I Doc Brown piazzano un discreto colpaccio con il loro ultimo EP A Piedi Nudi: quattro tracce leggere leggere ma con una certa densità Pop che le rende memorabili. Ritmi uptempo, veli di chitarre e voci riverberate, un cantato dal timbro azzeccatissimo. Non c’è molta carne in questo EP (alla fine dura meno di un quarto d’ora) ma ci sono ossa, sottili, leggere, come quelle di un uccello, che sono certo può volare bello alto. “L’Uomo Sbagliato”, per dire, rimane in testa come poco altro. Un’ottima prova di Pop facile, comodo, morbido, ma non vanificato dalla banalità. Avanti così.
indie Tag Archive
Doc Brown – A Piedi Nudi EP
Red Shelter – Nothing More…Nothing Less
Attaccano con “Alone” e tu hai la voglia irrefrenabile di metterti il tuo parka verde e andare a farti una birra nel pub più inglese che c’è in circolazione. “Ok” la balleresti fino a perdere il fiato, “Little Closer” o “Just a Game” ti fa rimpiangere di non aver mai imparato a suonare la chitarra per bene. Continui ad ascoltare le dieci tracce dell’album dei Red Shelter e ripensi con una certa soddisfazione a un passato non troppo lontano, contraddistinto dalle risse dei fratelli Liam e Noel, dai cugini nemici Blur e dalla meteora degli Elastica. Un po’ di Supergrass e un po’ di Franz Ferdinand, qualche eco Punk e di Elettronica. Un tributo alla migliore musica dei primi Duemila, ma non una semplice copia di quello che è stato già fatto, suonato e cantato. Un tributo a quello che sono le sonorità che hanno ispirato fin dall’inizio Carlo (voce e chitarra), Clod (basso), Luigi Mic.Rec (batteria) e Jack C (tastiere), ma Nothing More… Nothing Less è la viva conferma di come la musica sia universale, oltre la geografia. E di come, partendo da punti di riferimento, si possa creare per diventare originali e mai scontati. Cantano in inglese i campani Red Shelter, perché è la lingua della loro musica, dicono loro. E perché l’inglese è senza confini come lo è questo disco che starebbe bene nella programmazione di qualsiasi radio Rock. La conseguenza di tutto questo è che l’album lo ascolti e riascolti senza stancarti. Ti sbatteresti anche come un indemoniato se non fosse per la vicina di casa, che è molto poco tollerante. Tanto vale prendere il parka, uscire e andare a cercare il primo palco dove sentirli suonare.
Interpol – El Pintor
Quattro lunghi anni di attesa: un’eternità per gli appassionati, un sollievo per gli avversi. I disillusi come me, invece, restano nel limbo dell’indecisione. Era il 2010 l’ultima volta che i miei padiglioni ebbero un incontro ravvicinato con gli Interpol. Ricordo che l’omonimo album non riuscì a far vibrare nessuna delle mie corde. Forse una sola, quella della rabbia. Il disco sembrò segnare definitivamente la fine della band o quantomeno era una concreta prova dell’inizio del declino. Il talento sembrava esser svanito, la passione, l’interesse, tutto quanto. Non erano più gli Interpol. Contemporaneamente c’era il Paul Banks in giro per il mondo sotto lo pseudonimo di Julian Plenti ed era quanto bastava per poter pensare che all good things come to an end. Poi accorgersi che era soltanto un’eclissi…
