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Gustoforte – La Prima Volta (Ristampa 1985)

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Nei primi anni Ottanta, nella capitale poteva capitare di incappare, in qualche negozio di vinili o chissà dove, in uno strampalato lp con copertina di lamiera piegata in due parti, agganciata grazie a un bullone e con una scritta di vernice nera: GustoForte. Niente di più era risaputo di quello che significasse o racchiudesse ma la curiosità doveva essere tanta in chi incrociava quell’epigrafe. In verità non molti perché quel vinile fu pubblicato da un editore francese di musica anticonvenzionale (RatRace Records) in sole duecento esemplari.  A metà degli anni Ottanta, girovagando per Roma, nei suoi parchi, nei suoi spazi sociali, seduti a una panchina o entrando in una vecchia cabina telefonica poteva accadere di trovarsi tra le mani piccole opere d’arte che a prima vista non lo sembravano affatto e che parevano essere state abbandonate da persone sbadate o bramose di disfarsi dell’arma del delitto con la voglia di essere beccate.

Alcuni musicisti dai nomi anonimi per i più (Roberto Giannotti: vocals, drum machine, simmons drums, emulator, tapes; Francesco Verdinelli: electric guitar, casiotone, obx a, tapes; Stefano Galderisi: bass, farfisa, tapes) e provenienti da realtà molto distanti (chi dalle prime esperienze di field recordings, chi dal Punk e chi dalle soundtrack) decidono di capovolgere ogni schema precostituito e iniziano a registrare opere magmatiche, complesse e amorfe, nel più estremo stile Noise e Lo-Fi e lasciano queste incisioni, spesso insieme a opere figurative di diverso tipo, nei luoghi più svariati, aspettando di vedere “l’effetto che fa”. In realtà la cosa non fa alcun effetto apparente, Roma continua per la sua strada e quello che si trasforma è celato solo nelle piccole vite di quei pochi, miseri uomini che hanno avuto la fortuna di dissotterrare una di queste gemme (tra cui il loro secondo lavoro, Souvenir of Italy / La Merda che Fuma ri-stampato, proprio un paio di anni fa) o di partecipare a una delle uniche due performance live tenute in quegli anni dai GustoForte.

A distanza di tanti anni e con uno schieramento rinnovato, la band (autodefinita italian antipop group) si ritrova senza un movente inequivocabile se non quello di “rompere i cojoni” e per suggellare questa riacquistata verve creativa, l’Editore in Modo Moderno (Plastica Marella) recupera le tracce di quel full length denominato sobriamente La Prima Volta e crea una riedizione che non ha più il fascino della lamiera e della vernice nera, ma mantiene intatto il sex appeal di una musica che suonava sperimentale trent’anni fa, tanto quanto suona avanguardistica oggi. Il vinile trasparente 180 grammi che gira ora nel mio impianto si compone di sette tracce (ben definite a differenza del successivo Souvenir of Italy / La Merda che Fuma in cui i brani suonano deformi e liquefatti, adatti maggiormente a essere riprodotti in luoghi inusuali come teatri o gallerie d’arte che non a vibrare nelle casse di casa), quattro pezzi nel primo lato detto maschio, “S. Antony Chain”, “Steel Walk”, “Assembly Line” e “Evry Courcouronnes” e tre nel lato femmina “Factory Ab Absurdo”, “Ask Me a Dream” e “In Memory of Maurizio Bianchi”. Ospiti per l’occasione La Donna (vocals, tapes), Marie Journò (Apple 2E programming in “S. Antony Chain”) e “Alì Mahhmud El Quaharr” (vocals).

