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Rebeldevil

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I Rebeldevil sono un gruppo formato da icone del Metal tricolore: Dario “Kappa” Cappanera, GL Perrotti, Ale Demonoid e Paolucci. Esperti musicisti che ne hanno viste di tutti i colori tra successi e insuccessi. Abbiamo l’onore e il piacere di scambiare due chiacchiere con Dario “Kappa” Cappanera. Si è giunti a parlare del nuovo disco del gruppo, The Holder the Bull, the Harder the Horn, fino a scovare qualche piccola chicca. Non resta che gustarsi l’ intervista.

Ciao Dario e benvenuto su Rockambula. Cominciamo a dire come sono nati i Rebeldevil. Come è avvenuto l’incontro tra questi quattro big del Metal italiano?

KAPPA: Nel 2007 mi ritrovai con una manciata di brani finiti, che dovevano finire nel secondo ipotetico album per una reunion dei Cappanera (la band di Materializin Dream, Lucretia Records) ma la cosa non funzionò. Fu allora che una sera in giro per locali con Ale Demonoid si parlava del fatto che mi sarebbe dispiaciuto non utilizzare quel materiale, e di chi avrebbe potuto fare al caso mio per cantarli. Demonoid allora menzionò Gl Perotti, con cui ero già amico dal 1993. Provai a chiamare Gianluca, gli mandai il cd con dodici pezzi  e lui che tra l’altro veniva da un periodo parecchio triste, avendo appunto perso la madre da poco, si entusiasmò alla cosa, anzi fu per lui un esorcizzare i suoi mali; si buttò anima e corpo sui quei brani e poi scese giù a Livorno a farci ascoltare cosa aveva fatto. Provammo e qualche settimana dopo eravamo in studio al Larione di Firenze per la produzione di un demo, poco dopo l’album e uscimmo nel 2008 con Molten Metal Productions U.K, un marchio inglese gestito pero’ da un nostro amico di Firenze.

“The Holder the Bull, the Harder the Horn” è effettivamente il secondo disco dei Rebeldevil. Perché non ci spiegate di cosa tratta e a quali tematiche vi siete inspirati?

KAPPA: Beh gia’ dal titolo ci proponiamo di affrontare il fatto che anche per noi sono passati ormai venti anni, in giro tra palchi, dischi, glorie e fallimenti. Il mondo intorno a noi è cambiato radicalmente in peggio, la musica e’ ormai un completo deserto creativo e pur avendo un eta’ media sui quaranta, quarantacinque anni ci sentiamo già dei veterani.  In questo senso volevamo dimostrare che appunto “più vecchio è il toro, più duro e’ il corno”; senza esperienza e chilometri alle spalle non si crea niente di concreto o di qualità. Questo e’ il Rock n’ Roll, anni e anni passati tra sudore, lacrime, notti insonni, chilometri macinati, palchi, vittorie e glorie da una parte e fallimenti e delusioni dall’altra.

Come si è svolto il lavoro di ognuno di voi; cioè quale è stato il  contributo di ogni membro?

KAPPA: In questo senso, io purtroppo o per fortuna ho un mio modo di lavorare; nel senso che quando scrivo, scrivo di getto e finisco la canzone, in senso armonico e di stesura; su alcuni brani ho anche scritto testo e melodia vocale, (“Angel Crossed My Way”, “The Older the Bull the Harder the Horn”, e “Crucifyin You”) . Quando il brano è steso, lo passo a Demonoid che arrangia con me le parti di batterie, stessa cosa per Paolucci al basso. Il pezzo finito poi va a Gl che finisce linee melodiche e testi. Per questo album è stato ancora una volta così, ma abbiamo fatto tutto in studio insieme in quindici giorni complessivi, dalla scrittura, alla stesura, arrangiamento e tutto il resto;  tutto di getto, buono alla prima, senza menate, alla vecchia maniera. 1.2.3.4 Rock n’ Roll.

Il disco è un autoprodotto. Siete in cerca di un’etichetta o continuerete per questa strada? Ma soprattutto c’è qualcuna che vi ha contattato?  

KAPPA: Abbiamo fatto girare il demo dell album a due o tre etichette indipendenti italiane, ma non e’ interessato nessuno; abbiamo così optato per un’autoproduzione totale con la sola uscita in digitale, veloce e indolore, tutto fatto in casa.

Parlando appunto di futuro, i Rebeldevil sono un progetto che avrà una concreta costanza? Insomma il gruppo continuerà ad esserci?

KAPPA: Beh noi vorremmo, ma sta diventando sempre più difficile poter tenere in vita una band del nostro livello senza finanziamenti da parte di terzi (leggasi case discografiche). Quindi non so, per questo anno siamo usciti, abbiamo fatto un grande album di canzoni che ci ha dato molta soddisfazione personale, abbiamo organizzato una manciata di concerti, che stiamo ancora facendo in giro, se pur non molti. Prendiamo quel che viene e cerchiamo di divertirci, poi si vedrà.

Che differenze ci sono tra “The Holder the Bull, the Harder the Horn” ed il vostro primo disco, “Against You”, pubblicato nel 2008?

KAPPA:  Beh Against You era un album più Metal, se vogliamo, inteso come “metal moderno”, molto aggressivo e incazzato, sempre con un retrogusto Blues ma pur sempre Metal; quest’ ultimo e secondo album è arricchito da brani più Rock e Blues, ed altri molto più Hair Metal anni 80. C’e’ decisamente un Flavour Heavy anni 80 in alcuni brani ed il resto più Southern Hard Blues, credo.

Avete in progetto di girare un nuovo video?

KAPPA: Siamo riusciti a malapena a far uscire “Rebel Youth” con i nostri ridotti budget autofinanziati; volevamo farne un secondo per “Remember” ma i budget scarseggiano. Insomma qua questo Metal non paga più, e diventa appunto difficile investire da noi in nuovi progetti, abbiamo famiglie, responsabilità ed una vita pure noi.

Questo nuovo disco come è stato accolto dal pubblico e come dalla critica? 

KAPPA: In questo non sbagliamo mai, la critica recensisce i nostri album sempre come Dischi dell’ Anno, come qualcosa che non si sente dai tempi che furono:  grandi elogi, grandissime recensioni e questo ci fa molto piacere. Allo stesso tempo però ci fa pure girare i coglioni: la consapevolezza di essere così bravi a fare il nostro lavoro ma senza raccoglierne i frutti meritati ci ha davvero rotto il cazzo.

Bene Dario, l’ intervista si chiude qui. Concludi come meglio ti pare…  

KAPPA: Beh innanzi tutto grazie a tutti voi per questa chiacchierata, siamo sempre grati e riconoscenti a chi ci supporta; se potete venite ai nostri show, non vi deluderanno. Un’ora con noi equivale ad un’ora passata ad ascoltare grande musica suonata impeccabilmente e con molta passione. Se invece non vi va, andatevene affanculo e continuate a scrivere le vostre stronzate su Facebook !!!!

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Anthony Laszlo (video intervista)

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Il nostro collaboratore Lorenzo Faustini qui nelle vesti del suo alter ego cantautorale La Scimmia ha realizzato questa bella intervista ad una delle band più promettenti del panorama nazionale, Anthony Laszlo.

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Dr. Quentin & Friends

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Dr. Quentin & Friends è un progetto aperto che ruota attorno alla figura carismatica di Quinto Fabio Pallottini. Lo abbiamo incontrato subito dopo il live Aspettando il Primo Maggio per parlare di presente e futuro della sua musica.

Partendo dal farti i complimenti per la recente vittoria alla finale abruzzese di Arezzo Wave e il mio in bocca al lupo per la prossima apertura a Marlene Kuntz e Lo Stato Sociale, ti chiedo subito, perchè hai vinto tu?

Quentin ha vinto per l’energia della sua esibizione e la capacità di colpire la gente e la giuria.

Di recente hai deciso di rinnovare completamente la formazione, i tuoi “friends”. Cosa ti ha portato a questa scelta?

Il motivo principale è che uno dei membri non si sentiva più parte del progetto. Un amico che ha suonato con me per anni ha scelto di non continuare ma il progetto non si fermerà mai. Solo lui ha scelta di prendere una strada diversa e gli auguro tutto il bene del mondo.

Vieni dal Punk, hai intrapreso strade Folk per poi puntare dritto sul Reggae. In realtà, la tua musica sembra essere qualcosa che va oltre le definizioni. Tu come la descriveresti? Come nasce la tua musica?

Semplicemente Paghetti Reggae; musica jamaicana suonata da italiani. Nello specifico Reggae contaminato da Rock, Punk e tanto altro. Un “metallaro” potrebbe chiamarlo Nu Reggae.

Molti credono che la forza della tua musica stia tutta nel tuo carisma. C’è qualcosa di più che finisce per colpire chi ti ascolta?