È l’8 settembre dell’anno 2014 quando mi ritrovo nuovamente faccia a faccia con i “ragazzi” newyorkesi. E come una vecchia storia finita male merita sempre risposte, così ho cercato le mie in El Pintor. E le ho trovate. Un disco che sembra voler chiedere scusa per gli errori passati. Sin dal primo capitolo si respira aria di Turn on the Bright Lights, quasi come a rispolverare vecchie foto. Foto che trovano, inevitabilmente, tracce di usura, rovinate dagli anni, ma che ce la mettono davvero tutta per apparire nitide e chiare come allora. È fortemente percepibile il recupero di personalità della band, il ritorno della musa, la nuova dedizione. Appena percepibile l’evoluzione stilistica, dai bassi messi lievemente all’angolo e dall’estrema attenzione alle lunghe chitarre Indie che si articolano in riff non troppo complessi, ma ottimamente apprezzabili. Si percepisce qualche capello bianco e qualche ruga in più, ma nel complesso il disco sembra essere un ritorno alle vecchie abitudini, al vecchio stampo, con l’accortezza di aggiungere qui e lì qualche tratto dell’esperienza accumulata lungo il percorso. Senza dubbio l’episodio di maggior rilievo è il primo, “All the Rage Back Home”. Sarà che è quello a più alto contenuto Interpol, sarà che è stato il primo singolo o che è stata la colonna sonora di tutta quanta la propaganda, ma è inevitabile respirare aria di casa, lanciata via dalla cassa a suon di bassi. Citazione positiva anche per “Tidal Wave”, nono capitolo dell’opera, che si propone l’obiettivo di portar via l’ascoltatore attraverso un’alternanza incessante di rullanti e casse, che si staglia su un riff perpetuo e su una voce malinconica. Si percepisce la voglia di andar via, insieme al maremoto (appunto tidal wave) cantilenato per tutta la durata della traccia. La stessa malinconia è palpabile direttamente in “My Desire” ed in altri capitoli, ma d’altra parte ciò non fa che confermare il ritorno osservato.
In definitiva il disco suona come un disco di perdono, una lettera di scuse a suon di musica. Funziona bene, scorre senza crepe e sa ben farsi apprezzare, seppur nessun capitolo riesca a far riemergere antichi splendori. Inevitabile da parte mia il punto a favore per la riaccesa speranza e per la capacità di back to origin dimostrata. D’altra parte siamo innanzi ad artisti dalla spiccatissima personalità e professionalità. Certo, probabilmente El Pintor non riuscirà a donarci tesori come “Pioneer to the Falls”, “Obstacle 1”, “Take You on a Cruise” o quante altre se ne possano citare. Ma questo d’altronde ce l’aspettavamo già.
Codeina – Allghoi Khorhoi
L’ultima fatica dei Codeina è Allghoi Khorhoi registrato e mixato da Fabio Intraina al Trai Studio di Inzago (MI). L’Allghoi Khorhoi è un verme rosso brillante leggendario, che sputa acido, emette scariche elettriche ed è in grado di uccidere un uomo. Più che gli Afterhours sembrano i Verdena dei primi dischi già nell’ascolto di “22 Dicembre”, il singolo di lancio dell’album. Si sgola Mattia Galimberti (“non sei uguale a me”) probabilmente contro la massa, intenta, sotto le feste, a fare regali o a scoppiare botti: “Anche se sei bello ricco e intelligente sappi che sei merda”. Si sentono i Germi degli After nel DNA dei Codeina e la voglia di scatarrare sui giovani d’oggi. Il “Male di Miele”, la melodia e il rumore ritmico controllato di Emanuele Delfanti al basso e Alessandro Cassarà alla batteria. Il sound attufato, per scelta, trova finalmente un po’ d’aria in “Cascando”, canzone intima, sull’ansia di essere amati o no e si fa notare anche qualche similitudine con il Teatro degli Orrori. Sembrano un “Carrarmatorock” in “L’Appeso” ma con le voci più lontane rispetto a quella di Pierpaolo Capovilla mentre mi ricorda “Dea” degli After, il brano “Crepa”. È un derivato dell’oppio la Codeina e non è proprio la musica giusta da ascoltare in estate.
