I lodigiani Day After Rules arrivano al secondo lavoro con l’attuale formazione con una buona padronanza degli stilemi del Punk pucciato nel Pop, quell’Hardcore melodico di stampo americano che ha grande successo oltreoceano. Il loro Innocence è un concentrato (sette brani per meno di diciassette minuti) di batterie pestate, chitarre taglienti e una voce (femminile) che sa muoversi tra cantato e urlato con facilità. Se a livello di suoni si può ancora migliorare molto (la batteria suona artificiale e le chitarre in alcuni frangenti appaiono troppo acide) sulla composizione e l’esecuzione siamo ad un buon livello per il genere: i Day After Rules non inventano granché, ma sanno accelerare e rallentare come si deve, spingere quando la musica si gonfia e prende la rincorsa, ripiegare sulla morbidezza e l’armonia quando invece la marea scende (molto apprezzabile l’ondeggiare di “No More Future”, che ha pause quasi Post-Rock). Non fraintendetemi: il disco suona bello cattivo, schiaffeggia a dovere, merito soprattutto delle ritmiche e della voce mai fuori posto di Giulia, cantante e chitarrista, che ci porta alla mente, qua e là, sia una Hayley Williams che una Brody Dalle. Un buon disco di Hc Melodico, tirato, pestato, e sapientemente svuotato e ammorbidito quando serve. È suonato bene e scritto bene per il genere che incarna: forse una minore aderenza al canone avrebbe giovato alla speranza di vita di Innocence, che comunque ci presenta una band che ha studiato e sa addossarsi la responsabilità delle proprie scelte.
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Day After Rules – Innocence
Pontiak – Innocence
C’è una musica che si suona con la parte più profonda del nostro subconscio, una musica che rigetta il calcolo, lo studio, la pianificazione, ma che è espressione di un’ansia, di un bisogno, di una necessità. È una musica da suonare di getto, da ascoltare a volumi elevati, che altera la coscienza e le percezioni, che ci sfida a seguirla per sentieri tortuosi scavati da sinapsi libere da costrizioni. Ed è la musica che ci schiaffeggia all’apertura di questo Innocence dei Pontiak: tre brani in fila come ganci di pugile, tra stonerismi e Garage Rock lo-fi, con chitarre-trapani, riffoni Hard Rock, suoni di batteria sporchi e confusi, voci al limite dell’intonazione e ritmi da lento ondeggiare sconvolti in locali che puzzano di birra e urina (“Innocence”, “Lack Lustre Rush”, “Ghosts”). La partenza fa ben sperare: mi convinco che questi tre fratelli cresciuti a Blue Ridge Mountain, Virginia, siano nuovi alfieri della Neopsichedelia, d’altronde sono loro ad ammettere di non aver mai studiato niente, di aver suonato pochissimo al di fuori del loro “trio di famiglia” e di essersi scelti per una questione di immediatezza, di profonda conoscenza reciproca.
Poi parte “It’s the Greatest” e penso sia una pubblicità di Spotify (avete presente?): un organo e poche chitarre, a creare un tappeto che, con la batteria, si inoltra in un mondo più molle e molto più orecchiabile, con riff di chitarra semplici e diretti e una voce parecchio lineare. Non un brutto brano, ma qualcosa che, finita la tripletta iniziale, non ci saremmo mai aspettati. A questo punto temo per il proseguimento del disco: e infatti, con “Noble Heads” arrivano chitarre acustiche da gruppetto Neo Folk e un andamento più Country, e l’unica cosa che ci salva sono le chitarre, gonfie, frementi, che appaiono qua e là a sottolineare l’avanzamento del brano. Aspetto con ansia il momento del ritorno all’energia e all’impatto iniziale, ma sembrano non arrivare mai: “Wildfires” è ancora più Indie, con chitarre acustiche acide e voci lamentose in primo piano, stemperate solo dal mare di cimbali che appare sul refrain. E poi ecco, “Surrounded by Diamonds”: e tornano i fuzzoni, le chitarre iper-compresse, l’andamento ondeggiante, tra i Black Sabbath e una versione meno Metal e più Indie dei Kyuss. Sono un amante dei gruppi che riescono a variare nei dischi, senza fare album con dieci volte la stessa canzone: ma mi chiedo come faranno i Pontiak a portare dal vivo un album del genere, che continua nell’elettricità con “Beings of the Rarest”, batteria torturata e feedback, voce sopra le righe e distorsioni dalle unghie lunghissime. Sembra che i tre brani più morbidi fossero solo una pausa per poi tornare a saturare l’aria con la vibrazioni frementi di un’urgenza molto, molto più palpabile (vedi l’assolo sanguigno che chiude quest’ultimo brano).
Con “Shining” si rimane su questo livello, rumori e pressione sonora che si svuotano in strofe più Indie, con in generale un impianto leggermente più contenuto, uno stile che mi ricorda le raccolte Nuggets sulle band psichedeliche degli anni 60. Il finale improvviso ci stoppa brutale e ci consegna gli ultimi due pezzi del disco: “Darkness Is Coming”, una ballata dalla voce echeggiante di slap delay, chitarre acustiche lontane, e maree di elettriche che spuntano qua e là, in un classico istantaneo, una canzone che potrebbe essere stata scritta trenta o più anni fa; e poi la chiusura con “We’ve Got It Wrong”, satura e ritmica, con qualcosa di britannico nella melodia del ritornello, dal tono ironico e scanzonato. Insomma, i Pontiak hanno saputo sorprendermi, confezionando un album intenso, di acida e psichedelica follia elettrica ma mai veramente violento, infilandoci dentro tre o quattro episodi di rilassatezza e orecchiabilità Indie, con un salto estremamente acrobatico ma che, qualche ascolto dopo, può anche avere il suo senso. I tre fratelli Carney sanno tessere inni al qui e ora con naturalezza, senza troppa teoria, mantenendo vivo e vibrante solo l’essenziale (brani brevi, dalle strutture ridotte all’osso, e chiusure tagliate con l’accetta). Innocence è senza dubbio un disco da provare se si è alla ricerca di un mix killer di Psichedelia vecchio stile, riffoni fuzz, impianto lo-fi e saltuarie immersioni in balsamo uditivo per calmare i peduncoli auricolari. Per farne un disco inappuntabile si doveva “progettarlo” un po’ di più: ma senza quest’immediatezza così brutale non sarebbero stati i Pontiak.