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Le Strade – In Fuga Verso il Confine

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Le Strade, un nome molto comune ma che accomuna le vite di quattro musicisti, Alessandro Brancati, voce e testi, Davide Baldazzi, chitarre, Gigi Fanini, basso, e Alessandro Soggiu, batteria e percussioni, che nel 2013 escono con il loro primo lavoro ufficiale. Un esordio quello de Le Strade dal titolo sincero e in questo periodo molto veritiero In Fuga Verso il Confine. Un confine oltre il quale si sogna la libertà, la dignità e soprattutto la consapevolezza di un popolo in declino come quello italiano.

Un Ep che percorre le strade dell’Indie Rock Alternativo, da tutti definito ottimo per il grande potenziale sonoro. “In Fuga Verso il Confine” è anche la prima traccia del disco. Una traccia energica, ritmica, condita da cori e giochi armonici che la rendono la più interessante dell’intero lavoro. Secondo brano è “Aperti al Moralismo” che oltre a confermare quello già detto in precedenza sottolinea maggiormente la via intrapresa che svincola in “T.H.Y (Tell Him, You)” sempre ritmico, travolgente, con cori che non disturbano nella maniera più assoluta, aggiungendo quel quid in più in un brano cupo e notevole nel quale si urla il presente. Suoni arabeggianti fanno capolino nel penultimo pezzo “La Mia Ricerca Della Felicità” che risulta interessante soprattutto nelle parti strumentali che desiderano essere sviluppate. “Il Pezzo” chiude questo lavoro in un modo marcatamente malinconico da definirlo, come già è stato fatto, una sorta di requiem finale che chiude una vita già piena.

Un esordio assolutamente soddisfacente per il gruppo bolognese che dimostra una buona propensione al Rock classico per immergersi totalmente in quello Indipendente italiano, una maturità non indifferente sia per quanto riguarda i testi definiti più e più volte impegnati e sia nella coniugazione tra gli strumenti che risulta ottimale. Un buon inizio, risultato di un lavoro ben fatto e di una propensione comunicativa ben coltivata. Parecchi complimenti a Le Strade che dovrebbero servire a continuare con più forza il percorso intrapreso, senza sedersi sugli allori.

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Nient’Altro Che Macerie – Al Vento

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Nient’Altro Che Macerie escono per 4V4 Records portandosi dietro una notevole considerazione di pubblico e l’aspettativa diventa inesorabilmente alta, talmente alta da rendere il loro esordio discografico (un anno prima erano usciti con un Ep Circostanze) molto interessante. Al Vento, ecco come prende nome il disco dei Nient’Altro Che Macerie, un vento talmente tagliente e disordinato da portarsi dietro di se tutto quello che si incontra, non c’è assolutamente bisogno di tenerezza in questo disco, un disco acerbo e maleodorante, l’odore acre delle chitarre rabbiose che non cercano certamente complimenti, piuttosto si farebbero spaccare la testa.