L’opera, registrata trent’anni fa presso gli studi di Roma Pink Music Studio e rimasterizzata da Filippo Bussi negli studi Tweedle Music, è un tripudio di sperimentazione oscura che vi sorprenderà per la sua capacità di anticipare la Dub Techno berlinese di Basic Channel, la Dark Ambient di Demdike Stare e l’Electronic Noise dei Black Dice; il Post Rock attraverso l’analisi della New Wave, dell’Industrial figlia dei Throbbing Gristle, tutto condito con reminiscenze del Krautrock di Faust e Neu! oltre che con inflessioni elettroniche di kraftwerkiana memoria, psichedelia cosmica e tutta una serie di “provocazioni” rumoristiche che, all’epoca dovevano stupire per sfrontatezza ma che oggi hanno la capacità di suonare avanguardistiche e vintage al tempo stesso, senza dare alcuna minima idea di vecchio. Ascoltare sul finire del 2013 l’opera prima dei GustoForte lascia un sapore impossibile da trovare in opere attuali e conserva nelle orecchie lo stesso stupore che potreste immaginarvi balenare nella mente alla vista della più grande opera d’arte di un qualsiasi grande artista del passato, scoperta tra le cianfrusaglie della vostra cantina. E per questa sensazione c’è da dire grazie a Plastica Marella, una delle non tantissime etichette coraggiose che resistono in questa penisola dalla memoria corta.

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Supervixens – Nature and Culture

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Esiste un animo noir nella musica italiana, un turbine violento lanciato senza controllo, una materia acida spalmata sgarbatamente sopra appiccicose sensazione. Il dolore non sempre porta devastazione. Debutto discografico al veleno per i toscani Supervixens con Nature and Culture, solito prodotto dell’avanguardista Amaury Cambuzat (Ulan Bator), ormai marchio di garanzia della sperimentazione del suono. Il cervello perde pezzi durante la tempesta di chitarre che si scatena in “O”, lampi elettronici esplodono senza controllo e senza grazia. Batterie impazzite alla ricerca d’inconcludenti reazioni razionali. Oggi è tornato il gelo, tanto gelo. Poi mi spacco l’osso del collo e non capisco perché certe innovazioni musicali non decidano quasi mai le sorti della musica italiana. Nessuna traccia di tranquillità, un continuo stato di agitazione pervade le vene, il ritratto di una generazione incontrollabile in “I”. Interessante l’introduzione sorniona che lascia sempre nell’aria un pericolo imminente, qualcosa potrebbe scoppiare da un momento all’altro, rimango in attesa. Inizia a fare troppo caldo, insopportabile cappio alla gola. Fabbriche, fumo grigio e cemento nelle composizioni sonore più indescrivibili che neanche il genio di Barry Truax. Ferraglie scaraventate a terra e respiro affannoso per un finale al cardiopalma. Terrificante Industrial alla Oomph! (a velocità triplicata).

Un massacro emotivo che dura oltre dodici minuti. Molto più orecchiabile (per usare un termine normalmente scemo) “Chromo”, parecchia batteria ad arrampicarsi sulle corde lanciate tese dalle chitarre, sembra quasi di ascoltare un altro disco almeno all’inizio. Poi violenza, tanta violenza da rabbrividire. Inizia a fare sempre più freddo nel mondo dei Supervixens, continuo cambio di temperatura. Bisogna fare una pausa, è tutto troppo impegnativo da tirare di botto, manca ancora un pezzo e già sento di essere soddisfatto, potrei anche farne a meno ma ormai sono rapito dal vortice e vado avanti dritto per la mia strada fantastica. Come in un bosco malvagio a cacciare streghe malefiche. “Loud! Loud! Loud!” spara proiettili alla rinfusa, pezzo duro e legnoso dalle movenze grezze, poi cambia la mia sensazione, e cambia ancora. Come sentirsi degli stronzi inerti nel buco del culo del mondo, manca la forza di reazione. Mi lascio divorare. Nature and Culture dei Supervixens è un lavoro intenso completamente strumentale, figlio desiderato del produttore e chitarrista già citato (ma lo voglio citare ancora) Amaury Cambuzat, un prodotto bello e difficile. L’ascolto non risulterà sicuramente facile, Nature and Culture pesa quintalate d’innovazione. Poi i Supervixens non sono certo componenti di questa terra, le loro proiezioni superano di molto le aspettative della scena underground musicale italiana, in generale tutte le produzioni Acid Cobra sono l’estremizzazione della sperimentazione. Una bomba esplode senza dare preavviso, questo disco racchiude l’essenza di una gelida giornata d’inverno a quaranta gradi. Inizio ad amarli, inizio ad avere paura dei Supervixens.

