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Majakovich – Il Primo Disco Era Meglio

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Come si evince dal titolo, Il Primo Disco Era Meglio è il secondo lavoro del trio umbro Majakovich. Ultimamente è molto semplice associare l’Umbria al simpatico Luca Benni e alla sua etichetta To Lose La Track, la quale ha confezionato, insieme ad altre etichette discografiche (Metrodora Records e V4V Records), questo disco. Gli alfieri indiscussi della To Lose La Track si chiamano Gazebo Penguins. Se pensi a loro è impossibile non farsi venire in mente la barba di Capra, fautore, guarda caso, del booking de Il Primo Disco Era Meglio. Tuttavia i tasselli del puzzle non ancora hanno finito di combaciare: il refrain di “La Verità (E’ Che Non La Vuoi)”, con le sue curvature Emo Rock, può tranquillamente essere scambiata per un brano dei “pinguini”. Assonanze si notano anche con il coro di “Devo Fare Presto”, simile, eppur dissimile, a “Calce” dei Fast Animals And Slow Kids, conterranei (e le coincidenze paiono non cessare mai) dei Majakovich. Attenzione però a non scambiarli per delle pallide imitazioni di band un pelo più blasonate, perché è necessario avere ben stampato un concetto nel cervello: il terzetto in questione, se ci si mette, è in grado di sovvertire addirittura il naturale svolgersi degli eventi.

Il basso granitico di “Perché Francesco Migliora”, sgranocchierà sassi finché non verrà interrotto dal tenerissimo pianoforte che introduce “Colei Che Ti Ingoia”. Praticamente la tempesta prima della quiete. Due punti focali che fanno lievitare il voto sono senz’altro i testi e le melodie dannatamente catchy. Se poi i due fenomeni entrano in rotta di collisione, ci potremmo trovare a cantare a squarciagola in coda alla cassa di un supermercato E io non me lo scordo quell’inferno. Faceva troppo freddo, ritornello di “L’Hype Del Cassaintegrato”. I quaranta minuti circa che compongono Il Primo Disco Era Meglio, vanno via che è una bellezza, sono pochissimi gli scivoloni nell’autocompiacimento. Esempio lampante, in questo senso, sono gli arpeggi infiniti posti nel finale della malinconica “Una Vita al Mese”. Ma è un’eccezione, un minuscolo neo di un lavoro che non mostra mai il fianco e non ha punti deboli evidenti.

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The Great Northern X – Coven

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Sono al secondo disco ufficiale i veneti The Great Northern X, hanno speso l’intero anno 2013 per dare vita a Coven. Si parla di Rock duro con complicanze sentimentali molto evidenti, la rottura metallica delle chitarre ammorbidita dalla voce calorosa, questo lavoro sembra arrivare da un’epoca ormai lontana. Forti sentori di vintage, adoravo gli Annie Hall. Perché dentro Coven appaiono forti le somiglianze con il primissimo Indie italiano, gli ambienti proposti portano esattamente a quel tipo di sensazioni, a quelle indimenticabili e toccanti situazioni. Poi bastano un paio di cuffie, chiudere gli occhi e abbandonare la mente per godere voracemente dell’ultimo disco dei The Great Northern X. Si parte con “Skunk”, e un sound vagamente Punk ci butta direttamente a tanti anni fa quando gli Atleticodefina erano considerati L’Indie. Molto dolce e orecchiabile il ritornello emozionale, strappa lucidità dagli occhi. Le chitarre urlano Folk nella ballata “Let’s Drown Our Sorrow”, sarebbe il caso di continuare a piangere ma di gioia. Bella, molto bella.