Non è la prima volta che me lo sento dire. In effetti, specie durante i live, il mio carattere è la prima cosa che ti rapisce e che aiuta a creare un certo legame col pubblico. Tuttavia riesco a colpire anche attraverso i brani, fatti di piccole storie di vita capaci di spingere all’immedesimazione al trasporto nonostante l’uso della lingua inglese.

Pensi che si possa emergere in Italia anche senza scendere a compromessi con i gusti, spesso discutibili, del pubblico?

(Ride ndr) Non ho minimamente idea di come si faccia ad emergere in Italia. Il successo vero sembrano raggiungerlo solo quelle merde dei reality che sfruttando quella merda di televisione. Io faccio solo quello che voglio fare, cercando di stare in pace con me stesso. La musica mi fa sentire vivo e l’ascoltatore italiano medio è semplicemente mediocre.

Qual è la più grande soddisfazione che hai avuto dalla tua, ancora breve, vita da musicista? E la più grande delusione?

Nelle poche occasioni in cui ho suonato con i grandi, la soddisfazione vera è stata sentirsi dire dal cantante dei Giuda che i miei sono grandi pezzi. La delusione… nessuna.

Hai da poco pubblicato un Ep. Cosa hai in programma per il futuro?

Il mio percorso è iniziato in maniera concreta due anni orsono. Devo andare avanti, pubblicando un album con inediti, cercando di esprimere tutte le mie idee e la mia musica.

Pensi che ci siano ancora veri talenti in Italia? Hai qualche nome da suggerirci?

Sinceramente non sono molto interessato alla musica italiana. Mi gasa quella strafica di Levante.

Le tue liriche sono prevalentemente in inglese. Un limite per il mercato italiano ma spesso una necessità espressiva. Credi che sia questa la scelta giusta? E perchè?

In realtà credo non sia poi cosi’ importante la lingua o il significato delle parole. La melodia conta davvero. Capisco che in Italia sia un limite non riuscire a farsi capire ma chi è davvero colpito da una melodia troverà il tempo di capire anche le parole. Quello che dobbiamo trasmettere sono soprattutto emozioni e a questo basta la musica.

Cosa vorresti trasmettere nello specifico? Credi di essere riuscito, fino ad oggi, nel tuo intento?

Voglio che gli altri provino esattamente le stesse emozioni che io provo nel momento in cui compongo una canzone.

Dammi il nome di un artista Indie italiano che credi abbia più successo di quello che si merita…

Lo Stato Sociale (ride ndr)

Nel tuo ultimo lavoro in studio sembra emergere la voglia di dare più risalto all’aspetto vocale (cosa che rende il sound più “Pop”) piuttosto che alla musica, mentre nei live le ritmiche gonfiano il tutto di una forza e un dinamismo maggiore. Hai la necessità di capire ancora la tua strada o è stata una precisa scelta fatta a tavolino?

Il sound è in continua evoluzione. Più suono e più riesco a farmi un’idea di quello che posso creare. Non avete ancora ascoltato nulla e quello che deve venire sarà qualcosa di unico, vedrete. Il sound che ho in testa non è esattamente quello che avete ascoltato.

Dove credi di poter arrivare, mettendo da parte i sogni e le illusioni e provando a ragionare con freddezza?

Sky is the limit

Quale credi che sia la cosa più importante nel fare musica? La capacità di essere innovativi, la tecnica, la coerenza, l’anima, la capacità di cogliere i desideri della gente o cos’altro?

Passion. La passione

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La Scimmia

Written by Interviste

Silvio “Don” Pizzica ha incontrato Lorenzo Faustini, la mente dietro al progetto capitolino La Scimmia. Alla scoperta di un modo di concepire il fare musica, autenticamente antico ma avanguardistico nel suo recupero della totale libertà espressiva.

Ciao Lorenzo. Tu sei voce e parole dietro al progetto Indie cantautorale La Scimmia. Nella realtà dei fatti la tua è una band, un progetto aperto o cos’altro?

È un continuo divenire. Cago canzoni come se fosse un bisogno fisiologico; chi mi sta vicino suona con me.

Perchè La Scimmia? Perchè questo nome? Cosa nasconde e cosa vorrebbe evocare?

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La Scimmia è una brace d’estate, carne con l’osso e vino rosso, chi più ne ha più ne dia; è un elogio alla terra e una bestemmia contro un Dio alieno spazzino.

Da quale esigenza nasce la tua voglia di fare musica? Cosa puoi aggiungere al panorama indipendente italiano?

Non voglio aggiungere nulla. Mi trovo a far musica ridotta all’osso, senza campionamenti e scopiazzatura. Sono quello che hai visto, mi sento di rischiare ma non mi va di mentire; mi piacerebbe che l’indi andasse verso l’essenziale senza cercare di scimmiottare la musica pop commerciale delle major. In questo mi sento di aggiungere qualcosa. Togliendo; forse.

Ho visto qualcosa difficile da inquadrare. Minimale come dici tu ma comunque pieno di sé. Come descriveresti la tua musica e un tuo spettacolo senza usare etichette?

Un buon connubio tra fumo e arrosto; ha il sapore delle canzoni suonicchiate dai nostri padri in vacanza in Grecia.

Bella definizione. Ascoltandoti mi è sembrato di notare una certa attenzione ai testi e ad un atteggiamento sarcastico e irriverente. Non credi però che in Italia si dia poca importanza alla musica, nella sua parte strumentale?

Si. Ascolto prettamente musica italiana quindi non saprei dirti. Chi ha curiosità vince sempre.

Torniamo al discorso su major e musica “commerciale”. Ormai le differenze stilistiche tra Indie Pop e musica leggera sono minime. Stanno cambiando i gusti del pubblico “alternativo” o il tutto è da ricercarsi in precise scelte di mercato volte a coprire diverse fette di fruitori con il minimo sforzo e con prodotti simili?

Maledizione spero di no. Ascolto musica che mi da emozione e quasi sicuramente rime semplici come cuore/amore non mi interessano; devo poter ascoltare Franco Califano come gli Antony Laszlo, ma la cosa fondamentale è che quello che hanno da dire non sia costruito per arrivare. La mia canzone nasce e muore in un ora, 4 sigarette, e mezzo vino. Nuda e cruda è l’esigenza di un momento, quasi uno spasmo non controllato dei muscoli; quindi non faccio distinzione tra commerciale e non commerciale se non è passione è solo merda.

Domanda difficile. O almeno ci provo. Perché qualcuno dovrebbe ascoltare La Scimmia?

La Scimmia è un esistenza romana in zona Divino Amore. È una storia raccontata al bar mentre si sfidano i vecchi a tresette. Si può ascoltare come no.

Torniamo alla musica italiana, tua vera passione. Qual è l’ultimo vero talento in musica spuntato nel nostro paese?

Gli Antony Laszlo etichettati Inri. Mi è piaciuto anche l’album Ecce Homo di Andrea Laszlo de Simone che fa parte del duo ma gli Antony Laszlo sono decisamente più fruibili. Iosonouncane è la scoperta dell’acqua calda ma con Die è in leggero calo. Il Capra (ex Gazebo Penguins); John de Leo con Grande Abarasse ha toccato vette cosmiche. Me ne piacciono tanti.

Parliamo della tua polemica con Borghese. Hai criticato con durezza un suo brano e a lui non sono piaciuti i tuoi toni. Pensi sia impossibile essere sinceri e senza ipocrisia tra “colleghi” o il problema sta solo nelle modalità della critica? Il limite tra “fascismo”, come l’ha chiamato lui, e libertà d’opinione è tutto nel rispetto e nella forma?

La libertà non è star sopra un albero, non è nemmeno il volo di un moscone che parla d’amore. La libertà è partecipazione. Non lo dico solo io; non conosco altri modi che l’estrema schiettezza e l’impulso. Non sarei La Scimmia

E allora ci provo. Dimmi un artista indipendente tuo connazionale che non riesci a tollerare?

La domanda è semplice. Non tollero nessuno al di fuori del Capra, Iosonouncane, Antony Laszlo, e John De Leo.

Torniamo a La Scimmia. Avete obiettivi precisi a breve e lungo termine? Cosa state preparando e dove credete di poter arrivare?

Non credo di realizzare mai un cd. Non ho bisogno di sentirmi raccolto. La Scimmia sarà sempre un continuo fruire. Un torrentello che si perde nel bosco. Magari andiamo a San Remo.

Ultima domanda secca. Più stupidi i Nobraino o il popolo degli hater a tutti i costi? o magari Roy Paci?