Io?Drama – Non Resta che Perdersi
Che indifferenza fa una vita in più? quello che abita al piano di sopra di Fabrizio Pollio, la voce, che ha la madre fatta di Lexotan e suona il violino, non è Vito Gatto, estroso, gran segaiolo delle crini di cavallo maschio in “Vergani Marelli”. Ma che indifferenza fa una vita in più? A me non me ne frega un cazzo. Non perché non me ne freghi un cazzo. Ma non ti credo. Credo molto più al Califfo e credo non ti sia mai drogato bene nella vita. Disarmonie in Madreperla che non capisco e che non trovo. Morgan ha già scritto “Altrove” e “Cieli Neri” e Andy le ha suonate da paura. Ma d’altronde esiste Moltheni, fanno le tournè estive i Subsonica. Pace.
Se fossi padre ti direi: “Ragazzo mio non ti racconterò favole i mostri sono altri, non sono quelli nei libri. Impara a conoscere i tuoi e non cercare di descrivere i mostri degli altri che finisce che te li fai venire davvero.” Poi ho capito che Non Resta che Perdersi, e che la musica non è Lexotan ma tutt’al più Guttalax. Anche la musica. Forse è solo Indie, Alternative. Sono al quarto disco gli Io?Drama e non sembrano volersi fermare. Piacciono anche a qualche mio amico. Non a me, ma lo giuro l’ho ascoltato per intero, “Non resta che perdersi”, tante eco, e non ho smesso mai di pensare alla mail dell’amministratrice di condominio, al vino in frigo, al formaggino Tigre. Continua a fare quello che ti piace Io?Drama o finirai come me, col formaggino e il vino fresco di frigo.
“Amore mio al di là ci aspetterà l’alba più raggiante, ritrovarci ancora a luci spente.”
Marta Sui Tubi – Salva Gente
I Marta Sui Tubi hanno indubbiamente tratto vantaggio dalla partecipazione al Festival di Sanremo 2013, ma chi, come me, li ascolta e li conosce da sempre sa benissimo che il loro stile è rimasto sempre fedele ed immutato nel tempo. Probabilmente lo aveva già capito anche quel grande genio che era Lucio Dalla, scomparso nel 2012 poco dopo una sua esibizione a Montreaux, qui presente nell’atto conclusivo di questo cd, “Cromatica”. Salva Gente è una raccolta celebrativa della carriera di questo gruppo fatta da oltre un decennio di concerti in giro per tutta l’Italia, di cinque album (ed un ep) in studio e uno dal vivo. Non male come curriculum quindi. Tra le diciannove qui presenti ci sono anche due inediti, la title track (che vede alla voce anche un certo Franco Battiato) e “A Modo Mio”, entrambi descritti dal gruppo come potenti, freschi e vitali. Una definizione che si potrebbe prestare benissimo anche al gruppo stesso, se vogliamo, soprattutto quando sentirete “Di Vino” e “L’unica Cosa”. Anche se scritte anni prima tutte le canzoni conservano il loro fascino originario e resistono alle intemperie senza grandi problemi, segno di una grande capacità di esecuzione e di maestria negli arrangiamenti (gli unici rifacimenti qui presenti sono quelli di “Cristiana” e “L’Abbandono”). Da segnalare anche la presenza della Bandakadabra ne “Il Giorno del Mio Compleanno” e di Malika Ayane in “La Ladra”. Se proprio fosse necessario fare un appunto a questo lavoro, direi che magari un altro inedito ci sarebbe stato proprio bene, ma se ciò avrebbe significato l’estromissione dalla scaletta di qualche traccia allora è tutto perfetto anche così. Nulla da recriminare quindi ed ora non ci resta che aspettare il prossimo disco di questo gruppo che ha sempre dato lustro alla nostra musica. Lunga vita a Giovanni Gulino, a Carmelo Pipitone, a Ivan Paolini, a Paolo Pischedda e a Mattia Boschi! Lunga vita ai Marta sui Tubi!