Tristezza come non ci fosse possibilità di reazione in “The River Song”, le canzoni tristi sono quelle che ci piacciono di più, poi quell’armonica materializza l’immagine di Jeffrey Lee Pierce, il ritornello segna il momento di maggiore carica emotiva di tutto il disco. Si tornano ad usare riff di Rock duro in “Dead Caravan”, tanti anni novanta dentro, parecchio Noise e zero voglia di sperimentare. Un brano distante dalle precedenti canzoni, sempre chitarre protagoniste e voce particolarmente riconoscibile. Ancora tanto Noise nella Post Ballata “Machine Gun Stars”, si ritorna nuovamente alla bellezza del passato, l’attuale mondo Indie italiano (se mai ce ne fosse ancora uno) non appartiene ai The Great Northern X. Loro hanno una visione nostalgica di suonare musica, hanno le loro idee da sviluppare senza l’aiuto di nessuna partecipazione, sono loro a suonare in assoluta autonomia (e presa diretta) l’intero Coven. Perché è importante dimostrare di essere capaci di fare un grande disco con le proprie forze e senza l’aiutino di qualche musicista di spessore. Tutta farina del loro sacco, liberi di piacere, liberi di accettare critiche. “Carol” è dura all’inizio, una pietra che viene man mano ad ammorbidirsi quando arriva il ritornello, il momento clou del pezzo. La forza indiscussa dei The Great Northern X è sicuramente il fatto che riescono ad esplodere tante sensazioni nei ritornelli, sono capaci di renderli unici e particolarmente attesi. Strappa lacrime oserei maldestramente dire. La chiusura di Coven passa per le note struggenti di “Fever”, è un peccato non lasciarsi accompagnare verso la fine di questo percorso tenendosi stretti per mano ai The Great Northern X, spegnere il cervello e buttarsi senza timore in questo viaggio. Un secondo disco dalle grandi aspettative, piacerà tantissimo e la band veneta avrà tutte le soddisfazioni possibili, in questo periodo musicale spento e ripetitivo loro sono giustamente qualcosa di bello e sensazionale. Chiudete gli occhi e iniziate a sognare, tutto il resto non conta nulla.

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Galleria Margò – Fuori Tutto

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La Galleria Margò nasce dall’incontro fra Antonio “Gno” Sarubbi (voce e testi) ed il chitarrista Stefano Re (chitarra e synth) nell’anno 2012. Alla batteria troviamo Tony Santelia ed al basso Marco Paradisi. Insomma, quattro ragazzi con la voglia di farsi sentire, voglia che verrà chiaramente espressa attraverso l’album di debutto Fuori Tutto (la scelta del titolo non è di certo casuale). Il disco, anticipato di un mese dal singolo “Glitter” su YouTube, esce in versione digitale il 16 aprile 2013, appena due giorni prima dell’uscita della sua versione fisica ed in un solo anno la Galleria Margò riesce ad accumulare un notevole numero di live, spaziando dall’estremo settentrione alla provincia salernitana (Scafati – 29 novembre 2013), dove registra un notevole seguito. Il disco si rivela intrigante sin dal primo sguardo, grazie alla strategica e brillante copertina (ad opera di Davide “Zark” Chiello) che sintetizza in maniera concisa il contenuto dell’album, attraverso la metafora degli occhi che rifioriscono (metafora contenuta, tra l’altro, nella quarta traccia del disco “Dovessi Mai”).

Per quanto riguarda il sound, ci si accorge sin dal primo ascolto che la Galleria Margò non si preclude nulla, sperimentando un mix di suoni che riesce a sintetizzare una musica alla portata di tutti, tuttavia non scontata (generlamente definita Electro Pop), che sembra riportare alla luce il sound anni 90. Tuttavia, troviamo senza dubbio un fattore di attualizzazione che conferisce al disco in generale una chiara vena moderna, realizzata in gran parte dal massiccio utilizzo di musica strumentale e per la restante parte dai testi di “Gno”, che trasudano polemica anticonformista contemporanea in lotta con l’esigenza/imposizione di allacciarsi agli schemi quotidiani (una lotta agli status quo). Polemica che trova la sua massima realizzazione nella traccia numero tre “Cupido se ne Fotte”, in cui si mette alla luce la totale indifferenza del dio dell’amore ai lucchetti degli innamorati,  alle tariffe della Vodafone ed ai multisala che fanno sconti ai giovani amanti. La suddetta polemica, tuttavia, non si realizza attraverso schemi infantili sterili e diretti, bensì attraverso continui giochi di parole, metafore e vocaboli ricercati, che portano inevitabilmente al paragone fra Galleria Margò e Baustelle. Altro inevitabile avvicinamento sorge inerentemente l’ultima traccia, intitolata “Distretto Nove”. Una traccia che tiene con il fiato sospeso; senza dubbio quella di maggiore contenuto artistico-poetico. Amori e pianeti, alieni e costellazioni, sound epici, continue similutidini, rime, riferimenti platonici, che riportano alla mente “La cura” di Franco Battiato. Ispirazione o casualità poetica? In sintesi, posso riassumere così: un disco saturo di satira e sorrisi in controluce, meritevole di un attento ascolto, assolutamente non banale, che, tuttavia, lascia straniti, quasi come se avessimo perso un qualche dettaglio importante per chiudere il puzzle ed incorniciarlo con il giusto parere.