Si parte con estrema rabbia curata, “In Silenzio”, quel frangente bello e in crescita dello Stoner italiano però in qualche modo reso in maniera splendidamente Post Rock, Post Indie, Post Tutto. Poi si continua sulla stessa linea dura, “Il Senso Della Fine”, come dicevo prima Al Vento non lascia traspirare assolutamente leziosità. E tu sei lo sbaglio in persona. Poi rivivo sonorità alla Mimì Clementi quando il disco porta alla mia conoscenza “Evitabili Prospettive”, pezzo molto introspettivo che comunque mantiene sempre l’aria spocchiosa di chi proprio non vuole sentirsi delizioso. La delizia forse dimentichiamo che non appartiene quasi mai alle nostre fottute vite di sofferenza sembrano voler portare alla ribalta i giovanissimi musicisti di Milano celati dietro il moniker distruttivo di  Nient’Altro Che Macerie, e di macerie ne abbiamo viste tante in questi ultimi anni. Il disco riprende subito la propria identità nerboruta quando Al Vento propone “Reazione al Nulla (Emesi), una ritmica da mare in tempesta, una risolutezza sconcertante nella voce sempre tirata al massimo, non c’è possibilità di riprendere fiato. Affoghiamo. “Le Parole Tra i Denti” è ancora rivoluzione e voglia di andare contro, riff grezzi e belli come poche volte è difficile associare questi due aggettivi. Poi “Quello Che Vorrei Davvero” chiude decisamente in gloria l’esperienza discografica dei Nient’Altro Che Macerie, una disco talmente singolare nei generi da non scendere mai nella scontatezza delle scelte, soluzioni che vengono dallo stomaco e gridate senza troppe referenziali remore. I Nient’Altro Che Macerie sono una band giovanissima che mette subito in chiaro le proprie intenzioni, sono sbruffoni, sono smaniosi e ragionano d’istinto ma Al Vento è un bel disco che merita tutti gli elogi del caso. Bravi questi milanesi che portano alto il valore della musica italiana.


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Kash – Full Of

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Anche se in ritardo ho scoperto i Kash, gruppo nato nel lontano 1997 e formato dal cantante Stefano Abbà, dal chitarrista Paride Lanciani e dal bassista Luigi Racca, che nel 2012 esce con un nuovo lavoro Full Of, registrato agli Oxygen Studios sotto la regia attenta di Steve Albini (Scott Weiland, Iggy & The Stooges) . Il 2012 è un anno particolarmente fortunato per il gruppo che intraprende un tour promozionale negli USA e in Inghilterra, suonando al BBQ Festival e ATP Festival e in generale con artisti importanti quali: Il Teatro degli Orrori, Marlene Kuntz, A Toys Orchestra, Love in Elevator, Dandy Wharrol e molti altri.
L’album Full Of si presenta sotto la forma di otto brani che genericamente potremmo racchiudere nello scaffale dell’Indie ma che in particolare mi ha fatto pensare a quel Grunge graffiato e malinconico che riconduce ai Nirvana. Al primo ascolto non si capisce bene il significato di questa musica, ma mentre ci si addentra in questo corridoio sonoro si percepisce la necessità di sgombrare la mente e di farci entrare brani come “Monster of Fire”, “Eagle”, “Hero of Lovers” e “Private War”, i cui significati non colpiscono subito la parte razionale della testa ma che alla fine figurano e raccontano quegli elementi reali dell’esistenza di ognuno di noi e cioè l’amore, la paura, i demoni interni, le battaglie del mondo, i colori della mente e gli angeli che ci proteggono.

La registrazione dell’album, inutile dirlo, è uno degli elementi più belli, perché nella sua apparente semplicità si scorge quell’incastonatura sempre molto precisa della batteria con la chitarra, della voce con il basso e della musica con l’anima. Tutti elementi nascosti magari sotto la vocalità sospirata, che comunque sottolinea in maniera evidente la cifra stilistica e l’intenzione musicale che si vuole imprimere nel disco, che diventa Rock sofferto soprattutto nell’ultimo brano “Blood of” come a voler salutare chi sta ascoltando riempiendolo di un qualcosa di etereo e di impossibile da catturare. Che questa sensazione sia musica? Nessuno può dirlo prima di aver ascoltato in silenzio.

 

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Paolo Cecchin – Quanto Valgo?

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Tutti almeno una volta nella vita si sono fatti la domanda Quanto Valgo? Ma non tutti alla fine si sono dati una risposta con estrema verità, al contrario del cantautore vicentino Paolo Cecchin che su questo interrogativo esistenziale fa nascere un intero lavoro discografico, precisamente il secondo. Come per tutti i maggiori cantautori l’amore di Paolo per la musica nasce precocemente, ascolta i Beatles, i Nirvana, impara a suonare il pianoforte, la tastiera e la batteria, suona in gruppi tributo di Pink Floyd e Neil Young e da questi grandi impara tantissimo e guarda oltre fino a volersi esprimere da solo. Registra una cinquantina di canzoni, nel 2010 esce il suo primo album Nel Mio Mondo e nel 2013 Quanto Valgo?, formato da undici brani che finalmente hanno una loro precisa ragion d’essere sia singolarmente che nel lavoro complessivo.