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Ministry – Enjoy The Quiet: Live At Wacken 2012

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Al Jourgensen è un icona, un simbolo della musica d’avanguardia, l’Industrial appunto; tra alti e bassi con i suoi Ministry ha sempre fatto come gli pareva, ha sempre proposto ciò che voleva nonostante i vari cambi di line-up che il gruppo ha subito.  La band si presenta adesso con un interessante live DVD e CD dalle mille sfumature svoltosi nell’ occasione del Wacken 2012 dinanzi a 75.000 spettatori. Effettivamente il lavoro, intitolato Enjoy The Quiet: Live At Wacken 2012, oltre ai diversi contenuti extra e il live a Wacken del 2012 contiene un altro show che riguarda  sempre quest’ultimo ma datato 2006, ricordiamo inoltre che questa ultima fatica è anche un omaggio al chitarrista Mike Sciacca (vedete anche l’ artwork) deceduto improvvisamente durante un esibizione lo scorso 22 dicembre. La differenza tra i due show è notevole: l’ esibizione del 2012 ha un suono più pulito ed elaborato rispetto a quello del 2006 che invece presenta qualche sbavatura ma indubbiamente questo è molto più emozionante rispetto al concerto che hanno tenuto i Ministry al prestigioso festival nel 2012. I pezzi proposti nei due live sono i soliti, chiaramente con qualche variazione ma nel bene o nel male i classici della band come “No W”, “Rio Grande Blood”, “Waiting”, “LiesLiesLies” e le impareggiabili “Thieves” e “New World Order” sono sempre presenti. Per quanto riguarda il concerto del 2012 è strepitoso ascoltare “99 Percentes” e “Relapse”, due tracce che hanno fatto la loro sporca figura. Parlando dello show del 2006 abbiamo già accennato che ha suscitato molte più emozioni nonostante il sound sia inferiore a quello del 2012: il vecchio Al e i Ministry di qualche hanno fa sono diversi rispetto a quelli di oggi; ad ogni modo tracce come “Worthless” e “Senor Peligro” la dicono tutta sulla loro grandezza. Solo una pecca ho riscontrato in questo live: l’assenza di capolavori come “Flashback” e “Stigmata”, non a caso le preferite del sottoscritto, soprattutto la seconda. Concludendo questa uscita dei Ministry è un vero e proprio piacere, un lavoro che da un lato i fan più accaniti devono possedere assolutamente e dall’altro è un ottimo inizio per le nuove leve ovvero per coloro che vogliono avvicinarsi allo storico gruppo.

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Fuck Buttons – Slow Focus

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Terzo disco per i Fuck Buttons, duo elettronico di gran moda proveniente da Bristol. Bando alle ciance e prepariamoci ad immergere la testa in questi sette brani strumentali che promettono fuoco, fiamme, elettronica e rumore.  Partiamo con “Brainfreeze”: è una cavalcata onirica, sorretta da un’artiglieria di percussioni infuocate e inarrestabili che affondano in un crescendo Noise apocalittico. È ciò che balleranno sulle ossa dei morti di domani i nostri discendenti, quando la Terra sarà un sasso abbrustolito rotolante in uno Spazio sempre più vuoto, o quando le macchine avranno vinto la loro guerra contro noi organismi al carbonio. Una roba così.