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7 Training Days – Wires

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Una conferma di come il Centro Italia sia sempre più una fucina di band promettenti e con ottime capacità.
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Il Cane – Boomerang

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Nuova fatica per Il Cane che torna a due anni di distanza dal precedente disco Risparmio Energetico. Il secondo lavoro si chiama Boomerang ed esce sotto etichetta Moscow in collaborazione con Matteite Records. Un sound elettronicamente moderno scaccia la noia dei soliti cantautori Indie, ormai non sentiamo niente di nuovo da troppo tempo, la paura è sempre quella di scendere nella convenzionalità assoluta. Il prodotto di Matteo Dainese aka Il Cane è fresco, il profumo si sente da lontano, il rancido malessere della mediocrità non passa mai dalle sue parti. “Vero” apre Boomerang in maniera delicata, chitarra acustica ritmata dal sentimento, batteria che apre il pezzo come nei migliori stati di grazia, il riff gira simpatico e dannatamente orecchiabile. Grande impatto il primo brano. Capisco subito di avere tra le mani una produzione importante. Quindi qualcosa di musicalmente valido vive in Italia? Piacerà a molti, attirerà l’invidia dei saputelli musicali. Poi “Il Premio” e l’effetto sole continua ad abbronzarmi la faccia, quasi brucio ma resisto. Particolarmente colpito da “Maledizione”, elettronica cupa, ritmo capace di trasmettere gioia e tristezza. Miscela di sensazioni, tremo col sorriso e nonostante tutto sono felice. “Al Tuo Tempo” arriccia la pelle, intima e violenta. Interiorità trasmessa dalle fredde corde della chitarra, pezzi di vita in musica.

Musica ritmicamente incalzante in “Alla Grande” e “Sguardo Perso”, buona interpretazione vocale de Il Cane, la sua voce rimane impressa come poche. Particolare e da non sottovalutare. “Lacrime” sembra un inno alla delusione, pizzica lo stomaco. Emotività al massimo ed esplosioni Post Rock. Sempre tutto legato da un senso di innovazione, qualcosa di diverso. Sulla stessa linea “Spettri”, un testo bellissimo e la capacità di lasciarsi penetrare incondizionatamente. Perché fare musica significa soprattutto regalare emozioni, e in Boomerang troviamo tanta roba, ascoltate “Cuscino Rosso” e lasciatevi incantare. Le idee girano bene nella testa de Il Cane, girano talmente bene che le soluzioni sembrano essere sempre a portata di mano. Diversa e particolare “Panico”, si gioca molto d’effetto. Si ritrova la potenza delicata dell’inizio nella conclusiva “Sconosciuti”, molto Rock e introspettiva, Il Cane brucia di molto la diretta concorrenza. Non mancano importanti collaborazioni per la riuscita del disco, Egle Sommacal (Massimo Volume), Ilaria D’Angelis (… A Toys Orchestra) e Marco Testa di Fuoco (Giorgio Canali & Rossofuoco) sono soltanto alcuni dei musicisti presenti in Boomerang. Arrivare al secondo album e confermare il primo è roba rara tra le band e i cantautori di questa sporca epoca, Il Cane non solo conferma ma migliora la propria produzione e Boomerang assume una propria personalità garantendo bellezza e originalità. Il Cane è tra i migliori artisti italiani in circolazione, e quelli meritevoli si contano sopra le dita di una mano. Se non volete scendere nella banalità di album fotocopia e finti cantautori questo disco darà la svolta alla vostra ricerca. Pop è bello. Boomerang è stupefacente.