I Nobraino non erano malaccio e non so chi siano gli hater; intuisco odiatori. Roy Paci lo andai a sentire una dozzina di anni fa al Villaggio Globale a Testaccio. Non si esibi perchè non lo aggradava l’audio; così è stato. Non me ne vogliano i Nobraino e mi baci il culo Roy Paci

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Unalei

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Sulle pagine di Rockambula abbiamo il piacere di ospitare Federico Sanna degli Unalei che ci parlerà dell’ultimo disco A Sua Immagine. Tra una curiosità e l’altra si è parlato dell’influenza del gruppo e delle ispirazioni che l’hanno portato alla creazione del disco. Non resta che godersi l’interessante intervista.

Ciao Federico e benvenuto su Rockambula. Direi di cominciare a parlare degli Unalei. Come è nato il progetto?
Ciao a voi e grazie per lo spazio! Riguardo alla nascita del progetto non mi ero prefissato nulla in partenza. In realtà venivo da un periodo di circa tre anni in cui non ero soddisfatto di nulla della musica che portava il mio nome e quindi accantonai tutte le mie idee personali per dedicarmi a suonare con progetti di terzi. Non avevo motivo, voglia e un soggetto per poter scrivere! Poi all’improvviso…

A Sua Immagine è il vostro nuovo disco ma a chi ti sei ispirato per comporlo? C’è stata una musa ispiratrice?
Mi ricollego a ciò che ho detto prima; Si, ad un certo punto è arrivata questa musa grazie alla quale ho riconsiderato le mie idee su tutto quanto, o quantomeno, le ho definite. Sull’arte, sulla vita, sui sentimenti…avevo trovato, insomma, il mio soggetto che rendeva la vita più simile all’arte e in un paio di mesi A Sua Immagine ha preso forma: le varie bozze e riff andavano incastrandosi con assoluta naturalezza e come il nome del lavoro dice, è una rappresentazione di lei nel modo in cui la vedo io. Solo che nessuno a me vicino condivide quest’idea ed a conti fatti (il disco è stato scritto un anno fa) ho dato un valore estremo a qualcosa che in effetti sembra non averne affatto. Dico però che in parte l’ho fatto volontariamente, di idealizzarla per portarmi da solo a scrivere qualcosa di nuovo, infatti è la prima volta che sono soddisfatto al cento per cento di quanto ho fatto. Davvero, non ho mai sentito qualcosa di cosi immenso. Ascoltate “I Giorni della Monotonia” di Battiato!!

Ho trovato il sound dell’album limpido e pulito, una chicca considerando che il disco è un’ autoproduzione. Dove è stato registrato e a chi ti sei affidato?
Purtroppo a volte si tende ad essere prevenuti verso un nuovo lavoro perché è autoprodotto, soprattutto dagli ascoltatori. Ma la produzione è un fatto di soldi, più ne hai e più il tuo disco risulterà pulito. Adesso, questo discorso non c’entra col mio caso. Il tecnico del suono che mi ha affiancato per tutte le fasi del lavoro è Daniele Pensa , che raccomando a tutti quelli che vogliano avere un disco di qualità e voce in capitolo allo stesso tempo. E difficile trovare un fonico che si faccia gli affari suoi in alcuni frangenti e diciamo che Daniele è molto accondiscendente su qualsiasi cosa. Ma di nuovo questo non è il nostro caso, perché rispetto e considero molto il suo parere in merito. Ha conseguito la certificazione a livello internazionale come operatore Pro Tools, abbiamo registrato nel suo studio personale. Lui è molto competente, sia di fonia che di tecnica musicale, è infatti il chitarrista e mente principale di una band romana molto valida, gli Oblivio. A Roma è sicuramente tra i dieci migliori. Ed è anche un caro amico. Ringrazio e saluto!

Puoi fare un primo sunto dei riscontri del disco? Le vendite vanno bene?
Non mi posso lamentare, essendo questo il primo lavoro con tale nome. Qualcuno si ricordava di me e sto vendendo soprattutto il formato fisico, nonostante il lavoro sia disponibile anche su bandcamp.

Come è stato accolto il disco dalla critica?                                                                              Magnificamente! I singoli pareri risultano essere molto diversi, tuttavia la sensazione che lascia all’ascolto è sempre positiva. La diversità delle opinioni su un’opera d’arte, se vogliamo chiamarlo cosi, dimostra che l’opera è nuova, complessa e vitale. Di conseguenza mi ritengo molto soddisfatto. Qualcuno mi ha comparato ai Verdena, Carmen Consoli e Baustelle, credo sia la prima volta per un disco Gothic Metal/Post-Rock. Insolito, ma soddisfacente !


Per quanto riguarda il tour cosa puoi dirci? Dove suonerete nei prossimi giorni?
Questo è un problema! Sono ancora in fase di valutazione e conferma degli eventuali turnisti, avendo suonato tutto io ad eccezione del basso, suonato da Federico Petitto degli Unminutodisilenzio al quale darò sempre un ringraziamento speciale in ogni occasione come questa per il supporto, fa sembrare quello che fai più bello! Per ora posso solo dire che ci sarà un release -party entro la fine dell’anno, a Roma. Tuttavia mi sono arrivate diverse richieste di live soprattutto nel Lazio, spero di essere attivo presto! Se farò un tour penso di organizzarlo europeo più che italiano, ci sono già molti contatti.

Siete alla ricerca di qualche etichetta? Avete avuto qualche richiesta?
Si! Cerchiamo disperatamente un’etichetta, sia per un po’ di promozione in più che per l’utopico finanziamento del prossimo lavoro. Ci siamo proposti ad alcune di recente, speriamo in risposte positive! Purtroppo sono anche un po’ schizzinoso, il lavoro che fa l’eventuale piccola etichetta possono farlo un gruppo di amici. Ho bisogno di una grande mano, mezzi e garanzie. Solamente col marchio non ci faccio nulla. Ovviamente mi riferisco all’industria discografica italiana.

Quando pensi potrà uscire un prossimo disco degli Unalei, siete intenzionati a rimettervi a lavoro a breve o volete aspettare un po’?
Il prossimo disco è già pronto, sarà la chiusura di ciò che è iniziato con A Sua Immagine e già ho rivelato troppo! Per quanto mi riguarda mi rimetterei a lavoro in studio subito, ma in questo periodo sia io che Federico siamo occupati con altri aspetti della nostra vita. Spero di muovermi ad inizio 2015 per farlo uscire tra un anno circa!

Bene Federico l’ intervista si chiude qui, concludi come meglio credi….
Ok Vincenzo! Innanzitutto grazie per la bella intervista e lo spazio dedicatomi! Ci tengo ad invitare chiunque se la sentisse di aiutarmi in veste di turnista per i live a contattarmi! Poi invito tutti i lettori a dare un ascolto al disco e soprattutto a scrivermi per darmi i loro pareri e supportarci, sono sempre molto utili! Ecco dove ci trovate:

www.facebook.com/unaleiofficial

www.youtube.com/unalei2

unalei.bandcamp.com

soundcloud.com/unalei-terrena

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Lilia

Written by Interviste

Lilia Scandurra, in arte semplicemente Lilia, è una giovanissima artista pescarese che sta facendo tanto parlare di sé in questi mesi, grazie alla pubblicazione dell’Ep 44 e ad alcune convincenti esibizioni live, tra cui quella a Streetambula Music Contest dove ha ricevuto il riconoscimento Wallace Multimedia come miglior presenza scenica, premiata dal grande e storico leader dei Diaframma Miro Sassolini. In occasione dell’esclusiva video offerto a Rockambula, abbiamo parlato un po’ con lei di passato, presente, futuro e numeri.

Ciao Lilia, come stai?

Questa è la domanda più difficile del mondo, no comment! Scherzo, mi sento bene (ride ndr)

L’ultima volta che ti ho visto suonare dal vivo eri a Pratola Peligna (AQ), un paesino abruzzese dove c’è un grande fermento e dove hai fatto breccia nel cuore del pubblico. Avevi già suonato lì in occasione di Streetambula Music Contest, quando Miro Sassolini ha premiato la tua performance con un riconoscimento speciale. Che esperienza è stata e cosa ti ha lasciato? Credi nell’utilità dei contest?

È stata una bellissima esperienza, prima di tutto perché quando si partecipa ad eventi organizzati con il cuore, torni a casa con il sorriso, pieno di energie positive e voglia di credere in quello che fai. Lo Streetambula Music Contest è stato il secondo concorso a cui io abbia mai partecipato e lì ho avuto l’occasione di conoscere nuove persone ed interessanti realtà artistiche ed è soprattutto questo che conta per me.

Cerchiamo di chiarire che tipo di musicista sei. Da sola sul palco, in compagnia solo del tuo portatile, mescoli un’Elettronica leggerissima a suoni e parole multiformi usando piccole tastiere e percussioni generate da drum-machine oltre che la tua incantevole voce. Tu l’hai definita Elf-tronic, qualcuno la chiamerebbe Dream Pop. Spiegaci la tua musica lasciando da parte le definizioni.

