In agosto l’Italia generalmente si ferma e tutti si dedicano a giornate oziose distesi come pelli di leopardo su spiagge, lettini, materassini e chi più ne ha più ne metta, mentre gli instancabili scozzesi Franz Ferdinand si preparavano a sparare fuori un nuovo attessissimo album. Nel mentre orde di fan con le fauci spalancate dal 2009, oramai asciutte dalla tanta attesa, hanno divorato con bramosia i furbeschi teaser lanciati dai quattro, secondo collaudate tempistiche discografiche. Tutto questo rumore per la quarta fatica del gruppo che già nel titolo si anticipa proverbiale Right Thoughts, Right Words, Right Action. Avranno davvero pensato, parlato e agito nel modo giusto i genietti dell’Indie Rock?A sentire le dieci tracce sembrerebbe proprio che a Glasgow abbiano imparato a mettere il proverbiale gatto nel sacco infilando uno dietro l’altro una serie di pezzi cuciti alla perfezione addosso. Come dire facciamo quello che sappiamo fare nulla di più, ma lo facciamo alla grande. Né è riprova la marcia indietro rispetto al precedente Tonight lascianado solamente ai posteri i giochetti elettronici e le ambientazioni New Wave e ai dj da night life le versioni Dub. L’inizio ti stende con tre semplici mosse da cintura nera, “Right Action”, prima nota e subito vorresti amare Alex Kapranos non solo per il suo accento scozzese. “Evil Eye”, quando la rivisitazione supera ogni aspettativa e un riff da pellicola horror riesce a diventare un brano dissacrante al punto giusto, irriverente, disconnesso con punte splatter e patina anni 70 accompagnato da un video non adatto ai deboli di stomaco. “Love Illumination” ammalia con un sound che ammicca, grazie alla presenza dei synth ai ritmi da dance hall, capace di infilarsi subdolamente nel cervello per non mollarlo più per ore e ore. Batteria dritta, chitarre in levare sembre di ascoltare il manuale dell perfetto indie rocker scritto su pentagramma. Dopa aver sudato saltellando a ritmo serrato si viene catapultati nel mondo Brit Pop, dalle punte dei capelli fino alle punte dei calzini, di “Stand On The Horizon”, nonostante qualche coretto di troppo che sopportiamo per affezione. Saremo anche in scozia, ma Damon Albarn e compagni fanno scuola anche da quelle parti. Giusto verso la metà dell’album, come per l’ora del te ci prendiamo un momento di relax per concederci uno sguardo romantico con gli occhioni melanconici che guardano fuori da un finestrino striato dalle gocce di pioggia, assaporando il gusto di “Fresh Strawberries”. Il momento mattone finisce presto e subito torniamo ad agitare il bacino e le gambette con “Bullet” e “Treason! Animals!” che passano veloci con riff solari e ritmati. Rock ballabile ecco la definizione calzante che sta alla base del sound di quest’ album. Siamo rocker ma non per questo rinunciamo al momento intimistico, l’anima del musicista che si apre e immancabile serpeggia tra le note con la voce di Alex che si fa leggera e sussurrata tra una riflessione sull’universo che si espande e un incontro frugale, così uno dietro l’altro in un ordine prestabilito “The Universe Expanded” e “ Brief Encounters” fanno pensare a un ossimoro, intelligenti questi Franz Ferdinand. Siamo alla fine, ai saluti finali con “Goodbye Lovers & Friends”. Brano enigmatico soprattutto per i separatisti che intravedono un velato, e non più di tanto messaggio di congedo. Sono il futuro saprà dirci. Per il momento ci godiamo quest’album con il quale i quattro di Glasgow hanno fatto centro. La mossa vincente è stata ritornare alle sonorità che li hanno resi celebri in tutto il globo abbandonando eccessivi sperimentalismi. Senza dubbio l’assenza dalle scene per un tempo così ampio ha creato grande attenzione intorno a questo album e al tempo stesso a fatto crescere quel vuoto di presenza che necessitava di essere colmato e che ha in qualche modo spianato la strada a Right Thoughts, Right Words, Right Action. Ora per la sacra consacrazione manca sola la controprova live, ma per quella a noi poveri italiani tocca aspettare ad aprile. Stay tuned direbbe qualcuno.