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La nuova promessa della Sub Pop in Italia

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Lyla Foy è la più recente aggiunta al roster della Sub Pop Records. Una giovane londinese, che è riuscita ad impressionare l’etichetta di Seattle con la sua musica: lanciata da “No Secrets” è diventata in fretta una beniamina della radio inglese, spinta da Steve Lamacq che ha dichiarato la sua “Magazine”, migliore canzone del 2012. Da lì, l’arrivo in America, sulle pagine online di Pitchfork che apprezza moltissimo la sua cover di “Something on Your Mind” di Karen Dalton. Il 2013 segna l’arrivo del suo EP d’esordio, Shoestring e la firma per Sub Pop. Lyla sarà in Italia per presentare il suo full lenght, Mirrors the Sky, il 13 maggio al Circolo Magnolia di Segrate in provincia di Milano. Non mancate!

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Sam Mickens – Kayfabe: Laamb of G.O.D.

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Chi diavolo è Sam Mickens? Un oscuro figuro trasferitosi da Seattle a NY, che da anni rimescola le carte in tavola, tra Post Punk, Soul, Indie Rock, R’n’B, e tutto ciò che la sua malata testa cresciuta tra spirito Garage e afflato da musical gli fa sputar fuori.  E il marasma prosegue in questo suo nuovo Kayfabe: Laamb of G.O.D., progetto autoprodotto su Kickstarter con una presentazione barocca (“a baseline cosmically aware majestic production”, “an old-school concept record marrying charged glam rock with left-field R & B and the wide terrain of guitar-based rock music”, “a great and timeless pop record to make the hills alive”): quindici brani dal suono grezzo, ma nel senso di primordiale, con organi e chitarre a copulare nelle stanze ombrose di riverberi e delay, e un falsetto leggero, vibrante e sincero a collegare i tasselli del mosaico, come calce pronta a rapprendersi al primo vento. 

È strano a volte come le cose ti capitino proprio in quel momento, e non in un altro. Ultimamente mi è successo, per vari motivi, di ragionare su cosa forma il nucleo di una canzone, e di iniziare a contemplare (o approfondire) il concetto di sintesi estrema di una produzione musicale, anche come riutilizzazione di stili, riappropriazione di concetti sonori già utilizzati, nell’ottica di un risparmio, di un’economia del processo creativo. Perché comunque, come un amico mi faceva notare, ogni canzone, per il suo stesso esistere, porta comunque novità (in senso lato); o, nel peggiore dei casi, una variazione sul tema, che è poi è lo stesso. Sta al quid, all’insieme di suggerimenti e spunti che la canzone dà, cercare di darci un appiglio per poter definire quanto ci ha saputo muovere, e, insomma, quanto funzioni il prodotto finale. Questo per dire che i quindici brani di questo Kayfabe: Laamb of G.O.D. si collocano proprio in una prospettiva di risparmio estremo, di sintesi, da un lato: penso alla produzione, all’insieme organico degli strumenti (tastiere, chitarre, cori, batterie, tutti esperiti con un gusto a metà tra il vintage e il lo-fi spinto), alle strutture dei pezzi, alla durata del disco (breve). Dall’altro, si respira una voglia gustosissima di spaziare, di stupire, di cambiare la combinazione degli elementi sempre diversamente, con un impianto che porta a denudare, di ogni pezzo, un piccolo dettaglio sempre differente (passare da “Ballet of the Night” a “Tyrant Sun” – nella tracklist del disco sono in sequenza – è vero bungee jumping).

È un disco da ascoltare più volte, che non cambierà la storia e che magari non sarà timeless, come vorrebbe il nostro Sam Mickens; ma di certo ci può arpionare e trascinare nel suo mondo a scala di grigi, per farci fare un rapido e vorticante viaggio tra il freddo e il caldo, tra il dolce e il salato, tra il chiaro e lo scuro, con pezzi che parlano un loro linguaggio e sanno farsi capire (“False Lion”, “The Demon Star”, “The Fate of Kings Unmade”). Un percorso da mezze tinte che potrebbe anche riservare qualche inaspettata epifania.

Sam Mickens’ Sexual Madness from Kayfabe: Laamb of God from sue-ling braun on Vimeo.