Una cover di Ivan Graziani “Pigro”, un brano “Lettera al Mondo” scritto da Stefano Florio e nove pezzi originali di Paolo Cecchin, con testi profondi e tormentati, che spaziano parlando della libertà, dell’essere “Alternativo”, del ricordo del padre, dell’amore e della solitudine. La strada musicale è quella Rock di matrice Indie Pop, nella quale finalmente si scorgono energie diverse, più forti e adrenaliniche come in “Quanto Valgo?”, “Alternativo”, “Lei, “Confesso”, rispetto a brani più lenti come “Dentro Me” simile a una ballata “veloce”, “Da Te Ritornerò” e “Fuoco”. Un vero viaggio, delle vere storie per un album tenuto per mano, come si vede dalla copertina, al suo interno pieno zeppo di fotografie dell’infanzia, del passato e del presente musicale. Un saluto a suo padre e via verso un’arte che non viene fatta per caso, ma intarsiata minuziosamente di ricordi ed esperienze.

Un secondo album piacevole da scoprire e ascoltare, fatto per necessità di esprimersi e non per voglia di esibirsi, come spesso capita per quegli artisti/gruppi un po’ vuoti di sostanza ma pieni di apparenza. Un album concreto che va riascoltato volentieri, anzi, che si deve riascoltare se si vogliono scoprire quelle sfaccettature non saltate all’orecchio al primo ascolto. Un album dove io non trovo difetti, poi sta ai gusti di ognuno capirne i significati e trovarne i pregi…

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ELF – I Hate You Everybody Ep

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ELF, al secolo Samuele Palazzolo, polistrumentista “da camera” (da letto, ossia: progettini autoprodotti, autocomposti, autosuonati) si circonda di fidi compagni di viaggio per spararsi il trip da fungo allucinogeno nel bosco liquido di chitarre scarne, ritmiche ondeggianti, synth umidi e rumoristi. Lo fa in un ep, I Hate You Everybody, che, con solo 3 canzoni (“I Hate You Everybody”, “Involution”, “The Pavement is Full of Stars Stars Stars”), riesce degnamente a presentare i soundscapes interiori dell’elfo in questione: post-rock e shoegaze in prima fila, tutta una giungla di suoni (fischi, distorsioni, voci nascoste, campanelli) sullo sfondo. Ci vorrebbe più attenzione alle linee vocali (distraggono senza regalare nulla in cambio, anzi: a volte scivolano nella parodia, loro malgrado) e più coerenza ideale (raccontaci qualcosa, ELF!).

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Sadside Project – Winter Whales War EP

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Sadside Project sono un duo romano Garage Bluesgeneratosi nel 2009. La loro gavetta parte quando vincono il Rock Contest in Toscana e firmano il loro primo contratto e giunge fino i nostri giorni passando, come gruppo spalla, per le dieci date italiane del tour di Joe Lally dei Fugazi. Quest’anno presentano il loro nuovo lavoro Winter Whales War dove ci raccontano le loro vicende musicali psichedeliche eccitate dai racconti e dalle storie dello scrittore e marinaio Herman Melville. La copertina la dice lunga. L’album è un insieme di ballate da uomo di mare con il boccale stracolmo di birra e arriva fino alle più dure e inquieti canzoni strettamente Garage. Il viaggio inizia con “Same Old Story” un brano immediato, diretto, energetico. Il giusto tempo per rompere il silenzio che intercorre tra te e l’istante in cui pigi play. Segue “My Favorite Color”splendida ballata dove voce e mandolino evocano un ritornello che si lascerebbe tranquillamente cantare da un pubblico in preda ai fumi dell’alcool. Il disco prende bene e continua con “1959 (The Last Prom)”ballata romantica anni ’50 tutta “cuore a cuore” che lascia spazio alla più altisonante e melanconica “This is Halloween”.Carica, carica, carica è questo che mi trasmette quest’album! E arrivano le più rockeggianti; la cassa dritta di“Edward Teach Better Know as Blackbeard” e  la spartana “Nothing to Lose Blues”.