Segue “Year of The Dog”, arpeggiatori e fantasmi, cose che strisciano, case infestate, fuochi fatui nella nebbia, enormità percepibili nella distanza. Rimane, dal primo pezzo, il senso di qualcosa che incombe, sviluppato in crescendo e improvvisi vuoti. Con “The Red Wing” si torna ad una realtà più contigua. L’inizio potrebbe sembrare la base di un pezzo rap, con quel suono campionato, come di campanelli, acuto e perforante, che ci fa muovere la testa su e giù… se non fosse per i lievi spostamenti, per così dire, laterali, che fanno capolino qua e là tra la ritmica secca e ossessiva e i synth, scuri e gonfi al principio, poi taglienti e aperti, panoramici, che ci avvolgono mentre la canzone prosegue, passo dopo passo, come un Godzilla afroamericano che avanza a ritmo.

La ritmica è il lato migliore dei Fuck Buttons. Se non lo avessimo ancora capito, arriva “Sentients” ad insegnarcelo, con un intro martellante di suoni percussivi elettro-tribali e strida meccaniche. Un pezzo sul quale ballerebbe breakdance una crew di robot. Almeno finché non arrivano i synth, in un’entrata come la farebbero i quattro Cavalieri dell’Apocalisse, o le Sette Trombe del Giorno del Giudizio. L’incombenza di un Destino, di una Fine non troppo rosea pare essere un marchio di fabbrica dei Fuck Buttons, insieme all’andamento “in salita” che quasi tutti i pezzi, fino ad ora, hanno mostrato. E invece, con “Prince’s Prize”, i due di Bristol ci spiazzano e paiono, almeno all’inizio, giocherelloni e light-hearted. Quest’atmosfera playful resiste? Non troppo: prima del minuto e mezzo giungono le percussioni e l’andamento diventa più serrato, più pressante. È il brano più breve, e forse il più scorrevole: degna preparazione della combo finale, due pezzi da più di 10 minuti l’uno.

Il primo, “Stalker”, è una scalinata di pietra verso un cielo plumbeo. Synth sporchi e pesanti come piedi di golem pestano su una batteria asimmetrica e zoppicante, mentre i soliti arpeggiatori brillano nella distanza, vibrando per punzecchiarci le orecchie. Poi, eccoli: raggi di luce tagliente tra le nubi, come le dita di Dio, che avvolgono tutto in un’apertura da manuale ancora prima della metà del brano. Sono oceani di synth spalancati sul caos come archi, come onde. E la salita continua, e cresce: la scalinata diventa un serpente-drago che si morde la coda salendo, a spirale, nel confine sottile tra il buio e la luce. Concedetemi l’immagine: “Stalker” è un viaggio onirico, non c’è altro modo per descriverlo compiutamente – saremmo costretti a limitarci (ammesso che sia possibile farlo) alla fredda descrizione di ciò che percepiamo, e non basterebbe a spiegarvi davvero il potenziale di un brano di questo tipo. Quando “Stalker” si spegne, non riesco a credere che siano già passati dieci minuti. E mi tengo forte, aspettando l’ultimo pezzo.  Iniziamo, come sempre, in sordina: un battere distante, graffi acuti ad altezza occhi, e poi un ringhio di synth riempie il centro della scena. Quando la ritmica arriva, la sto aspettando: Slow Focus avanza coerentemente, qualcuno potrebbe dire noiosamente, ma la forza dei Fuck Buttons sta anche in questo: se il pezzo ti prende, non te ne frega un cazzo di cosa si ripete e cosa no. Segui il flusso, la marea, la corrente, e ti ritrovi chissà dove.