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The Zen Circus – Canzoni Contro la Natura

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Cavalcare sempre la cresta dell’onda non è cosa semplice, soprattutto per una band ormai decennale e con sfracelli di dischi, progetti e collaborazioni alle spalle. Gli Zen Circus dopo un anno di silenzio volontario dedicato ad altre situazioni non mancano l’appuntamento discografico del duemilaquattordici (dove l’Indie italiano d’èlite sput(a)erà dischi a ripetizione) partecipando alla fiera delle uscite con il nuovo Canzoni Contro la Natura. Io sinceramente non ho mai capito cosa la gente si aspettasse dal Circo Zen, non capisco neanche quando venivano considerati questo eccelso prodotto, però capivo che mi piacevano e pure parecchio. Naturalmente il genio non vive eternamente dentro l’indole compositiva di Andrea Appino e compagni, ma una volta entrati nella loro dimensione scanzonata tutti gli altri ascolti che seguono perdono di lucidità. Penso più a Zen Circus come schiaffo all’ipocrisia culturale in Italia. Il precedente disco solista di Appino (Il Testamento) non aveva infiammato il mio cuore lercio da punk invecchiato ma mi aveva così poco coinvolto che quasi non riuscivo a spiegarmi la targa Tenco come miglior esordio. Canzoni Contro la Natura arriva proprio nel momento in cui avevo bisogno di spensieratezza musicale, non mi aspettavo stravolgimenti epocali, sapevo quello che avrei trovato. “Viva” primo singolo estratto dal disco mette subito le cose in chiaro, pezzo semplice e bastardo, il diretto interessato capisce subito quali saranno i compromessi dell’intero lavoro. Un buon lavoro di marketing e il gioco è fatto. Problemi relazionali in “Postumia”, siamo una società incapace di comunicare, un invito a guardarsi negli occhi suonato a  ritmi poco concentrati. “Il futuro me lo bevo per non pensarci” cantano i combattenti del Folk Rock. E anche qui spezzo quindici lance a loro favore. Title Track “Canzoni Contro la Natura” e reggetevi forte perché a parte il basso crepato come meglio non si poteva e un ritornello alla kiwi e melone il resto mi delude assai. L’arroganza degli Zen Circus dove è andata a finire? Pezzo molto potente che perde il controllo, poco istinto e tanta finzione. È destinata a diventare la Hit del disco. Voglia di fare “spessore artistico” in “Albero di Tiglio”, il testo e la voce di Appino prendono tutta la scena di una canzone dai riff mediocri che non lasciano niente di dolce in bocca, innervosisco davanti a questa necessità di sentirsi intellettuali. De Andrè volutamente ricordato in “L’Anarchico e il Generale”, viene subito alla mente “Il Pescatore” anche perché Appino non è affatto nuovo a questo genere di omaggi, già nel suo precedente disco da solista aveva composto il brano “La Festa della Liberazione” ispirandosi fortemente al brano di Dylan “Desolation Row”. Queste trovate artistiche sono da considerarsi perfette per paraculare l’ascoltatore, Appino mi piace. “Mi Son Ritrovato Vivo” è  il classico pezzo sornione alla Zen Circus, ci siamo capiti, niente da aggiungere. “Nessuno regala niente nemmeno l’onnipotente”. Arie Folk che sanno d’Irlanda. “Dalì” puzza di Western e non trovo la collocazione giusta per incastrarla, improbabile riempi disco al gusto di necessità. Non gradisco le forzature. Azzardano molto a fare i cantautori nonostante il risultato giochi a loro svantaggio in buona parte dei pezzi. Questi Zen Circus sono parecchio lontani dagli anni di Villa Inferno con Brian Ritchie, inevitabilmente gli anni passano per tutti e le idee iniziano a mancare. Canzoni Contro la Natura andrebbe preso e scremato per bene e ne uscirebbero fuori due dischi distinti, uno con voto dieci e l’altro con voto due. La media è sei, giusto Prof?

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Cosmic Box: il nuovo disco

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Riceviamo e pubblichiamo:
Dal 21 Gennaio 2014 disponibile in tutti i negozi digitali l’Album L.B.S. (Last Broadcasting Station) dei Cosmic Box distribuito e promosso da ALKA record label, che conta dieci tracce tra cui il brano estratto come singolo “New Way Home” in rotazione radio. Il nuovo disco esce dopo 4 anni dall’esplosivo esordio discografico dei Cosmic Box con l’EP “Not Better… Simply Differet” del 2010, grazie al quale la band si è messa in mostra trascinata dal singolo “Closer”, con il quale ha saputo ritagliarsi il proprio spazio nel panorama indipendente. L.B.S. (Last Broadcasting Station) è batteria pulsante, basso energico e distorto, sostengo un tappeto di chitarre ruvide dalle eleganti armonie, dando corpo e spessore ad una voce calda ed intensa dai testi sempre all’altezza… uno sguardo, un punto di vista ricco di emozioni. Un disco rock per palati fini.