Proseguono la più psichedelica “Hold Fast” che ci accompagna al pezzo portante dell’album, “Molly”, brano duro e puro che cerca di riportarci sulla terraferma per ricordarci da dove veniamo ma poi ci lascia proseguire con una cover dei mitici Beach Boys, “Sloop John B”. Chiude l’album il pezzo omonimo “Winter Whales War” che con i suoi arpeggi ci molla a casa perché il viaggio si è concluso. Questo è uno di quegli album che si ascoltano tutto d’un fiato, senza pause, in una perfetta onda da solcare in compagnia di quei farabutti dei vostri amici.

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Monday – Smooth Phase Ep BOPS

Written by Novità

Questo ep mi è arrivato proprio di lunedì. Sarà stata una coincidenza? Strano. Comunque dopo svariato tempo ho capito che c’è chi adora il lunedì e chi invece lo odia fortemente, da Snoopy a tutti quelli che vedono davanti a se una lunga settimana interminabile, sognando il week end magari dal mercoledì. E su tutto questo pensiero quattro ragazzi di Rimini fondano il loro gruppo: i Monday, all’attivo nel 2013 con il loro ep SmoothPhase. Un lavoro di sei brani, in inglese, dove la voce di Stefano Spada, la chitarra di Marco Pandolfini, il basso di Andrea Muccioli e la batteria di Davide Quadrelli si fondono con sintetizzatori e musica digitale per creare un ottimo Dark-Rock, pieno di atmosfere e visioni moderne e un po’ malinconiche. Tutto questo abbracciato da un ritmo presente, molto anni 80, che porta l’ascoltatore sulla pista di una discoteca darkettona, piena di capelloni e ragazze dalle creste viola. Un cliché? E’ molto probabile. Uno stereotipo che mi serve, però, da complimento al gruppo riminese, per il sound e la scelta di non imprigionarsi in un genere sostanzialmente Dark, che poteva allontanare molti ascoltatori, aprendosi invece ad atmosfere più ritmiche e Rock, rendendolo gradevole anche a chi è abituato ad ascolti più classici. Infine, le tante ore di sala prove che delineano gli ultimi due anni dei Monday si sentono eccome, e proprio questa ricercatezza dovrebbe essere la base per tutti coloro che vogliono fare musica. La ricercatezza del proprio sound, delle proprie visioni e del proprio essere, che rende i Monday un gruppo da tenere sott’occhio.

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Pills (contraccettivo efficace) Consigli Per Gli Ascolti

Written by Articoli

“Prendo la pillola contraccettiva da più o meno 7 anni, è possibile che una pillola anticoncezionale smetta di fare effetto sull’organismo e quindi non funzioni più?” (cit. di un forum medico)
Questa volta invece dell’esperto rispondiamo noi, beccatevi le nostre Pills dall’effetto duraturo e immediato.

Ida Diana Marinelli
Cibo Matto – Viva! La Woman (USA 2006)/ Pop-Trip Hop  2/5
Duetto newyorchese che dopo molti anni di silenzio e rottura torna, per (s)fortuna, sulla scena musicale con un sound che contamina Pop con Elettronica e il solito stile da giapponesine doc.
Lita Ford – Lita (USA 1988)/Pop-Rock-Metal   3.5/5
Terzo album della chitarrista/cantante statunitense. L’album del successo, molto anni ottanta, una via di mezzo tra Madonna e Bon Jovi.