Per me suonare vuol dire (anche) “giocare”. Quando mi esibisco sento scorrere dentro di me vibrazioni che risvegliano una parte istintiva e un po’ “mistica” perché è in atto un processo creativo, ed è anche per questo che preferisco la dimensione live:  i brani registrati in studio sono come un “diario di bordo”, le performance sono “avventura”.

Sul palco non ti affianchi ad altri musicisti e le tue possibilità di movimento sono limitate dalla necessità di controllare il computer e tutto il resto. Quanto questa scelta minimale gioca a tuo vantaggio e quando può trasformarsi in un limite, sia in ambito compositivo e sia in merito alla capacità di riempire il set?

Allacciandomi alla risposta precedente, quello che mi piace di questa dimensione è proprio la possibilità che ho di divertirmi. Ho iniziato il mio percorso artistico cinque anni fa, esibendomi con la mia chitarra (e registrando poi un disco nel 2011, Il Pleut, che ho portato in giro talvolta in solo, talvolta accompagnata da ottimi musicisti) ed il limite personale che sentivo allora era proprio quello di sentirmi “racchiusa” in una bolla, dove abbracciavo la chitarra quasi fosse uno scudo protettivo. Con questo progetto sento invece molto forte la libertà di movimento, posso saltellare, spostarmi, premere, automatizzare, come un’alchimista nel suo laboratorio,  e tutte le piccole scatole magiche (aka laptop, drum-machine etc) di cui dispongo, sono piccoli e potenti giocattoli che mi permettono di suonare, trasformare la voce, registrarla in tempo reale per creare atmosfere.

Da poco è disponibile (qui) il tuo Ep 44. Come nasce un lavoro come questo, quali sono le tue ispirazioni e i tuoi punti di riferimento?

Voglia di sperimentare  ed ossessione (due mesi passati nella mia camera che pian piano è diventata un piccolo home studio) sono due fattori che hanno inciso fortemente nella creazione di 44.

Raccontaci il perché del titolo. In realtà io già so qualcosa e non posso negare che la storia è affascinante.

I numeri pari mi fanno sentire tranquilla. 44, è un numero che mi fa stare bene per vari motivi (sui quali non mi dilungherò per non sembrare una psicolabile (ride ndr)), ed è proprio per esprimere il benessere che ho provato nel registrare l’ep che ho scelto il mio numero preferito.

Lilia è indissolubilmente legata ad un’altra band che tanto sta facendo parlare di sé. I Two Fates. Cosa vi avvicina e ci sono delle affinità anche stilistiche tra voi?

Tiresia e LorElle (le due anime dei Two Fates appunto, ndr) sono amici preziosi. La loro caratteristica più potente è il coraggio di osare, e il loro naturale pregio è quello di riuscire a condividere: emozioni, sapere, pensieri e momenti. Tiresia si è occupato del mixing e del mastering di 44 e continueremo a collaborare per il prossimo lavoro (vero, Tiresia? (ride ndr)). Ci sono tante affinità che ci accomunano ma anche interessanti differenze stilistiche che rendono produttivo il nostro scambio.

Credi che una musicista come te possa trovare un suo spazio dentro la scena emergente e indipendente italiana o sei, volente o nolente, relegata ad un ruolo marginale?

Sì, lo credo. E il mio obiettivo è quello di emergere, sempre rimanendo un’artista che fa parte di un sottobosco che sia poco mainstream.

Perché hai deciso di fare questo nella vita? È solo questione di passione o ci sono stati eventi in particolare che ti hanno fatto prendere certe decisioni.

Non nascondo che all’inizio è stato “strano”. Come un po’ tutti quelli che si “scoprono”  eseguendo repertori inediti, ho cominciato molto timidamente perché ero abituata a suonare per me. Nel mio primo live ho eseguito tre canzoni… e mezzo. Ero terrorizzata! Inoltre, come spesso accade, il fatto di esibirmi davanti a degli ascoltatori mi ha aiutata a migliorarmi. Inoltre prima di suonare sono sempre un po’ nervosa ma, non appena  comincio, questo stato d’animo lascia spazio ad un benessere che mi riempie. Tutti dovrebbero avere uno spazio dove poter provare questo.

Restando in tema, nella vita ti occupi di altro o sei musicista a tempo pieno? E comunque, pensi che nel 2014 si possa scegliere di essere musicisti professionisti (turnisti esclusi)?

Quest’anno mi sono laureata in Lingue Straniere e di tanto in tanto faccio lavori inerenti al mio campo di studio. Inoltre negli ultimi mesi ho registrato le voci per i due EP di Dear Baby Deer (ascolta qui) , progetto di Gianluca Spezza (ex Divine), che si divide tra Italia e estero. Secondo me si può scegliere di essere musicisti a tempo pieno, con molti sforzi e tanta umiltà. Bisogna essere concentrati e non lasciare nulla al caso.

Tra i tanti complimenti e apprezzamenti, non manca mai anche chi trova il modo di criticare ed in fondo è giusto così. Tra le cose che più ti si rimproverano ho trovato più interessanti anche se non sempre condivisibili queste di seguito: 1) alcuni brani sono troppo lunghi, ripetitivi e pesanti 2) il live è troppo scarno 3) dovresti lasciare a qualcuno più esperto la parte relativa al lato elettronico e dedicarti più alla voce. Quanto c’è di condivisibile?

Le critiche costruttive non mi danno fastidio, anzi.  Con 44 mi sono messa in gioco totalmente, sapendo che avrei potuto ricevere pareri contrastanti. Una cosa che chiedo sempre alle persone che ascoltano il mio lavoro è di darmi un parere sincero, perché ne ho bisogno. Sono una musicista profana – non ho mai studiato- ma ho sempre dedicato tanto tempo a quello che mi fa stare bene. Sono testarda e questo fa si che io rincorra ciò a cui voglio arrivare senza compromessi. Il live è minimale perché è così che sono io, i brani sono forse troppo lunghi ma non ho il dono della sintesi e per me non esiste superfluo: se una canzone nasce lunga sei minuti e cinqanta la lascio così. Mi piacerebbe un giorno provare a condividere il palco con qualcuno che possa arricchire la performance, ma questo non perché io voglia lasciare a qualcuno di più esperto il “lavoro sporco”. Mi diverto tanto a fare tutto da sola per adesso (oltre ad essere una formula comoda quando mi sposto), e mi divertirei suonando con qualcuno.

Qual è la cosa più bella che la musica ti ha regalato e quella assolutamente da dimenticare?

Una cosa sola, che abbraccia entrambe: la consapevolezza di essere “delicata”. Una cosa che gioca a favore di chi si espone, perché significa possedere sensibilità. Nello stesso tempo è qualcosa che viene piacevolmente “dimenticato”, quando, appunto, ci si espone.

Di cosa parla Lilia nelle sue canzoni (in inglese)? E cosa vuole trasmettere?

Di immagini simboliche, metafore, esperienze reali o immaginarie. Per me sono piccole pillole terapeutiche o formule magiche. Vorrei trasmettere sensazioni che siano difficili da esprimere.

Quando la musica è arte e quando semplice intrattenimento?

Ho lasciato questa domanda per ultima, lo sai? È la più bastarda che mi abbiano mai fatto (e con questa risposta, mi riallaccio all’ultima domanda *risata malvagia* )

Quali ascolti hanno portato Lilia a comporre la sua musica? E cosa ti piace ascoltare abitualmente?

Pensandoci su, mi sono resa conto che tendo a prediligere voci femminili, per una questione di studio personale. Fever Ray, Bat for Lashes, Grimes, Norah Jones, Tori Amos, Portishead…Poca musica italiana. Nutro un amore incondizionato nei confronti di Nick Drake.

Ultimamente proprio Tiresia dei Two Fates ha messo in luce uno dei problemi attuali della scena musicale italiana, data dal ruolo delle etichette, anche indipendenti. Da un lato chi le critica di non avere voglia di sbattersi troppo dietro ai gruppi, dall’altro chi accusa invece le band di non voler fare il lavoro “sporco” di crearsi una fanbase, vendere merchandising, ecc.. Che idea ti sei fatta e che rapporto hai con le etichette?

Sono affascinata da queste discussioni, ma preferisco non pronunciarmi perché sto ancora osservando da un punto di vista “distaccato” poiché momentaneamente non sto lavorando con nessuna etichetta. 44 è un album autoprodotto, registrato in casa e disponibile in formato digitale. È gratuito, perché il mio obiettivo è raggiungere tante orecchie, e, per lo meno per me, non è indispensabile cercare guadagno dove non ci sono costi da recuperare. Sono più concentrata sull’investire energie e tempo per far si che ciò di cui la gente fruisce sia godibile. E a curare la dimensione live, che è la cosa che per me conta maggiormente.