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The Geex – The Geex
Inizia con un robusto fill di batteria questo ep, il primo, dei The Geex e poi ecco un giro di chitarra cazzutissima con un bel basso plettrato. Dopo appena dieci secondi di The Geex ecco che pensi di trovarti a che fare con un fottutissimo disco alla Placebo, ti sorprendi a sorridere pensando che ti aspetti una bella serata di musica Indie Rock nella tua stanzetta semi buia del tuo condominio di periferia.
Invece, come a volte succede nel sesso, ciò che ben comincia non è detto che non finisca di lì a pochi secondi: entra la voce in un finto inglese di quelli che si utilizzano per fare i primi provini e d’incanto mi trovo ad ascoltare un emulo di Rocky Roberts nel celeberrimo “Stasera mi buccio”: unica differenza è solo che qui un italiano cerca di sembrare inglese e non un nero che cerchi di sembrare Lando Fiorini; il pezzo si intestardisce in una melodia a metà tra lo scanzonato e il musicalmente scurrile, il giro di chitarra cazzutissima rimane lo stesso fino alla fine del disco mirando con cazzutissima precisione chirurgica al basso ventre dell’ascoltatore, la batteria non molla un attimo il charlie in sedicesimi e il rullante non molla il tre come nemmeno i migliori Def Leppard avrebbero osato, nel pieno degli anni 80. La voce, infida, insiste su parole appena appena stropicciate da qualche decennio di canzoni: Love, Hope e soprattutto Dream: ci tengo davvero a soffermarmi sull’inciso del secondo pezzo “Empty” dal titolo evidentemente riassuntivo dello spirito dell’ep; da quando ascolto musica non mi era ancora riuscito di ascoltare un vocalizzo di così tante note e così tanti secondi (sulla i di Dream per l’esattezza). Con un vocalizzo così lungo The Geex possono provare ad insidiare il record mondiale di vocale indoor dei migliori Verdena, i quali almeno allungavano vocali nella loro lingua madre. Vocalismo patriottico is better, passatemi l’inglesismo, anche io a scuola ho studiato un po’. Il disco volge al termine in altri due pezzi: “Africa” mi sembra giusto un pelino di un livello compositivo più alto degli altri. Ma è come se il sesso sia durato dieci secondi e poi ti abbiano propinato venti minuti di coccole. Che ne dite donne, quante volte avete provato la stessa esperienza con i vostri partner?
Distinto – In Genere
Daniela D’Angelo, voce e chitarra acustica e Dani Ferrazzi alla chitarra elettrica formano, dal 2011, i Distinto, giovane duo italiano che dopo tantissimi cambi di formazione ha raggiunto la sua stabilità nel numero due. In Genere invece è il titolo del loro primo album ufficiale, autoprodotto, registrato in presa diretta senza sovraincisioni anche grazie al lavoro di Paolo Perego (Amor Fou) e stampato nei primi mesi del 2013. Come loro stessi scrivono In Genere non è un’idea perfetta ma un’ idea imperfetta ed in continua evoluzione come i nostri pensieri. Quindi un continuo divenire, un continuo evolversi lontani dall’idea della perfezione esecutiva e sonora, ma sempre vicini al loro modo di sentire e provare emozioni.
L’album si apre con “Benda Rossa”, primo brano acustico con qualche distorsione elettronica che sottolinea la purificazione attraverso il dolore. “Il Mondo Non Aspetta”, invece, mette al centro il passare inesorabile del tempo, come l’idea di una donna ferma davanti allo specchio mentre il tempo ingoia e poi rigetta. In “Ci Sarà” si scorge, invece, un piccolo cambio di rotta (ci sarà una bella luce) minimamente ottimista ma sempre incentrata sulla verità, dove la musica è piacevolmente scorrevole. “Email@me“ sembra che ritorni nel cantuccio autobiografico (chi se ne frega dei miei vestiti ammucchiati, quando un corpo non sta bene come sta) con un andamento da ballata lenta, nel quale il connubio voce e chitarra è totale; cosi come in “Mi Hai”, brano sospeso tra amore e verità come se accarezzarti vorrebbe dire avvelenarmi e tutto ora dorme in un angolo come acqua fresca nel fango.