Silvio Don Pizzica
Captain Beefheart – Trout Mask Replica (USA 1969)   Avant-Rock   5/5
Per Scaruffi l’unico album Rock che valga la pena di essere ascoltato, per me il disco che ha cambiato il mio modo di concepire la musica.
Pink Floyd – The Piper at the Gates of Dawn (UK 1967)   Psych-Rock   5/5
L’unico album dove Barrett abbia un ruolo chiave è l’unico con quel sound speciale ironicamente lisergico. Da qui in poi la musica dei Pink Floyd non sarà più la stessa.

Marco Lavagno
Ministri – Per un Passato Migliore (ITA 2013) Rock  4/5
Finalmente il disco che aspettavamo dai Ministri. La band non pecca più di pressappochismo e sforna un album semplicemente pieno zeppo di grandi pezzi rock, concreti e reali. Suonati con la solita rabbia. Rabbia di coloro a cui (per fortuna) ribolle ancora il sangue.
Eric Clapton – Slowhand (UK 1977) Rock/Blues 4.5/5
Sommerse tra le radici del passato spiccano alcune grandi composizioni del chitarrista britannico: “Wonderful Tonight” e “Lay Down Sally” proiettano avanti una musica mai destinata a morire.

Ulderico Liberatore
Slo Burn – Amusing the Amazing (USA 1996) Stoner Rock 4/5
Album e band praticamente sconosciuti ma l’idea partita da John Garcia, con la sua inimitabile voce, non fa altro che essere un estensione dei Kyuss e un pezzo imperdibile di musica tostissima.

Lorenzo Cetrangolo
Arctic Monkeys – Whatever People Say I Am, I Am Not (UK 2006) Indie Rock, Garage 4.5/5
Il debutto degli alfieri indie del nuovo millennio. Un disco che, bene o male, ha segnato un’epoca.
Vari – Nightmare Revisited (USA 2008) Alternative Rock, metal 3.5/5
Compilation di cover dalla colonna sonora di Nightmare Before Christmas, capolavoro di stampo burtoniano del 1993. Con, tra gli altri: Korn, Rise Against, Marilyn Manson, Rodrigo y Gabriela, Amy Lee…
Pino Daniele – Dimmi Cosa Succede Sulla Terra (ITA 1997) Pop, Funk, Soul 4/5
Un bel disco di pop italiano, scritto e suonato bene. Da segnalare il piccolo gioiellino naif di “Canto do mar”, con Raiz.

Riccardo Merolli
Interpol – Antics (UK 2004) Alternative Rock 3.5/5
Un modo fantasioso di suonare Rock, una maniera inconfondibile soprattutto nella voce. Un disco interessante con tante cose da dire. Non è il paradiso ma neanche l’inferno.

 

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The Strokes – Comedown Machine

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Avremmo potuto dire – per non crearci nemici subdoli e seguitare a vivere felici – “un colpo al cerchio e uno alla botte”, come giudizio su questo ultimo disco dei The Strokes, un “tutto sommato” o “benaccio” che magari sarebbe bastato per liquidare con falsità benevole quello che invece si dimostra un fallimento sonoro che cova sotto le oramai ceneri di questa band una volta propulsiva di nuovi stimoli alternativi; ma siamo onesti fino in fondo,  Comedown Machine è un vuoto a rendere che esplora cose vecchie e senza fondo, chiaramente ricco di quel marchio di fabbrica fatto di chitarre avviluppate, voci in falsetto o  roche e tutte quelle ingegnerie strutturali di arrangiamenti che hanno fatto la fortuna del gruppo, ma per convincere gli ascolti che è tutto “nuovo” ce ne corre, e Casablancas pare andare senza bussola, creando una linea d’ascolto che non convince se non addirittura scivola via come olio sulla pelle.