Come ti stai muovendo per promuovere la tua musica e dove credi di poter arrivare?

Finora mi sono occupata personalmente della mia promozione. Grazie allo Streetambula Project  è da poco sbocciato un magico sodalizio con la deliziosa Roberta D’Orazio (Mola Mola), che mi sta facendo da Ufficio Stampa. Inoltre sta nascendo una collaborazione con un’agenzia di booking che mi darà la possibilità di portare in giro il mio progetto.

Grazie mille per il tuo tempo e per le tue parole. Un’ultima cosa prima di salutarti. Ho avuto il piacere di conoscerti e sei una persona deliziosa, sempre disponibile e carina con tutti, sempre. Dimmi qualcosa di cattivo, verso chiunque. Ce la fai?

Facilissimo! Qualcosa di cattivo, verso chiunque. (Vedi: “Spirito di patata”)

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Codeina

Written by Interviste

Ciao ragazzi. Complimenti per la vostra ultima fatica Allghoi Khorhoi. Partiamo da una domanda banale ma necessaria. Che c’entra il nome di una creatura leggendaria, un enorme verme che vive nel deserto del Gobi con i Codeina e la vostra musica?

Ci piaceva l’idea di un verme, per consuetudine creatura infima, non considerata, disprezzata, che in questa occasione assume una posizione di forza. L’Allghoi Khorhoi è un mostro mitologico che si nasconde in lunghi cunicoli scavati sotto il deserto e attacca l’uomo con scariche elettriche o secernendo acido. Quest’essere è talmente radicato nel folklore di quelle zone che ancora oggi la sua figura è vissuta con grande rispetto mantenendo allo stesso tempo il potere di incutere timore. L’abbiamo interpretato come un simbolo di rivalsa, di ribellione dal basso. Una rivoluzione nascosta e silenziosa, che striscia nelle profondità del terreno ed è pronta a esplodere all’improvviso.

Passiamo a voi. Come nasce una band come la vostra e un album come Allghoi Khorhoi?

I Codeina nascono nel 1998 in uno scantinato di periferia. Da qui passano gli anni accompagnati da tanti cambi di formazione alla ricerca degli elementi più “psico-sociopatici”. I Codeina che vedete oggi suonano insieme da tre anni e, fortunatamente, non si registrano danni a persone o cose. Allghoi Khorhoi non è nient’altro che la naturale evoluzione di Quore. Hidalgo Picaresco, il nostro primo album. Un’“evoluzione” del processo creativo, con un approccio più libero e maturo alla proposta e all’elaborazione del pezzo. Allghoi Khorhoi è la prosecuzione di un’esigenza comune di tradurre in musica disagi e insoddisfazioni quotidiane, da una sfera personale e intima a un’altra più ampia e strutturata, sociale e culturale, che riguarda l’intero nostro paese.

La codeina è un derivato della morfina ma Codeine è anche il nome di un mitico gruppo Slowcore statunitense. A quale di questi due paragoni siete più legati? Conoscevate la band di Stephen Immerwahr al momento di scegliere il nome e c’è qualcosa che vi lega, musicalmente parlando?

Dovendo scegliere a cosa siamo più legati, sicuramente sarebbe il derivato della morfina. Ai tempi non conoscevamo i Codeine e non esiste un legame musicale nonostante sia un gruppo che oggi apprezziamo.

Ascoltando i brani di Allghoi Khorhoi sembrano ritrovarsi diverse chiavi di lettura. C’è qualcosa in particolare che unisce le dodici tracce, sotto l’aspetto delle tematiche trattate più che, ovviamente, sotto quello puramente musicale?

Senza alcun dubbio il nervosismo quotidiano. Ogni singola traccia nasce come un esercizio atto a reprimere, veicolare ed espellere il nervosismo che viviamo quotidianamente in qualcosa che sia legale, lecito e magari anche terapeutico.

La vostra musica rimanda soprattutto al più canonico Alternative Rock in lingua italiana. Gli scomodi paragoni si rifanno a Verdena, Afterhours e Teatro degli Orrori. Quanto c’è di vero in queste similitudini? Quanto sono cercate e quanto sono naturale evoluzione dovuta alla vostra formazione personale?

Afterhours direi forse per i primi dischi, per gli altri due paragoni le fonti “estere” da cui hanno e abbiamo attinto sono prettamente le stesse. Noi non facciamo che suonare ciò che maggiormente ci piace ascoltare.

La scena alternativa (passatemi il termine) italiana si sta spaccando pericolosamente in due tronconi. Da una parte il cosiddetto Indie Pop Cantautorale stile Dente, Luci e Brunori, Lo Stato Sociale e dall’altra chi prova a suonare più Rock, violento, nudo e crudo. Per ora il pubblico sembra apprezzare più i primi ma è veramente una questione di scelte o piuttosto un sapersi “vendere” con più efficacia?

Pensiamo si tratti di scelta della massa: semplicemente il cosiddetto pop cantautorale è parte della storia musicale italiana che tutti conoscono (Battisti, De André, Dalla, De Gregori, Guccini ecc ecc.) mentre non ci vengono in mente gruppi per così dire “violenti nudi e crudi ” che abbiano un seguito di simili proporzioni… Basta chiedersi quale sia ancora oggi il festival musicale più importante in Italia…e la risposta si delinea ancora di più. Poco cambia in ambito “alternativo” perché siamo da terzo mondo in materia di cultura musicale e non solo…

Tornando a questa questione, sembra sempre più raro vedere andare a braccetto la qualità e, conseguentemente, il riconoscimento della critica, con i numeri dati dalle vendite di Cd e merchandising, oltre che di ingressi ai live e chiamate per i concerti. Qual è allora il problema, se esiste un problema?

Pubblicità, interessi, soldi. Una proposta musicale sui mass media è incentrata esclusivamente su questi valori. Incapacità o svogliatezza di giudizio critico dal lato del ricevente.

Dall’ascolto di Allghoi Khorhoi, emerge un lavoro intenso, carico di rabbia eppure non troppo originale nello stile. Quanto conta oggi suonare diversi dagli altri e quanto è utile e importante, in termini di riconoscimento di pubblico e critica, essere diversi in superficie e quindi formalmente o piuttosto nella sostanza?

Credo sia un po’ arduo in questo preciso momento storico avere l’obiettivo, la capacità e la superbia per poter anche solo pensare di fare musica “diversa e originale”. Ci concentriamo più su un lavoro di sostanza.

Recentemente, in occasione del M.E.I., mi è capitato di leggere diverse discussioni circa il ruolo attuale delle etichette. Da una parte chi sosteneva che siano le band a dover fare gran parte del lavoro di “formazione” di una base di fan per rendersi appetibili alle label e dall’altra chi ritiene più opportuno che siano le stesse etichette a fare il lavoro che far crescere le band, in ogni senso. Voi da che parte state? Che rapporto avete con la vostra etichetta?

Noi non abbiamo alcuna etichetta. C’è un po’ di verità in entrambe le affermazioni ma credo che la situazione generale a livello di etichette e fondi sia abbastanza grigia e al limite della sopravvivenza. Per cui fanculo e DIY!

Torniamo al disco, Allghoi Khorhoi. Provate ad essere sinceri. Quali brani sono quelli che più sentite vostri, rappresentativi del vostro stile e del vostro carattere? C’è almeno un pezzo che proprio non vi piace?

Sono tutti lati dello stesso carattere, nessuno escluso. Va bene autodefinirsi “psico-sociopatici” ma non siamo ancora del tutto pazzi da inserire nel disco materiale che non ci piace. Oltretutto non abbiamo imposizioni, pressioni o obblighi contrattuali cui sottostare.

Che rapporto avete con la critica musicale? Su Rockambula avete avuto una sufficienza e parole buone ma tiepide. Ha ancora un valore che vada oltre la mera propaganda, il lavoro del critico/opinionista musicale?

Per il primo album abbiamo contattato direttamente webzine e riviste, ottenendo stranamente un buon riscontro sia in termini di numeri sia oserei dire di critica… per Allghoi Khorhoi siamo solo all’inizio.Tante volte ci può essere mera propaganda dietro al critico. C’è chi si improvvisa critico o chi si trova a recensire qualcosa che detesta o di cui non ha un background conoscitivo. In ogni caso dietro una recensione, positiva o negativa che sia, si capisce subito se chi sta analizzando un disco ha gli strumenti giusti per poterlo fare o meno.

Perché un ipotetico lettore di Rockambula, che si trova davanti a centinaia di consigli e suggerimenti ogni mese, dovrebbe dedicare a voi un’ora della sua vita?

Perché il disco dura 44 minuti e noi gli regaliamo i restanti 16 minuti per fare ciò che più gli piace.