E infatti, abbandonandomi a “Hidden XS”, mi trovo ad un certo punto in un vortice acido, sopra un treno argenteo che sembra un proiettile, e ad un certo punto il vortice si ferma, i binari scompaiono e il treno sembra sospeso nell’aria, immobile, a levitare al rallentatore. Aspettiamo la caduta stringendo i braccioli del sedile: ma il volo prosegue, leggero, in una sequela di accordi che sembrano suggerire un’epifania, una rivelazione; e si sale, sempre più su, sempre più veloci, sempre più in alto, quasi ferocemente, disperatamente – fino a scomparire nella luce immensa di un Sole accecante. Slow Focus è un abisso, una labirinto nel quale sprofondare, lasciandosi illuminare, a poco a poco, dalle apparizioni del subconscio. Non è esente da difetti: i pezzi seguono spesso, come dicevo, lo stesso tracciato, e l’atmosfera complessiva non è quasi per nulla variegata (il senso di progressione in crescendo, le ritmiche ansiogene e primitive, l’apertura verso la metà, la rivelazione, la chiusura rarefatta finale). Tolto questo, i Fuck Buttons ci hanno regalato la possibilità di gettarci a capofitto nelle stanze del sogno, quello vero: brutale, primevo. E noi accettiamo l’offerta, e ci prepariamo alla partenza: orecchie, cuore, cervello.

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La Notte Dei Lunghi Coltelli – Morte A Credito

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Il primo disco de La Notte Dei Lunghi Coltelli, progetto solista di Karim Qqru, già batterista degli Zen Circus, è una sorpresa assoluta. Al primo ascolto lascia perplessi, al secondo cattura, al terzo incanta. È un disco stratificato, profondo, citazionista, colto, e devo ammettere che non mi sarei aspettato questa varietà di stili e rimandi da un disco del genere.
Morte A Credito (questo il titolo, “rubato” ad un romanzo dello scrittore francese Louis-Ferdinand Celine) è infatti un pastiche di generi ed influenze. Si passa dall’hardcore di “La Caduta”, energico e accorato brano d’apertura, fermo su due accordi e sul mantra l’urlo che precede l’urto (testo ispirato al romanzo omonimo di Albert Camus), al quasi-rap industriale di “J’ai Toujours Été Intact De Dieu”, da un testo di Jacques Prevert. C’è una cura quasi maniacale sia delle atmosfere, incazzate o sospese, alla bisogna, sia del materiale lirico, che viene gestito con una sapienza rara (abbandonato per pezzi strumentali, come in “Ivan Iljc”, regalato da altri autori, come Aimone Romizi dei Fast Animals And Slow Kids che firma “Levami Le Mani Dalla Faccia”, o addirittura, con l’aiuto di Diego Pani del King Howl Quartet, sperimentato in sardo logudorese in “D’isco Deo”).
L’anima del disco è, senza dubbio, il punk: quello sentito, duro, sgolato; più un approccio, una forma mentis, che un genere musicale. “Morte A Credito” (la canzone) ne riassume tutte le caratteristiche: diretto, incazzato, disilluso, cinico, ma allo stesso tempo disgustato. Il punk, però, viene infilato ed immerso in un bagno di modernità industrial/ambient, soundscapes umidi o polverosi, che aiutano a bilanciare la ruvidità degli episodi più duri (come nel lungo parlato sintetico de “La Notte Dei Lunghi Coltelli”, con l’ausilio dell’onnipresente Nicola Manzan).
Morte a credito è anche un racconto: la follia dell’uomo, il male, l’orrore, la morte, appunto. Il raccapricciante rifrangersi delle onde della Storia sugli uomini e sulle loro azioni, visto attraverso una lente molto novecentesca, che sorprende trovare in un disco, così ben strutturata e fondata. Morte a credito è un esperimento audace, rischioso, e, purtroppo (ma mi piacerebbe essere smentito), di nicchia. Ma è un esperimento che, almeno per quanto mi riguarda, è completamente riuscito.