Maximo Park – Too Much Information
Classico mix tra chitarra distorta VS. riff di note a tratti quasi Country, batteria dritta, synth, ed un senso di spensieratezza: questo è il sound che apre il quinto lavoro degli ormai consolidati Maximo Park. Certo, “Give, Get, Take” suona bene ed è sicuramente il singolo di punta di Too Much Information, ma alla fine risulta fin troppo ripetitivo, tanto da apparire quasi un brano noioso nonostante l’allegria che trasmette. Più pacata è invece “Brain Cells”, canzone distesa che mischia una voce lenta con sonorità Indie che vanno a braccetto con la UK Garage tanto in voga ultimamente. Si continua sulla stessa onda elettronica aggiungendo però un tocco di Future Pop con “Leave This Island” e “Is It True”, dove grazie alla voce profonda di Paul Smith e i Synth mono-nota in stile anni 80 si viene proiettati in una dimensione completamente inversa rispetto al resto del disco. Un po’ come se queste tracce fossero delle macchie grigie adagiate su di uno sfondo a colori, macchie si sbiadite e malinconiche, ma allo stesso tempo macchie che risaltano e si fanno apprezzare. Torniamo ad un suono British quasi balneare con “Lydia, the Ink Will Never Dry”, più energiche e briose sono invece “My Bloody Mind”, “I Recognise the Light” e “Her Name Was Audre”; quest’ultima decisamente più veloce ed aggressiva rispetto a tutto il resto dell’album. In “Drinking Martinis” troviamo il ricordo di una relazione ormai finita e descritta in modo lucido (sia alcolico che per il tempo passato) attraverso metafore sul modo di bere. Atmosfere simili anche per il singolo “Midnight On the Hill” (il video lo trovate qui sotto), ed una chiusura invece romantica con l’incerta ballata “Where We’re Going”, dove ad emergere sono i dubbi di una generazione allo sbando ma ancora sognante.
Mah, devo essere sincera? A me Too Much Information non ha convinto per nulla, l’idea di fondere sonorità oscure ed elettroniche con quelle dell’Alternative Rock brioso regala risultati poco omogenei e poco chiari rispetto al filo che lega i singoli brani. Insomma le canzoni non si incastrano a dovere per creare un unico puzzle, ci sono pezzi che si completano ed altri invece che rimangono abbandonati a se stessi. Dunque qual è il punto focale che la band di Newcastle avrebbe voluto comunicare? Spiegatemelo voi, perché io ancora non l’ho capito.
I Missili – Le Vitamine
I Missili sono una sorta di collettivo dai membri intercambiabili che giocano con ritmi Pop e arrangiamenti ridotti all’osso intorno a filastrocche infantili che richiamano la gran moda naif di questi tempi. Il loro disco, Le Vitamine, è un braccialetto plasticoso e colorato che si vende in spiaggia a poche lire (neanche euro, fa più fico), composto da otto perline dalle ritmiche lineari e dall’esecuzione volutamente approssimativa, sempre nell’ottica di un Lo Fi che vuol essere divertente e che, in parte, anche ci riesce. Le Vitamine è un disco leggero, solare, ludico. Si sfiorano ambientazioni estive e rotolanti arcobaleni Pop (“Dio Romano”, “A Bastonate”), oppure ritmi in levare ondeggianti che richiamano certi anni 70 stile “Giovane Esploratore Tobia” (“Fotoricordo”) negli episodi più riusciti (dove cioè il sorriso si fa complice e strizza l’occhio); in quelli più odiosi si striscia piagnucolanti attraverso pianure di noia (nonostante le ritmiche sempre uptempo, per quanto semplici) e immagini stantie (“Fossili”, “è da un po’ che ti guardo e tu, è da un po’ che non mangi più, bambina”, o “Una Grande Tribù”, “lassù c’è una grande tribù, hanno appeso un uomo a testa all’ingiù, e rulla il tamburo voodoo, com’è bello il coro delle mamme zulù, fammi restare qui sulla mia sdraio blu, fa troppo caldo e su, io non ci torno più”).