Quando e dove potremo vedervi suonare dal vivo? E che tipo di spettacolo dobbiamo aspettarci?

“Il più grande spettacolo dopo il big bang”. A breve ritorneremo a calcare le scene partendo dalla Brianza e Milano.

Ciao e speriamo di vederci presto.

Grazie, a presto!

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Sugar for your Lips

Written by Interviste

Giovanissimi e carichi nella maniera giusta i quattro ragazzi di Cosenza hanno tutte le carte in regola per farci emozionare con il loro Alternative Rock (sporco alla maniera del Punk) influenzato dai mostri sacri Foo Fighters, Radiohead e tanti altri. Li ha intervistati per Rockambula Webzine il nostro capo redattore, Silvio “Don” Pizzica e quello che ne viene fuori è una chiacchierata onesta, interessante e che speriamo, tra qualche anno, si possa leggere come il preludio di una grande band. Tutto sta alla loro capacità di imparare dai propri stessi errori.

Ciao ragazzi. Sugar for your Lips; una formazione giovanissima e ancora tutta da scoprire. Iniziamo con le presentazioni. Chi sono gli Sugar for your Lips?

Ciao Silvio! Bene, come hai detto, siamo una formazione molto giovane che cerca di farsi strada in questo settore, anche se col passare del tempo stiamo anche noi collezionando le nostre piccole conquiste. Gli Sugar for your Lips sono Riccardo Monaco alla voce e alla chitarra ritmica, Antonio Belmonte alla chitarra solista e alle voci secondarie, Carlo Bilotta al basso e Niki Bellizzi alla batteria e alle percussioni.

Il vostro nome sembra già fornire diversi indizi. Una scelta da band Alt Rock anglofona e l’evocazione di atmosfere che, immaginiamo, artificialmente dolci ma forti. Tra qualche secondo pigerò il tasto play per verificare; nel frattempo, ditemi quanto ci sono andato vicino?

Hai azzeccato in pieno! La scelta del nostro nome è stata presa, appunto, per dare un tocco di dolce ad una band avente un sound relativamente aggressivo; beh, non resta che ascoltare!

Play appunto. Prima “Glass of Scotch” e poi “Resignation”. Nel primo brano è evidente l’aspetto Alt Rock, Nu metal quasi. Nel secondo si allentano le tensioni e viene fuori un inatteso Pop Rock, velato di romanticismo decadente. Due anime dello stesso corpo. Qual è quella che più vi rappresenta?

Beh, diciamo che il nostro sound si identifica più in Glass of Scotch (non per niente è stato il primo singolo estratto dal nostro EP). È appunto ciò che vogliamo trasmettere al pubblico, energia mista ad una vena di malinconia, con un finale esplosivo, quasi come se volessimo lasciare l’amaro in bocca ai nostri ascoltatori.

I due già citati sono i singoli del vostro Ep Be Sweet. Come è nato questo lavoro?

Il lavoro nasce innanzitutto dalla volontà comune, dopo tanto tempo passato in sala prove e tra piccoli e grandi palchi, di ufficializzare il nostro progetto. Grande merito per la (speriamo!) buona riuscita del lavoro dobbiamo darlo a Joe Santelli, voce e chitarra dei VioladiMarte, che ci ha seguiti e indirizzati verso la “diritta via” presso le Officine33giri.

Svestendo i panni dell’intervistatore curioso e indossando quelli del critico cinico, non posso negare di aver trovato diversi “problemi” nei vostri pezzi, dagli arrangiamenti non proprio perfetti, fino alla costruzione delle linee melodiche, spesso banali ma prive d’appeal. Senza scendere nei particolari, voi quanto siete soddisfatti di quanto fatto fino a questo punto? Ed in generale quanto siete critici nei vostri confronti?

Siamo abbastanza soddisfatti del lavoro svolto, anche grazie alle tante persone che hanno apprezzato la nostra musica. Ovviamente, per quante persone ti apprezzano, ce ne sono tante altre che ti criticano. Noi SFYL incitiamo sempre il nostro pubblico ad esprimere si, apprezzamenti, ma soprattutto critiche, in quanto sono le critiche a farti crescere musicalmente e personalmente (ovviamente se le critiche fatte sono sensate e non campate in aria).

Avete scelto di utilizzare la lingua inglese, guadagnando certo in musicalità ma, inevitabilmente, ponendovi dei paletti circa il pubblico raggiungibile dai vostri testi. Per non parlare delle difficoltà di pronuncia (avete mai pensato a come possa suonare il vostro cantato in inglese se ascoltato da un madrelingua?). La vostra è una decisione ponderata e valutata con cura o frutto di una naturale e personale inclinazione verso quella lingua?

La scelta dell’inglese è stata una scelta ovviamente pensata, anche se è avvenuta con molta naturalezza, in quanto le influenze musicali di tutti noi sono per lo più derivanti da artisti che cantano in lingua inglese. Sappiamo che è una sorta di catena, in quanto in Italia ovviamente la gran parte del pubblico ascolta musica in italiano, ma sappiamo anche che puntiamo al massimo, e puntando al massimo vogliamo che la nostra musica sia compresa dalla maggior parte della popolazione e per questo abbiamo adottato una lingua internazionale.

Quanta importanza date, per restare in tema, alla parte testuale, alle tematiche affrontate, ai contenuti e ai soggetti? Le vostre liriche sono per lo più autobiografiche, rivolte alla musicalità delle locuzioni o prevalentemente narrative?

Per lo più i nostri testi narrano storie di vita, autobiografiche o rivolte alla gente normale che combatte quotidianamente contro i problemi della vita, i quali possono essere l’amore come l’incomprensione. Certamente non mancano i testi socialmente impegnati come in “Too Much Bad News”, altro brano presente nel nostro lavoro (precisiamo che per questo brano abbiamo adottato una “licenzina poetichina” in quanto il titolo della canzone è grammaticalmente scorretto ma più musicale). 

Che differenza c’è nell’ascoltarvi dal vivo? Lavorate molto sul tipo di spettacolo da proporre o, per ora, vi limitate a suonare?

Noi tutti pensiamo che la vera musica, quella che trasmette veramente sentimenti, sia quella suonata dal vivo. Pensiamo che sentire un nostro live sia completamente diverso dall’ascoltare i nostri lavori in studio, in quanto dal vivo tiriamo fuori tutto ciò che le nostre canzoni vogliono esprimere. Dopo tre anni passati sui palchi abbiamo imparato che un live deve essere quasi uno spettacolo e cerchiamo di preparare l’esecuzione dal vivo al meglio in tutti i particolari.

Oggi più che mai sono sempre più le band interessate a farsi largo nel mondo indipendente. Gli strumenti sono importanti e quindi Social Network, live, passaparola, merchandising e quant’altro. Suonare non basta insomma. Come vi state muovendo in tal senso e cosa fate di diverso dagli altri?

Beh, a livello di social, come tutte le band abbiamo una pagina facebook, un canale youtube e siamo iscritti su svariati siti internet di promozione e pubblicità. Di diverso possiamo dire di essere inseriti in un circuito che ha come obbiettivi quelli di promuovere, organizzare serate e produrre le band e gli artisti presenti nel circuito, la Fallen Interlude Movement. Pensiamo che la collaborazione e il supporto tra le band sia alla base di una buona riuscita di un progetto. Uniti si può fare.

Sotto l’aspetto stilistico, come descrivereste la vostra musica? Quali sono i vostri punti di riferimento e cosa avete di diverso da chi vi ha influenzato e da chi vi circonda?

Quando ci pongono la domanda “che genere suonate?” siamo soliti rispondere “non abbiamo un genere, suoniamo la nostra musica”. Ovviamente ognuno di noi ha influenze musicali diverse, che possono variare da band come i Red Hot Chili Peppers a band come i Foo Fighters, i Radiohead fino ad arrivare ai System of a Down. Di diverso abbiamo tutto, ascoltare per credere.

Che approccio avete con la musica? Siete dalla parte del pubblico (che agisce spesso senza fermarsi troppo ad ascoltare, spesso osannando mediocrità assolute) o della critica (che a volte guarda troppo alla qualità allontanandosi dai gusti della gente)?

Ogni volta che suoniamo cerchiamo sempre di guardare il lato critico dell’esibizione, cercando di capire quali sono i punti da affinare per andare sempre migliorandoci. Il nostro obiettivo è quello di far apprezzare la nostra musica non solo ai patiti del genere, ma a tutto il pubblico, nessuno escluso. Vogliamo creare noi i gusti alla gente.

Ultima domanda. Diventare famosi in Italia è quasi impossibile e chi ci riesce, non è quasi mai il migliore e chi lo merita davvero. Vivere di musica, della propria musica è altrettanto improbabile; e allora perché lo fate?