I Newyorkesi – dopo dischi ottimi di buon garage informale, alternativo – scadono nel trascurabile, farciscono una tracklist che pompa avidamente funk, classic-disco, schizzate di testa e refrain innocui da lasciare tutto fermo come se il disco non accenni a partire nel suo senso orario; undici brani e una dose davvero impressionante di paraculaggine che fa anche spocchia e fanatica autorevolezza, ma è solo una macchina col motore ingrippato che arranca, fatica e suda a tenere banco anche per un solo minuto che sia un minuto.

Avremmo voluto amare questo disco, anche con tutte le nostre forze, ma i The Strokes non hanno più quel suono di tendenza di una volta, la ruggine creativa avanza a dismisura e non bastano assolutamente i fragori elettrici di “All The Time”, l’inconsistenza disco che balla dentro “Welcome To Japan”, lo sculettamento glossy di “Partners In Crime” e i campionamenti civettuoli che tormentano “Happy Ending”, siamo all’opposto estremo dei grandi dischi della loro storia musicale, peccato, un’altra ottima band che si perde per sempre ed un disco che viene voglia – ma poi lo si fa – di lasciarlo lì senza toccarlo.

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Ofeliadorme – Bloodroot

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Bloodroot, come la Sanguinaria Canadiensis, fiore della famiglia delle Papeveracee, le cui radici paiono sanguinare se vengono recise. Bloodroot, che gli indiani d’America utilizzavano per dipingersi il volto con i colori da guerra, ma anche come medicinale, come filtro d’amore.Questo sostrato romantico aleggia su tutto il lavoro degli Ofeliadorme, a partire dal nome della band, fino ad arrivare alle atmosfere, spesso impalpabili ed eteree, del loro secondo LP. Un approccio bifronte di ritmiche ossessive (la scuola Low è sempre dietro l’angolo) e arpeggi di chitarra suadenti, il tutto facendosi guidare da una voce femminile morbida ma con una sua personalità (che mi rimanda spesso all’ugola importante di Florence Welch, anche se con più morbidezza, in zona Feist), che è poi il vero centro di gravità di tutta l’evoluzione oscillante del disco.

L’uno-due iniziale è emblematico: “Last Day First Day” si appoggia ad una ritmica rumoristae ad un arpeggio di chitarra danzante, accompagnato da una linea vocale leggerissima, veramente molto Florence + The Machine, il tutto immerso in bagni di pad distanti e cori lontani. La seconda traccia di Bloodroot, la title track, invece, è più ritmica, più piena, più energica, più corale. È su questi due punti che oscilla tutto il disco. Un disco che si compone di opposti: un disco pulito, ma allo stesso tempo carnale, immediato; un disco che tradisce un approccio semplice, da DIY, ma allo stesso tempo una cura certosina per testi e arrangiamenti; un disco che riesce a far convivere la delicatezza della resa con la passione, suggerita, certo, ma che affiora qua e là, e che s’indovina reggere il peso di queste nove tracce in cui perdersi, da cui lasciarsi trascinare, per cui decidersi di staccare il cervello, in una mezz’ora (questo basta) di viaggio interiore. Un disco romantico, come dicevamo, nel senso più ampio del termine.

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Hot Fetish Divas – Natural Inclination For Pussy EP

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Come promesso sono tornati gli Hot Fetish Divas  ad incasinarci e farci pogare con il nuovo lavoro Natural Inclination For Pussy . Trentacinque minuti di ritmo serrato e testi urlanti l’asimmetrico rapporto con il gentil sesso. Puro delirio in stile punk, un album tutto da ballare, o meglio da saltare. Gli HDF ci confermano la spensieratezza come bandiera dei loro ritmi e testi riot per una musica tutta a squarcia gola. Amori impossibili, disattesi, avventure e controindicazioni in quest’album che senza veli ci parla di fica e della naturale inclinazione verso di essa che hanno gli HDF e noi maschietti arraponi.  Le prime tre tracce sembra portino la loro bandiera, partendo da “My Heroin”  e gli amori mai abbandonati che ritornano a galla, passando per “Spastic Love e le incomprensioni inevitabili, finendo in Radical Chic “For me You Are The Shit!!!”. Niente di più esplicativo e immediato. Un album che racchiude le turbolenze degli HDF  in un superlativo mix di parole scomode e chitarre incazzate. Le mie preferite in assoluto sono “Everything i Want“ con un connubio quasi perfetto tra batteria e voce sguaiata e “Psychola bandiera degli HFD. Mentre in “Ordinary Bitch devo dire che l’assolo di chitarra va un attimo ricontestualizzato. Devo ammettere che questi HDF sanno il fatto loro. Ascoltandoli mi vengono in mente gruppi come i System of a Down e gli Ska-P, due opposti, che ben miscelati ci regalano questo fantastico album da non perdere se siete interessati a questi punkettoni nostrani.