L’autobiografia continua anche in “Disfunzione Sentimentale” sesto brano in cui la forza butta in faccia tutte le parole e le visioni più scomode (inferno o paradiso sono interscambiabili, a volte mi vergono per gli altri) e in “Fiori Acidi” che, musicalmente, rimane fedele a tutta la linea dell’album, una linea Rock, forte nonostante il connubio voce e chitarre e costante nei testi fitti e pieni di storie e significati. “Lacrime Rosse” è l’ottavo brano e anche video ufficiale dei Distinto che attraverso le immagini, lo sfondo nero, le luci soffuse e le ombre aiuta ancora di più a raccontare l’atmosfera Noir di questo mondo che sembra sospeso e lo rimane anche negli ultimi due brani “Rivelazioni” e “Ci Sono Cose Che” ben incastonati nel percorso di tutto l’album. Infine questa atmosfera potrebbe rappresentare sia la forza di questo lavoro che il suo punto debole nel non diversificarsi in ritmi, generi e visioni un po’ diverse magari più ottimiste, ma questo dipende da molti fattori, dalla veridicità e dalla profondità di ogni artista, in fondo questa è musica.
Adele e il Mare – Origami EP
Adele e il Mare non è una donna sognante e marinaia, ma una band di tre ragazzi milanesi che scegliendo questo nome d’arte hanno trovato il modo di dipingere il grigio della loro città natale attraverso nuovi colori. Si descrivono genuini e credono che la musica sia una via con il quale esprimere emozioni interiori nascoste, e per preservare questa loro spontaneità hanno deciso di fare tutto da soli: sono arrangiatori, musicisti, produttori e fonici di loro stessi. Insomma una band completamente Do It Yourself, e tanto di cappello!
Origami è il viaggio di Adele e il Mare, un viaggio intimo e profondo descritto dal suono di cinque tracce. Si parla di strade, intese come decisioni e vie da affrontare in “Camminerai”, brano che inizia con un fantastico giro di batteria picchettato e che alla fine ti lascia un senso di speranza misto sofferenza. In “Novembre” il lato nostalgico di Simone (frontman e chitarrista) inizia a scorgersi, e si racconta attraverso metafore fatte di colori e parole sospese nell’aria. Un po’ come un bimbo intento ad afferrare un palloncino che fluttua nell’aria, un palloncino colorato, un palloncino troppo alto per lui, un palloncino che purtroppo potrà solo guardare volare via. Dopo “Novembre” seguono “La Pioggia è Finita” e “L’involontario Sogno di Enea”, ed anche qui direi che l’immagine del bimbo con il palloncino è esaustiva, in quanto l’argomento centrale che lega un po’ tutte le tracce sono le cose che non tornano, le cose che se ne vanno via così, sospese. Chiude il tutto “Domani”, un brano che lancia un messaggio di speranza al mondo, ricordando a tutti che anche se oggi il cielo è grigio è scuro, ci sarà un domani più limpido e chiaro.
Gli Adele e il Mare si descrivono come una band Indie-Rock, ma a me sanno più di Indie-Pop e mi ricordano tanto i Velvet, specialmente il brano “Dolevo Dirti Molte Cose”. Non so se a loro possa far piacere o meno questo mio accostamento, ma comunque sia è ciò che il loro suono e soprattutto i loro testi mi hanno ricordato.