Innanzitutto lo facciamo per passione e per amore verso la musica. I nostri obiettivi sono chiari, puntiamo ad arrivare il più su possibile, senza pensare ai rischi e alle complicazioni che questa strada ha. Crederci è il primo passo per raggiungere un obiettivo, e noi ci crediamo. Il resto del compito lo farà la nostra musica. Grazie per l’intervista, speriamo che le risposte siano state esaustive! Be Sweet; S.F.Y.L.

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Fedora Saura

Written by Interviste

I Fedora Saura si agitano nel loro cabaret folle in La Via della Salute, secondo disco della formazione svizzera capitanata da Marko Miladinovic. Scambiamo proprio con lui qualche parola sul disco, sulla band e sull’immaginario d’altri tempi e insieme estremamente attuale che s’infonde dalle parole e dai suoni delle loro canzoni.

Ciao Marko. Iniziamo questa storia come tutte le storie che contano: con una genesi, un prologo. Come nasce il progetto Fedora Saura? Com’è arrivato al secondo disco, e attraverso quali peripezie?

La nostra storia conta dici, grazie! Ma il problema è proprio nella storia: non insegna chi ne fu privato. Giacché noi si nasce con la storia e si muore con le biografie. E bé, si creda o no al destino, tutt’al contrario è! Quell’attestato fa da biografia. E dagli esordi universali, come il filo d’erba che m’è rimasto sotto la scarpa… bisogna certificarlo! Almeno in Svizzera… e appunto qui svizzerai… zz… zz… e inizia Fedora Saura, in amicizia… In vacanza a Siena… la vidi storna e grigia che non prendeva posto… Di una donna ci si innamora anche soltanto del nome. Figuratevi una cavalla! Zeno Gabaglio e Luca Viviani della Pulver und Asche Records sono stati di grande aiuto e tuttora lo sono. Anche Simone Bernardoni (The Pussywarmers & Réka), da cui abbiamo registrato è stata una preziosissima conoscenza e pure lui rimane. Poi Marco Guglielmetti (produttore di Ex Europa Samba I II III) e oggi e domani chitarrista. Prima Giovanni Cantani, produttore del primo disco “Muscoli in Musica / Scelta degli Uguali” e poi bassista. E prima ancora Zeno Maspoli, compagno di nove anni di scuola e batterista con il quale conobbi i sopraccitatati e molto più. Ciò che è buono trova sempre una fuga, una via d’uscita, come d’altronde ciò che è cattivo… ma il primo ci mette un po’ di più, perché ne cerca molte. E poi rimane il fatto che nessuno di noi può vivere senza superare se stesso, e se vive, non vive che per il suo scopo. E così arrivano i secondi dischi, i terzi, i concerti, le amicizie… l’arte tutta e le peripezie pure. Permettetemi una vanità che dico a nome di tutti quanti ho citato: per noi i salti mortali sono semplici capriole.

Che cos’è “La Via della Salute”? Dove porta, ma soprattutto, perché?

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Conduce al giorno in cui nessuno dirà al tempo che deve vergognarsi perché è brutto e cattivo, ma avrà scoperto, dopo che il tempo gli avrà dato dell’imbecille, che è proprio lui stesso, l’uomo, ad avere più umori del tempo e non doversene preoccupare affatto. Alla vita ci pensa già troppo la morte, non guastiamola con le preoccupazioni.

Anti-cristianesimo, anti-capitalismo. Ma con un afflato poetico che ricorda il futurismo, le avanguardie novecentesche. Che bandiera sventola sopra le vostre teste? Sempre che ne sventoli una…

Ci vuol tanto esercizio per solo un po’ di poesia! Per questo ci vogliono molti poeti! Di bandiere e bandierine ne facciamo stracci per ripulire la cucina… scusate l’arroganza… Al più possono servire per fare imparare le forme e i colori a un bambino, ma piuttosto egli preferirà impararle sulla vesti di una sconosciuta… o sui tatuaggi di una che s’è spogliata… Sulle nostre teste non sventolano bandiere, soltanto i nostri capelli… e valgono più di qualsiasi bandiera: belli, biondi, grigi, bruni e pece. A noi importa ogni sfumatura, ma non si possono scegliere né tantomeno ordinare. Qualche volta fa il vento…  scompiglia le mèches! A chi compra una bandiera, Fedora Saura consiglia anche l’asta di ferro al quale sarà issata, perché un fulmine non la manchi.

Parole che scorrono come battute d’una commedia dell’assurdo, scambi, botte e risposte, declamazioni, giochi di parole. Quanto teatro c’è in La Via della Salute? Quanto teatro c’è nei Fedora Saura?

Esclusi i giochi di parole… Esattamente quanto hai detto tu, e ancora troppo poco. C’è di quel teatro che quando fu, fu impossibile… tanto vale e valeva fare il possibile! Ciò può bastare per sentirsi degli infermi, ma ogni infermo vi grida “Fate l’impossibile!”. E questo è il teatro… non un pubblico di infermi… ma questa cosa che tocchiamo e cade, riprendiamo in mano e non ci riesce schiudere il pugno per vederla.

Che Europa ha in mente Fedora Saura?

Una Europa dove i preti sono tutti neri, sudamericani, australiani, americani o indiani e fanno loro le pubblicità in televisione, nelle piazze, sui giornali e i banner su internet. Dove la vergogna è bel che scappata per la goccia che ha fatto traboccare il vasino e chi rimane ne è imbarazzato. Non c’è colpa, ma sì qualche buon torto! Dove si preferisce essere traditi piuttosto che vivere col torcicollo e una coda che spunta dagli occhi (quale non rovina la vista, ma annebbia tutto il campo visivo). È finita la miseria del mondo preceduta dalla misericordia. Resta tuttavia la povertà… di dire ciò che si pensa e pensare ciò che si dice. Credere rimane una demenza e un lusso. Il dolore è caro e privato a ognuno, parla molto, fa tanto, e non riscuote con la sofferenza, perché ella per tanto soffrire non ha retto, così anche il coniuge si è lasciato morire: la compassione. Dove se mi taglio il dito, mi spezzo l’osso o mi lasciano la donna e il cane, non fa meno male perché un altro se l’è tagliato o l’ha spezzato, ha trovato la donna e investito il cane. Insomma, dove nessuno è consolato dal dolore altrui perché non c’è proprio consolazione. Poliglotta è la lingua, non la mano… neppure serve viaggiare molto, ci si allontana anche solo di qualche passo. Così mi sono allontanato dall’idealismo, per vedere questa Europa! Questo mio sogno… Mi sono reso conto che l’idealismo rimane un cerottino sul corpo dell’utopia. Ma tolto quello, non ho visto nessuna ferita.

Come definiresti la vostra musica, così scarna, viscerale, festiva, e allo stesso tempo caotica, inquietante? Se la vostra musica fosse una rivoluzione, che rivoluzione sarebbe?

Tu l’hai definita benissimo. Aggiungo solo l’etichetta: musica contemporanea europea. Non so se può essere una rivoluzione, almeno… quelle falliscono e lo sanno tutti. Ma non tutti sanno che le rivoluzioni devono fallire… perciò bisogna farle! Anzi, una rivoluzione sì! Quella che ha da venire… CONTINENTALE! Che possa fallire meglio di tutte!

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Quanto conta il fatto di essere svizzeri? Una semplice implicazione geografica, o c’è qualcosa di più?

Conta poco e costa molto. Siamo minori e da questo stato di minorità vogliamo conquistare l’Italia. Non è la nostra storia ma sì è la lingua in cui sogniamo, pensiamo, leggiamo, chiacchieriamo e scriviamo. Cosa può fare una sovranità contro la lingua? Ci mette la polizia, le tasse e poco più. Noi, con la nostra opera, vogliamo (ri)annettere culturalmente il Ticino all’Italia. Dopodiché l’Europa.

Nei crediti del disco segnate il 2014 d.C. anche come 126 d.N. Ci puoi spiegare cosa significa?

La prima lo sai… il calendario di papa Gregorio XIII,… nel quale si nasce male e si vive peggio per poi morire pessimamente, ma con ottimismo! La seconda rientra invece in ciò che ho riconosciuto come calendario laico: dopo Nietzsche. Lo segna in chiusura al suo Anticristo, il 30 settembre 1888, in cui cade il primo giorno del calendario. Per accedere a questo cronologia, basta soltanto rifarsi il vocabolario, ed è un bell’andare di corpo! Io ti chiedo invece: Cristo ha avuto il cristianesimo, perché mai a Sade e Masoch son toccati il sadismo e il masochismo? Poveretti!