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ILA & The Happy Trees – Believe it

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Roba da donne. E se questo significa bel timbro, bella musicalità e bell’intonazione, sia in italiano che in inglese, allora sì, è roba da donne. Sono l’ultima che si metterebbe a fare un discorso da femminista, anche se le femministe sono molto punk, ma per come è andato il mondo, soprattutto passato, nel quale le donne musiciste (sorelle, mogli e madri dei grandi geni) sono state messe nell’angolo per il troppo grande ego dei loro uomini, e degli uomini in generale, allora sì, penso che il mondo si sia perso, se non qualcosa di necessariamente grande, almeno qualcosa di bello. E Believe It, il nuovo album di ILA & The Happy Trees, lo è.

Ila è una cantautrice genovese, inizia a suonare a 17 anni, nel 2004 esce il suo primo singolo Penso Troppo, nel 2007 il suo album completo Malditesta, nel 2011 Little World, dopo due ep, e finalmente nel 2012 esce Believe It. L’album si muove tra l’italiano e l’inglese (e come lei stessa dice “se sapessi dieci lingue penso che le userei tutte”) senza perdere significato, precisione e atmosfere che vanno dal cantautorato italiano più melodico, a quello d’oltre oceano per certi versi più country, con qualche soffio dark e ambient. Il mondo d’appartenenza è quello acustico, in cui la voce e la chitarra (l’ukulele e la kalimba) di Ila vengono accompagnati dalla batteria e percussioni di Teo Marchese, dalla chitarra acustica, il banjo e l’ukulele di Lorenzo Fugazza edal basso e dai cori di Paolo Legramandi. Inoltre ospiti speciali del disco sono il cantautore italo-brasiliano Franco Cava e la violoncellista svedese Katy Aberg.

Tante persone, tanti colori e tante esperienze che si incontrano per un album per certi versi solare, dove protagonisti siamo tutti noi, con i nostri sentimenti, le nostre paure, ma con una grande voglia di credere in qualcosa, di fare tanto e di lavorare per cambiare ciò che ci sta stretto. Come si legge sul sito della cantautrice “Questo è un disco che potrebbe infastidire i più cinici”, semplicemente per le atmosfere belle e soprattutto propositive che quest’album emana. Con le sue dodici canzoni che senza dirlo esortano ogni giorno a trovare tre cose belle che sono accadute. Un esercizio che faccio costantemente e che mi aiuta, e aiuterebbe tutti, ad allontanare il grigiume che opprime questa vita frenetica. “Believe it è così: all’inizio non riesci a capire cos’è quella sensazione che le dodici canzoni ti lasciano addosso”, ma ci vuole davvero poco per innamorarsi di Ila e della sua musica, che dopo un paio di ascolti diventa familiare, come il prendersi un caffè al bar con vecchie amiche, ricordando le risate dei tempi passati, o come la musica lasciata andare sotto a fotografie  che imprimono i momenti più belli di una vita.                                                  
Insomma, una musica che lascia addosso belle sensazioni e belle emozioni, che non va tanto spiegata ma soprattutto ascoltata e vissuta, ogni giorno.

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