Sigur Rós – Kveikur
Questa recensione non è assolutamente semplice. Ho dovuto ascoltare Kveikur, l’ultimo disco dei Sigur Rós, uscito praticamente un anno dopo Valtari, almeno sette volte in giorni diversi e momenti diversi, prima di potermi avvicinare al foglio di Word. E ho letto in giro cosa se ne pensasse per capire se ero io che non coglievo certe sfumature o se semplicemente tra i fans e tra gli esperti non ci fosse un po’ di sano servilismo. Come a dire: questi sono dei grandi, non possono che sfornare l’ennesimo capolavoro. “La sferzata Rock degli Islandesi”, “Dopo aver indagato il cielo eccoli che scandagliano l’inferno”. Ne ho lette veramente per ogni colore, ma ancora adesso non riesco a districarmi tra la mole di informazioni raccolta e l’impressione diretta che ne ho io all’ascolto. “Brennisteinn” semplicemente non sembra farina del loro sacco: la struttura è molto più canonica, le singole componenti (e soprattutto la batteria), sembrano prese da un qualsiasi gruppo indie-rock che non si scula nessuno o quasi. Manca quella sensazione di artificio elettronico comandato dall’uomo, quella sacralità di ogni movimento melodico a cui ci hanno abituato con i lavori precedenti. Persino la voce di Jonsi non sembra più la stessa. “Hrafntinna” è semplicemente debole e fortuna che “Ísjaki” e “Yfirborð” sembrano riportarci in un universo sonoro più noto e sicuro, per quanto il ritornello della prima suoni troppo troppo Pop. Anche “Stormur”, non fosse per una tendenza danzereccia che proprio non è da loro, potrebbe essere un bel brano, ma, davvero, sono le percussioni a essere strane in questo disco. E non ci trovo niente di terreno, non sento il tentativo di un’esplorazione del basso, dell’infernale, dell’interno, in contrapposizione ai voli pindarici ed eterei precedenti. Sento una patina Indie-Pop che stride con le mie aspettative. Solo la title-track, “Kveikur”, sembra confermare la lettura di chi sente una virata Rock nel disco. Più industrial, a dire il vero. E anche un industrial piuttosto malato e visionario. “Rafstraumur” è scontata, “Bláþráður” è sintetica, “Var”, invece, è meravigliosa, la prosecuzione ideale dell’ “Ég anda” che apriva Valtari. Ce l’hanno lasciata lì, al fondo, come la promessa di un ritorno, come a dire che questa era una prova, una parentesi, un esperimento e che torneranno. Senza farsi schiacciare dai loro stessi strumenti, senza bisogno di appigli pulsionali e scansioni ritmiche così rigide, senza dare l’impressione di essersi persi nei confini netti di strofa-ritornello.
Deerhunter – Monomania
E’ uscito da pochi giorni il quinto album Monomania dei Deerhunter, band statunitense di Atlanta, formata dall’amato Bradford Cox, Moses Archuleta, Josh Fauver e Lockett Pundt. Il genere di questo lavoro è incasellato nel Noise Rock, ma più in generale possiamo inserirlo nella categoria Indie-Rock. La lunga attesa tra il precedente e l’attuale opera avevano fatto sperare in qualcosa di memorabile. Speranza presto sfumata per i fan.
Il titolo dell’abum Monomania ci introduce in un ascolto che a tratti diventa realmente ossessivo e maniacale con i suoni grezzi e distorti dal mood garage, mentre in altri momenti è in grado di cullarci in sound più rilassati. Le tracce di Monomania sono 12 e l’ascolto scorre fluido tra gli inizi noise/garage di “The Leather Jacket” e “Neon Junkyard”e i brani meno pesanti, più simili a ballad, come “The Missing” o “Nitebike” che intervallano l’album dandogli quella giusta alternanza di atmosfere che non annoiano l’ascoltatore.
Chiare le influenze, dichiarate anche dalla band, dei Ramones e degli Sonic Youth in primis, ma ad un ascolto più attento si scorgono anche piccole somiglianze con i R.E.M. e forse, a mio parere, anche lontanamente alle atmosfere degli Smashing Pumpkins. Un disco in cui si evince la decisione e l’immediatezza di suoni e testi, non ancora del tutto maturi e profondi, come invece ci si sarebbe attesi da una band di rilievo del settore come loro. I Deerhunter dicono bye bye alle sfumature psichedeliche che abbiamo trovato negli album precedenti e lasciano le canzoni ad uno stato grezzo e meno raffinato.