I Missili camminano sul filo, ridacchiando, tra una simpatia soave e lieve, che non riesce ad essere poetica quanto vorrebbe, ma che può regalare un sorriso e qualche passetto di danza, e una strafottenza sempliciotta che dovrebbe passare forse per illuminazione e che invece provoca fitte dolorose d’insofferenza. Ascoltatene a vostro rischio e pericolo se oltre ad una luminosa foschia volete toccare con mano qualcosa di fermo, sodo, vero.
Od Fulmine – Od Fulmine
I sogni alcune volte riescono a realizzarsi ma le delusioni sono sempre molto più frequenti, la musica d’autore riesce a farci camminare spensierati e pulsanti sopra la bellezza della vita. Perché poi non è necessario esternare le proprie emozioni, potrebbero essere male interpretate e di colpo tutto potrebbe finire. Scrivono canzoni irresistibili come faceva Tenco gli Od Fulmine al debutto discografico con questo omonimo disco. Indie Rock d’autore tanto cercato dai Non Voglio Che Clara e sponsorizzato dai Perturbazione, la tecnica è quella giusta dei bei testi in chiave Rock, la formula perfetta per modernizzare il cantautorato italiano di tanti anni fa. Gli Od Fulmine sono di Genova e provengono da diverse ma affermate realtà musicali (Meganoidi, Numero 6, Esmen), il loro legame con la cosiddetta “scuola genovese” è strettissimo perché oltre Luigi Tenco si percepisce qualcosa di Fabrizio De Andrè e Umberto Bindi. Insomma, hanno imparato dai grandi maestri cercando di mantenere alta la qualità del cantautorato italiano. Brani come “Altrove 2” e “Ma Ha” spiegano benissimo il concetto di fusione tra cantautore e Indie Rock, soprattutto se viene considerato un sound prevalentemente estero e poco italiano. Se poi volete far increspare la pelle avete bisogno di un brano semplice ed emozionale come “Nel Disastro”, un classica struttura compositiva con un ritornello bellissimo: Ma nel disastro mi vedrai sorridere/Sotto un diluvio ritornare in me/Di notte ho visto quello che mi manca e tu mi vieni incontro anche se non lo fai più.
Non è facile trovare il giusto equilibrio nella musica, il rischio di strafare è sempre dietro l’angolo, gli Od Fulmine percepiscono soltanto le parti buone dell’arte, parlano di amore con chitarre indurite, non hanno paura di mettere a vivo i propri sentimenti. L’ascoltatore è libero di interpretare le canzoni come meglio crede, ognuno può vivere il proprio film senza dover rendere conto a niente e nessuno. L’omonimo disco degli Od Fulmine riesce a caricare di passione, giocando con intrecci sostenuti a volte dalle lacrime a volte dai sorrisi, piove ed immediatamente esce il sole, “Fine dei Desideri” come pezzo immagine dell’intero concept. Le cose che portiamo dentro non sempre riusciamo ad esternarle con la giusta precisione, questo disco parla con il cuore in mano, questo disco è veramente carico di considerevoli aspettative. E noi siamo fieri di ascoltare una band come gli Od Fulmine.