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Un-Reason – S/t

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Ok, ancora non ho ascoltato il disco degli Un-reason e già mi piacciono. Spulciando tra le bio dei quattro componenti la mia testa vola indietro a un po’ di tempo fa, quando il mio mondo sembrava voler gridare il disagio del tossico da strada di Fuorivena, la fiera rabbia punk dei Klasse Kriminale, i giochi di parole dei Prozac+ e la ricerca di un marcio più elettronico negli Skinny Puppy. Gli Un-Reason si portano dietro un bagaglio musicale degno di tutto rispetto e dunque mi aspetto un disco curato nei minimi dettagli e non convenzionale.
Bene ora accendo le mie amate casse e mi lascio trasportare in un’altra dimensione in cui le contaminazioni sonore già dalla prima traccia – “A Place Of Truth”-appaiono infintite, ma è con Blink che finalmente il disco si apre e i N.I.N. prevalgono su tutto: chitarre che scoppiano, voci distorte ed effettate. Le atmosfere si fanno più pacate in “Our Special Way”, dove i suoni lenti e disturbanti mi hanno ricordato i primi Placebo, che riuscivano ad impastare una accozzaglia di influenze a tratti quasi folk con il dark più melodico e oscuro di ognuno di noi, regalando brani fottutamente pop (nel senso buono del termine).
Per tutta la durata del disco la voce di Elio Isaiasi sdoppia, passando da distorta a melodica, risultando però maggiormente interessante quando distorsori, delay, filtri ed altri effetti si fanno prepotenti, come in “Kids Hurting Kids”, favolosa traccia dove basso, elementi elettronici e un finale esplosivo la rendono unica. Il disco si conclude con “Waves”, una traccia che invita ad ascoltare la forma d’onda sonora in tutte le sue componenti: spazio, tempo, voce e musica. L’unica pecca? Il non aver incluso delle tracce puramente strumentali, io personalmente le avrei apprezzate, perché se c’è una cosa che non si può non riconoscere a questi ragazzi è sicuramente un’ottima cura negli arrangiamenti.
Insomma, mi piacciono perché suonano noise e sporchi, ma sono maledettamente curati e puliti, grazie anche ad una minuziosa cura dei dettagli, tanto che non sembra proprio di ascoltare una band nostrana.