Un album tutto sommato interessante seppure sia purtroppo lontano dallo splendore e dai fasti di Halcion Dygest (2010) che probabilmente è quello che possiamo considerare il vero album icona dei Deerhunter, vista la grande trasversalità degli apprezzamenti ricevuti. Un disco, Monomania, che piacerà molto agli amanti del Noise e del Garage, ma non troverà troppi consensi in chi si aspetta il proseguo della storia del gruppo che si era così ben improntata nel 2010.
The National – Trouble Will Find Me
Pubblicare nuovo disco non sempre può confermare all’eccelso una nuova fase o al meglio una nuova direttrice sonora da far poi intendere agli accaniti fan sempre pronti a discreditare il loro beniamini ad ogni passo; il quintetto dell’Ohio, The National, ci provano a rimboccare le identità del loro essere musicisti di tendenza, compongono e solidificano il loro sesto disco per la 4AD e lo mettono al giudizio degli ascolti, e subito si nota che la tendenza generale della tracklist è che tutti gli arzigogoli di contrasto, quei sogni disturbati e visioni troppo farcite da parafrasi sono quasi scomparsi per fare posto ad un groove molto, ma molto più rivolto su sé stesso, che si guarda dai piedi alle ginocchia e che apre forse un nuovo corso degli Americani..
Trouble Will Find Me si avvicenda all’orecchio con un incedere strisciante, che si apre piano piano prima di sfoderare il suo animo scuro, quel bel fangoso che tanto piace alle devozioni di un certo post-rock riletto in chiave indie, una dimensione sgranata che è languida come un tramonto d’amore, come una improvvisazione d’animo dopo una mezzanotte pensierosa; undici tracce volutamente sfocate, nebbiose e tardo romantiche – in certi aspetti – ma che seguono il loro andare fluente, la loro crescente struttura per una volta tanto lontana dai voleri forzati delle aspettative; poche orchestrazioni e nulli gli avvitamenti distorti, la stupenda voce baritonale di Matt Berninger fa da collante tra il sound sempre tenuto sui toni in minore e le atmosfere ricercate delle settime alte “I Should Live In Salt” o nelle incursioni fool che “Don’t Swallow The Cap” semina nel suo passaggio; un disco che distilla tabù personali ed intimità “Demons” come protegge l’ossessione delle illusioni “Graceless” per portarle poi a sospirare in un febbrile ma sedimentato patos di sintetizzatore insinuante “Heavenfaced”.
I The National non sono più ragazzini di quartiere, sono maturi e hanno voglia di sperimentare, andare oltre il consueto costrutto, e questo nuovo lavoro di certo non sbalordisce, ma ha un suono dell’anima che – senza tanto confondersi – è rassicurante e mette in pratica quello che forse non riusciamo più a comprendere, persi e distratti come siamo.
Sabina Caruso – Senza Remore
Sabina Caruso è una cantautrice siciliana che dal 2009 porta in giro la sua musica, vincendo premi, concorsi (Epidaurock, Indie Contest ecc) e collaborando anche con l’artista visiva Tiziana Contino, curatrice del video “Senza Remore” e della copertina dell’album. Insomma l’arte a tutto tondo per una musicista che si diverte a raccontare le sue esperienze ma anche quelle che appartengono ai racconti di chi le sta accanto, come farebbe una brava scrittrice, infatti, Sabina si guarda attorno e racconta la realtà e i suoi sentimenti, le ansie, le gioie e le pressioni della sua vita.
Senza Remore invece è il suo primo lavoro discografico, uscito nel febbraio 2013, composto da nove brani, il cui primo singolo è “Senza Remore” da cui traspare il mondo musicale di questa cantautrice che si definisce schizofrenica e spontanea, con una voce vera, senza fronzoli, sincera e di impatto con il graffiato che qualche volta compare. Il Rock quindi è la via maestra nei suoni distorti e graffiati, ma anche nella forza contenuta in tutti i racconti di questo album, anticipato dal brano “Non ho Tempo”. In questo lavoro Sabina Caruso canta e suona la sua chitarra accompagnata da Daniele Grasso alle chitarre e all’elettronica, e Giusy Passalacqua alla batteria. Dal vivo invece la situazione cambia, infatti la giovane cantautrice siciliana, che studia anche Legge e lavora in un’agenzia turistica, sul palco canta, suona la chitarra, le percussioni e la tastiera, supportata dal bassista Michele Musarra, dal batterista Giovanni Amato, dal chitarrista Livio Rinaldi e dalla special guest Vincenzo Di Silvestro al violino e synth.Insomma una donna e una musicista che non perde tempo, infatti tra un annetto potrebbe anche uscire il suo secondo album dato che ha già in cantiere una settantina di brani nuovi di zecca, ed è interessante il suo pensiero: le canzoni esistono prima che noi le creiamo, semplicemente scelgono da chi essere scritte… adesso, meritano di essere ascoltate.