Di seguito il videoclip:

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Revo Fever – Più Forte

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Se dovessi riassumere in tre righe i Revo Fever li definirei la risposta italiana ai Franz Ferdinand con degli inserti alla Ministri e un cantato simile agli Oasis (la voce ha lo stesso timbro di Liam Gallagher!). Rimango quindi quasi incredulo quando leggo che i quattro ragazzi hanno poco più di vent’anni e un curriculum di tutto rispetto composto da due Ep registrati da Federico Dragogna (chitarra e seconda voce dei Ministri), trattasi di Fegato! del 2011 e Il Mendicante/Tutto da Rifare del 2012. Inoltre una grande esperienza live in giro per Milano e provincia li ha portati a condividere il palco con Ministri, Dente, Management del Dolore Post-Operatorio, Tonino Carotone, Lombroso e tanti alti nomi illustri della scena indipendente. Il loro primo disco autoprodotto si chiama Più Forte. Tra le loro influenze citano le aperture (solo quelle?) dei Queens of the Stone Age (provate a fare un paragone tra “No One Knows” e “Tutti i Santi Giorni”…), i riffs dei Black Keys (duo americano ormai affermato a livello mondiale che gode di ottima stima persino in Inghilterra) e l’attitudine Punk acustica dei Violent Femmes (che però di Punk avevano secondo me ben poco).

Pochi quindi i riferimenti italici, ma soprattutto sono pochi gli elementi innovativi presenti nel disco, un altalenarsi di roba buona e roba mediocre (era proprio necessaria una canzone come “Non Chiedermi  Come Sto” all’interno della tracklist?). Meno male che appena dopo averla sentita i Revo Fever riprendono la strada giusta con un one two three four tanto caro ai Ramones e riescono quindi ad arrivare fino alla fine senza particolari problemi. Ok per l’attitudine do it yourself marchio del Punk anni settanta che da sempre caratterizza le scelte della band, la quale ha scritto, registrato, mixato e masterizzato la musica nonché ideato, stampato, piegato, timbrato e cucito l’artwork. Ma una mano da un produttore di grido non avrebbe certamente giovato? Come esordio certamente non c’è male, ma sono sicuro che il livello di qualità crescerà notevolmente in un’eventuale seconda fatica discografica, soprattutto se qualche major dovesse accorgersi dei Revo Fever. Noi la sufficienza gliela diamo (in fondo se la meritano pienamente) ma siamo sicuri che il loro sound si presta più a una dimensione live che a quella in studio.
Non fermatevi quindi alle apparenze del primo ascolto di Più Forte e magari se potete andate a sentirli dal vivo dove sicuramente daranno il meglio di loro!

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Ha Ha Tonka: videoclip e tour italiano nel 2014

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Giunti ormai al quarto album, Ha Ha Tonka sono la sintesi perfetta tra la nuova ondata Folk guidata dai Mumford & Sons, i grandi classici della musica roots-americana e band come Wilco e Replacements. Dopo un lunghissimo tour americano per la presentazione del disco Lessons che li ha visti protagonisti tanto a festival come Lollapalooza, Austin City Limits, CMJ e SXSW quanto in una puntata del celebre programma “No Reservation” di Antony Bourdain, il quartetto di Springfield, MI è pronto ad arrivare per la prima volta in Italia per una manciata di date tra la fine di maggio e l’inizio di giugno. Vi aggiorneremo appena verranno comunicate le date ufficiali. Per il momento, godetevi il video di “Dead to the World”:

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La Luz in Italia

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Il quartetto tutto femminile di Seattle, La Luz, arriva in Italia per presentare il disco d’esordio, Damp Face, uscito dopo solo un anno e mezzo di carriera. Le ragazze si esibiranno:

lunedì 14 Aprile 2014
al GARAGE di GENOVA

martedì 15 Aprile 2014
al ROCKET di MILANO

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