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Metibla – HellHoles

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La one man band Metibla è il progetto musicale di Riccardo Ponis, autore di musica e testi, che per l’uscita del suo lavoro definitivo Hell Holes(2012) si è avvalso della collaborazione di Valerio Fisike Paolo Alvano.
Un’evoluzione musicale che parte nel 2006 con la nascita di Paraphernalia (uscito anch’esso nel 2012), epche serve, probabilmente, a trovare una strada, uno stile e un modo per esprimerlo. Un lavoro poco completo e meno accessibile, rispetto a Hell Holes, dove la forma-canzone viene poco sviluppata. Una sperimentazione non solo musicale, ma anche vocale, dato il continuo cambio di colore, che però sottolinea un cercare sempre continuo.
In questo periodo natalizio è inevitabile, inoltre, citare Christmas Time, quarto brano dell’ep, che viene utilizzato da Ponis, sulla pagina facebook del progetto, per presentare così il suo esordio: <<Torna il Natale, torna “Christmas time”, ma esce per la prima volta l’E.P d’esordio di Metibla “Paraphernalia” contenente il brano. Nato ben 6 anni fa vede la luce solo oggi per semplici questioni di malattia mentale>>.
E proprio questa “malattia mentale”, questi lunghi monologhi rivolti a un “tu” che non si conosce, la paura e il senso di malinconia perenne, accomuna il linguaggio musicale di entrambi i lavori, scritti e cantati in inglese, dove l’italiano si trova solo nella seconda parte di Sint Annen Straat,quarto brano dell’ep, costruito come una sorta di suite.
Hell Holes sembrerebbe un lavoro più completo, con dieci brani ben sviluppati nel loro significato di canzone. La melodia è il centro di tutto il lavoro, infatti, come si legge sul sito:l’obbiettivo principale del progetto è quello di comporre brani in modo diverso, mescolando diversi tipi di musica(rock, elettronica, metal), ma senza mai dimenticare la parte melodica.
Tutto questo succede fin dall’inizio, nel brano Crack, con i bellissimi armonici iniziali e la voce dai colori glam, in un testo sottile e sincero. Voce che si trasforma in una sorta di growl in Fool, secondo brano dell’album, che nonostante le tinte forti, esprime desideri semplici. E la chitarra trasporta la melodia anche in Pain, attraverso sonorità e testi moderni (Ma tutti questi ricordi, sono come le melodie che mi fanno sentire blu) che procedono senza fronzoli e senza retorica, per arrivare dritti a un determinato messaggio, poche volte felice. Ma invece di parlare di felicità, Metibla forse vuole esprimere se stesso, un se stesso che è accomunabile a tutti, un sé che si trasforma, giorno per giorno, in consapevolezza e forza, interiore, come in Victory, esprimendo l’integrità come la virtù più forte (Ora mi alzo, dalle ceneri delle vostre bugie), mediante una musica forse troppo digitalizzata.
Spino, quinto brano, uno tra i più interessanti, si dipinge dei più classici colori rock, per raccontare un amore sofferto. Sofferenza che si può toccare anche nella vita giornaliera, che lascia poco spazio ai desideri e alle aspirazioni delle giovani generazioni, che amano, sognano, suonano, scrivono, interpretano ma solo dopo essersi alzati dalla loro scrivania da impiegati, come in Brand New One, costruita su una melodia quasi infantile.
La pioggia, invece, si fa portatrice di profondi significati interiori, cullati da un timbro chiaro, una buona orecchiabilità e una chitarra sostenitrice, in Grave Sweet Grave e Cross the Rain, un cantato che guarda, sospira e soffre per i comportamenti della gente, per un Dio che abbandona e una famiglia distante. Tutto questo disagio si percepisce anche in You live, I don’t!, penultimo brano particolarmente cupo, nel quale la parola suicidio appare più di una volta e l’elettronica, poi, sottolinea costantemente questi pensieri martellanti. E la strada interiore termina con il lungo ricordo malinconico di Molly, il primo vero amore, la prima paura, la prima delusione.
E per finire la musica di Metibla,oltre ad essere una sperimentazione continua tra vari stili, una valvola di sfogo e un triste mondo parallelo,sarà anche colonna sonora del film Hop-Frog, di Rosso Fiorentino. Un 2012 fortunato, con l’uscita dell’ep, dell’album e della colonna sonora, per una musica lenta, sottile, cupa, che va ascoltata più di una volta,che sicuramente crescerà nel tempo e che probabilmente troverà in futuroanche un po’ si serenità.

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Stahlmann – Quecksilber

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Ecco un disco che emozionerà e farà la felicità degli amanti dell’ Electro Rock simpatizzanti dell’ Industrial, trattasi di “Quecksilber” secondo disco degli Stahlmann, un quintetto tedesco che nella loro patria oltre che essere affermati e adorati, sono stati inseriti in quel che è la NDA (Neue Deutsche Harte), una corrente nata in Germania nei primi anni 90. Ebbene questo “Quecksilber” non fa altro che confermare le capacità degli Uomini di Ferro (questo il significato di Stahlmann), il lavoro di Mart e soci detto in partenza è promosso a pieni voti. Il loro Rock elettronico condensato con una spruzzatina di Gothic ha dato prova di talento e voglia di fare, insomma potremmo considerarli una promessa. “Quecksilber” si apre con la stupenda melodica e tetra “Engel Der Dunkelheit”, un pezzo da 90 nonché la traccia più bella del disco insieme ad “Asche” e “Diener”. La chiusura è affidata ad una versione remixata di “Tanzmachine”, la terza traccia del platter è la versione originale di quest’ ultima che a dirla tutta non rende bene come questa modificata. In definitiva “Quecksilber” è un gran bel disco gli Stahlmann sono riusciti a procurarsi un proprio spazio mostrando le loro doti, non resta che seguirli. Di questo passo ci procureranno belle sorprese.

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