L’unico consiglio importante che mi verrebbe di dare per migliorare la promozione di quest’artista è quello di ampliare e creare degli spazi per ascoltare Senza Remore gratuitamente. A discapito di quello che molti dicono, secondo me, l’ascolto gratuito di un album è già di per sé un’ottima promozione nel marasma musicale odierno, proprio perché stimolerebbe a un ascolto integrale e più attento, in più sarebbe già un’ottima opportunità per farsi conoscere ed apprezzare da un pubblico più vasto che poi potrebbe comprare l’album, i gadget e i biglietti dei concerti. La fase di promozione musicale è molto cambiata rispetto per esempio agli anni settanta ma l’ascolto gratuito e il tanto girare potrebbero essere una parte del segreto del successo odierno.
Marydolls – La Calma
Dolcezza monolitica e giugulare espansa, una “fabbrica di membrane oscure” per una serie di incredibili attimi di elettrica santità. Tutto questo nel secondo album dei bresciani Marydolls che hanno poi la sfrontatezza di chiamarlo La Calma alla faccia della gradevole sensazione. Un disco che pesa sia di suono che di lirica, una condizione sonora che fa fuoco attraverso un profondo smarrimento di luce, disco che attraversa i Verdena come un raggio di laser e li infilza nelle provocazioni della sintomatologia malata del Grunge, undici tracce che tra pomposità amperiche e pugni riflessivi di “umanità semplice” scardinano e sconvolgono qualsiasi volontà a mettere in moto un minimo sindacale di pace interiore.
Il trio in questione mette in primo piano una buona dose di genialità nel non ricadere nei copia incolla che spesso il genere mette come tranello, usa malinconie e scatti d’ira con gli stessi pesi dell’intensità emotiva, spinge su pedaliere e ritmi con l’urgenza di chi è padrone assoluto della naturalezze elettrica e s’innesta nelle impennate della propria personalità rock come una forza scura e impenetrabile; sfarzo micidiale nelle trombe che si sposano alla perfezione con le intemperie di chitarra elettrica “Non mi Passa”, tagliente nella speranza di sperare che monta piano piano “A Piedi Nudi”, sfacciati con i demoni Nirvanici che si agitano in “Animale”, “Tangenziale”, come affittuari del caos Pumpkinsiano “A Testa in Giu”, una tracklist perfetta, di gran gusto che regala anche gioielli acustico/elettrici tribali che raggelano il sangue sia per la strisciante tristezza di violoncello nella strepitosa “Luna” che nel ricordo dei fantasmi erranti dei Ritmo Tribale che dondolano tra “Docce” e “La Calma”.
Disco assolutamente da non perdere, non solo perché tra le trame si muovono nomi come quello di Nicola Manzan, ma anche perché questa matassa esplosiva presagisce con certezza, un di sicuro ed imminente capolavoro. Qua la mano!
Please Diana – L’inevitabile
Questo gruppo ha il mio nome e non sarò buona solo per questo piccolo particolare che comunque fa sorridere, infatti il significato del nome Please Diana rimane ancora sconosciuto. Che si tratti di un incitamento nato in sede prettamente sessuale di una coppia inglese, del riadattamento di una frase contenuta nella canzone “Open Fire” dei Silverchair,del ricordo della canzone di Paul Anka o di un accostamento laborioso e nonsense rimane pur sempre un bellissimo nome! I Please Diana nascono nella valle Umbra ai piedi della città di Assisi nell’estate del 2011 da un’idea del batterista Federico Croci e del bassista Alessandro Nardecchia, successivamente si uniscono al gruppo i chitarristi Marco Sensi e Filippo Bovini e la ciliegina sulla torta è la cantante Gloria Bianconie non solo perché io sia anche una donna ma perché in alcuni contesti musicali una giovane voce femminile ci “azzecca” al mille per mille.
