche se quelle riuscite per se ci sono: “Love Is to Die”, un instant classic, o “Disco//very”, col suo andamento danzereccio e strafottente, che farebbe la sua porca figura come colonna sonora in qualche episodio di Girls) ma è nel complesso che gira come deve, nella somma delle sue parti: una cavalcata mentale da strafatti californiani che può diventare il ballo ipnotico e lento di qualche sballata nei piccoli locali di LA (d’altronde, “love is to die, love is to not die, love is to dance […] why did you not die, why don’t you, why don’t you dance, and dance…”). Insomma, un buon prodotto in cui perdersi in occasioni rilassate da riempire di fumo e atmosfera. Astenersi cercatori di graffi ed oppositori delle droghe leggere.

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