Aa. Vv. – Loves You More
Prima che inizi a parlarvi di questo disco, lasciatemi qualche secondo per raccontare una storia. Siamo a Echo Park, territorio limitrofo alla città degli angeli per eccellenza, Los Angeles, e tra gli alberi che avvolgono l’aria nei loro colori secchi d’autunno si nasconde il cadavere di un ragazzo di appena trentaquattro anni. È il 21 ottobre 2003. Lui è un musicista nato con Post Punk e Grunge nelle orecchie e poi diventato un eccelso cantautore, paladino dell’Indie a bassa fedeltà e tendente, soprattutto agli esordi da solista, a scegliere strade strumentali. Quel musicista ha un tatuaggio sul braccio, il toro Ferdinando, un gigante ma pacifico che alle corride preferisce i fiori, sgraffignato da un libro per bambini. In altre parole un fallito, per chi non riesce a comprendere coloro che si piazzano fuori dagli schemi stabiliti dalla società. Quel cadavere ha un nome: Elliott Smith. Lo stesso Smith che nel 1998 fu nominato agli Oscar per il brano “Miss Misery”, contenuto nel film di Gus Van Sant, Will Hunting – Genio Ribelle. Elliott Smith sale sul palco trasudando un’inadeguatezza quasi malinconica e tenera. Non è quello il suo posto. Forse non è questo mondo il suo posto. Elliott Smith si fa portavoce di una generazione di persone sbagliate nel posto sbagliato. Elliott Smith è infognato nella droga e nell’alcol e nella depressione. Quel cadavere quando ancora era uomo si è preso due coltellate al petto, quel lontano 21 ottobre 2003. Suicidio dicono, eppure pare strano suicidarsi con due coltellate al petto ed è bizzarro che la fidanzata col coltello tra le mani sedesse al suo fianco. Proprio in quei giorni Elliott, nato Steven Paul Smith, stava lavorando all’album From the Basement on the Hill e in quell’ultimo disco abbiamo cercato le tracce che ci donassero la verità, scovando però ancor più il turbamento dell’uomo dietro l’artista.
Loves You More nasce da un’idea di Davide Lasala dei Vanillina. Quindici brani e quindici artisti che all’Edac Studio reinterpretano Elliott Smith, registrando in presa diretta su nastro magnetico e mantenendo intatto quel sapore Lo Fi che ha sempre contraddistinto l’artista statunitense di Omaha. Si va da interpretazioni più canoniche, a scelte più rischiose e audaci, con qualche punta di vera e spettacolare emozione. Non sono certo io il primo sostenitore di tribute e cover eppure operazioni come questa sono qualcosa con un valore che esula dalla pura essenza artistica. Com’è accaduto con il tributo ai Fluxus di qualche mese fa, questi sono strumenti eccelsi che non solo aiutano a riscoprire i grandi del passato e magari proporli alle nuove generazioni ma hanno il duplice ruolo di promotori di nuovi talenti. Nel nostro caso pochi sono i nomi veramente noti al piccolo grande pubblico, Black Black Baobab forse, C + C = Maxigross, Dellera, Edda, Jennifer Gentle mentre gli altri sono soprattutto artisti dei quali, si spera, sentiremo parlare. Dennis di Tuono, Dilaila, Emil feat Cani Giganti, Eva Poles, Il Vocifero, Kalweit and the Spokes, Labradors, Mr. Henry, Nicolas Falcon e gli stessi Vanillina. Da brividi la versione di “Needle in the Hay” di Nicholas Restivo e Roberta Sammarelli dei Verdena ovvero i Black Black Baobab che reinterpretano il pezzo scelto per la colonna sonora del film I Tenenbaum di Wes Anderson. Edda ha optato invece per la lingua italiana intonando “Angels”, brano pubblicato nell’album Either/Or proprio come “Say Yes” dei Labradors e “Between The Bars” intonata da Mr Henry. Degna di nota anche “Bottle Up and Explode! di Emil feat Cani Giganti che azzarda strade di svecchiamento di un sound che in realtà mai suona vetusto, un po’ come propone Kalweit and the Spokes con “A Fond Farewell”.
Se riuscite a mettere le orecchie su questo piccolo gioiello, non staccatevene troppo in fretta se non per andare a riscoprire questo genio sofferente, un vero outsider e voce di migliaia di ragazzi troppo fragili per questo mondo. Non staccatevene se non andare a scoprire le nuove voci di una generazione sempre più in crisi e in lotta contro un mondo che sembra non amare la diversità.