Tutti questi elementi si concretizzano con il primo album L’inevitalile,uscito nel 2013,che contiene dentro di se i tre brani che hanno formato il loro primo demo del 2011: “Sospiro” brano melodico e molto orecchiabile nelle sue atmosfere alternative, che in “Cambiamenti” diventano certamente più rock anche se il testo si fa più intimo e personale, e “Quel Posto Che Non c’è” ultimo brano sia del demo che dell’album interessante per i suoi paesaggi certamente malinconici. Il primo demo contenuto nel primo album formato complessivamente da dieci brani, per un totale di circa quarantadue minuti, che viaggiano in atmosfere un pochino più rock come in “Non Chiedermi Perché”, “Istanti”, “Anima e Ragione” e in “Lasciandomi Svanire”, o più acustiche come l’interessante “Boreale” o la bellissima e malinconica “Posso Sentirti”.
Un lavoro, questo dei Please Diana, che si muove quindi nelle più classiche atmosfere alternative indie rock italiane con le sue bellissime chitarre e l’impasto sonoro che crea suggestivi momenti musicali. Il timbro vocale di Gloria, come dicevo prima, appare molto consono per il contesto in cui ci troviamo anche se certe volte appare abbastanza statico. Infine i testi esplorano naturalmente tutte le sfere più che della vita direi dell’animo umano, con le sue sofferenze e i suoi pensieri a volte malinconici. In sostanza un album bello da ascoltare soprattutto quando si ha qualche pensiero per la testa, utile per esplorarlo e capire se stessi anche se talvolta non ci si riesce nemmeno. Un gruppo da tenere sottocchio e sostenere in questo difficile mondo musicale italiano.
https://soundcloud.com/pleasediana/sets/linevitabile-2013
North – Differences EP
Inizia la primavera e a dispetto di una copertina fatta di cime innevate quello che ci voleva per caricarsi e prepararsi a uscire dal letargo di un inverno troppo lungo erano proprio canzoni come quelle contenute nell’Ep Differences dei marchigiani North. Pierfrancesco Carletti (voce, chitarre), Giuseppe Gaggiotti (chitarre), Andrea Monachesi (basso) e Gabriele Tomassetti (batteria) propongono sette pezzi, semplici, freschi ed estivi come una limonata a bordo piscina in pieno agosto. Passando tra richiami a Canadians e Weezer, attraverso tutto l’Indie delle tre decadi ormai trascorse, scelgono un suono pulitissimo ed elettrico, fatto di melodie orecchiabili, chitarre e ritmiche essenziali, classico cantato in inglese e uno stile immediato e senza troppi fronzoli o complicati artefici sonici. Nella loro elementarità sembra di intravedere la stessa ingenuità dei gruppi punk dell’esplosione flower italiana, quando la voglia di suonare e di farsi sentire era tanta e “fanculo se non siamo troppo fenomenali”. Proprio come loro i North fanno esattamente quello che sanno fare senza cimentarsi in esagerazioni inutili che potrebbero sfociare in ridicole manifestazioni di ingenua incapacità. La loro bravura sta proprio in questo. Da pochi elementi, senza strafare, tirano fuori pezzi sorprendenti e melodie sublimi, tanto che sarebbe inutile citare, distinguere o elevare sugli altri uno qualsiasi dei sette pezzi che compongono la tracklist. Da “New Life” a “Free as You” passando per “A Song For Your Boyfriend” tutto si ripete senza sosta, tutto è uguale a se stesso e se la cosa non depone certo a favore dell’originalità, certamente non dispiacerà niente di questo Differences a chi và solo in cerca di belle canzoni Indie (chiamatele come vi pare), merce tanto banale quanto rara in questi tempi di magra.