In molte recensioni del vostro disco ho colto un riferimento al passato, a tempi diversi, per certi versi più complicati – o per lo meno, tempi in cui la complessità era più affascinante e più accettabile di oggi, nel bene e nel male. Quanto vi sentite “complessi”? Vi sentite fuori tempo, di un’altra epoca? E nel caso, di quale?

Tornassimo alle epoche passate, potremmo sembrare dei santarellini… vista la morale con cui siamo stati. Non vorremmo fare figuracce con ‘sti viaggi nel tempo! È dal nostro presente che cerchiamo il confronto con quanto di bello e grande fu, e neppure troppo tempo fa. Allora si può essere contemporanei alla scoperta del fuoco, a Epicuro, alla bomba nucleare e grazie al razzo alle invenzioni, gli accordi e a tutti gli altri che in vita dissero “io”. Lo diremo nel prossimo disco che cos’è l’io… ma giacché di già lo suoniamo in concerto con “Canta la bambina”, è bene dirlo subito: “io = nana microcefala anoressica con invisibile areola priva di capezzolo su mammella iperbolica”. Così… giusto per ricordarselo la prossima volta che si inizia una frase. Intanto auguro a chiunque di dire io soltanto se richiesto, dalla polizia, dai preti, dalle amanti, dalle madri, sorelle e in quest’ordine. Dopodiché… a che servirebbe il complicato se lo si semplificasse? E poi la semplicità non è meno complicata: vedi esempio 2. Questo invece il primo: “Nella vita altro dalle cose complicate non c’è, fuori dalla vita altro non c’è”. Questo è semplice no? La vita invece è complessa. Senza origine né risultato. Una volta e per infinite: l’esistenza rimane senza scopo. Ma molta passione!

Ho letto spesso accostati al vostro i nomi di Gaber, dei CCCP… altre influenze meno ovvie ma che potrebbero gettare luce sulla vostra opera? Se i Fedora Saura fossero uno scrittore o un poeta, chi sarebbero? E se fossero un pittore, uno scultore?

Il gioco delle mazzette! Questa domanda l’ho lasciata per ultima, perché mi è proprio difficile. Mi va di dire questo: c’è una pesante scultura a Mendrisio (Ticino), si chiama Alpha (1972), di André Ramseyer. Qualche anno fa, come dice l’Archivio e vedevano i miei occhi, stava nel “Bâtiment de la Poste”. Dopo il rinnovo della stazione l’hanno spostata e messa tra la ringhiera delle scale per accedere ai binari e i parcheggi dei motorini, costretta da entrambi i lati. Si sono impegnati molto quelli del comune e pensato niente. Per rispondere alla tua domanda: nel momento in cui Fedora Saura non saprà diventare altro da ciò che è, in quello stesso istante prenderebbe corpo in quella scultura di granito.

Prossimi passi? Progetti per un nuovo disco, magari qualche data italiana?

Oltre al mecenate, tre coriste nere, un’orchestra e un bombarolo, cerchiamo pure una booking italiana. Si facciano avanti pertanto… e daremo loro quanto di meglio hanno visto e sentito! Intanto, per il quanto di meglio, si cerca invano di chiudere una data tra Veneto e Friuli Venezia Giulia (per l’11 ottobre). Poi risaliremo la Costa Adriatica per toccare la Slovenia (al KUD di Ljubljana il 12 ottobre), Croazia con Rijeka (13 ottobre) e Split, dove suoneremo il 15 ottobre per la Adria Art Annal. Partiremo dopo le date in Ticino del 2 ottobre allo Studio Foce di Lugano per l’Associazione Oggimusica e il Conservatorio della Svizzera italiana, il 3 ottobre a La Fabbrica di Losone per il Performa Festival e il 9 ottobre a Chiasso per il Gwenstival – Festival di musica e radiofonia. Ci sarà certamente un disco ma “Prima va suonato questo!” ci dice l’etichetta…

Grazie Marko per la disponibilità. Alla prossima!

Vi auguro ozio e felicità! E qualche miliardo perché no! A ridarlo bastano gli interessi! A presto sentirci!

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I Giorni dell’Assenzio

Written by Interviste

Intervista a Mattia De Iure, voce e chitarra de I Giorni dell’Assenzio, Power trio abruzzese che si sta facendo spazio nel grande mondo della musica Indie italiana. Un ringraziamento speciale a Mattia e a tutto lo staff della Ridens Records per la disponibilità e la collaborazione.

Partiamo con una domanda inerente il titolo del vostro primo cd: ma la solitudine è davvero così immacolata?
La prima domanda è sempre la più difficile… Comunque risponderei sì, perché volevamo dare appunto l’idea di questa solitudine “immacolata”, nel senso che non è stata violata, che è pura da un certo punto di vista, la più profonda che ci sia; inoltre c’è anche l’assonanza con l’Immacolata Concezione che è un tema che ricorre, come quello della sacralità, della ricerca del divino, che è ricorrente anche nel disco; un po’ velato, ma c’è… Inoltre era anche il filo conduttore di tutti i pezzi per cui ci è venuto spontaneo intitolare così il nostro primo disco. Che poi è una cosa che mi è sempre suonata in testa, anche dalla canzone “Immacolata”, il singolo, in cui volevo raccontare questa storia di profonda solitudine tramite l’amore, che è la cosa più pura che ci sia.

A chi vi ispirate per scrivere i vostri brani?
Tendenzialmente la nostra ispirazione general un po’ come sound, un po’ anche come scrittura volendo, è un po’ una mediazione tra i gruppi cosiddetti Power trio della scena anni novanta tipo Nirvana ma anche più moderni tipo Placebo, Muse; essendo poi noi italiani ci piace menzionare anche tutti i gruppi della scena indipendente nostrana tipo Teatro degli Orrori, Ministri, Gazebo Penguins e soprattutto Verdena, di cui siamo tutti e tre super fans. E’ quindi una mediazione fra tutte le cose che ci piacciono, che alla fine sono anche un po’ diverse e cerchiamo di tirarne fuori il meglio.

Quindi nel gruppo i gusti sono gli stessi?
C’è il fondo, lo zoccolo comune che è quello che ti ho appena detto, ma poi in realtà tutti ascoltiamo tantissime altre cose, il batterista spazia dal Metal all’Elettronica, la bassista dal Reggae al Dub e io più o meno la stessa cosa.

Domanda provocatoria (riferito a un verso di “Immacolata Solitudine”): ma le borse finanziarie sono davvero morte o c’è speranza per la nostra economia?
Per la nostra economia non credo che ci sia speranza; ho voluto mettere proprio le borse finanziarie perchè secondo me sono l’emblema della decadenza della società; la finanziarizzazione dei mercati secondo me è stata la cosa più stupida che l’uomo abbia mai fatto (ma questo è un mio commento personale).

Le canzoni si dice che siano come figli… voi avete il vostro prediletto?
Non in particolare; diciamo che ci piace tutto il disco; io personalmente sono legato particolarmente a una canzone che è “Rivoluzione”, che la sento un po’ di più anche quando la suoniamo live.

Il Power trio è una formazione abbastanza insolita in Italia… Non vi sentite penalizzati nei live a non avere per esempio un altro chitarrista con voi sul palco (è chiaro che magari sul disco si possono fare anche sovraincisioni, ma live no…)?
Secondo me la cosa che ci è piaciuta di più da quando è iniziato il progetto è stata proprio questa, sperimentare mentre si suona in tre, poi su disco è ovvio che ci sono più chitarre ed arrangiamenti diversi; ci piace molto giocare sugli arrangiamenti nei live che sono tutt’altra cosa pur mantenendo la stessa base sonora.

La dimensione live vi appartiene… ma in studio il disco suona davvero bene… ha degli arrangiamenti davvero ben curati… Voi dove vi vedete meglio sul palco o in studio?
Innanzitutto grazie del complimento! Sinceramente ci vediamo meglio sul palco; fare dischi è bellissimo perché vedi la dimensione finale delle canzoni, forse è pure un po’ più complicato, ma devi solo entrare un attimo nell’ottica, perché è difficile da fare subito ma per fortuna ci hanno aiutato molto i ragazzi dell’etichetta (la Ridens Records), soprattutto il produttore Paolo Paolucci.

In “Radioattività” la voce principale è quella di Tania… Nel futuro potrebbe esserci anche più spazio per lei alla voce? Per quanto mi riguarda ha superato a pieni voti la prova…Tu che dici?
Sì decisamente… Tra l’altro quel testo l’ha scritto anche lei; quindi se lei deve cantare un pezzo è meglio che canti le sue cose perché sono più sentite.

Avete aperto per gruppi importanti quali Meganoidi e Lo Stato Sociale (per menzionarne alcuni)… cosa pensate della musica indie in Italia?
Abbiamo fatto tantissime aperture e con alcuni gruppi si è creato anche un rapporto umano (mi viene da aggiungere a quelli menzionati almeno Gazebo Penguins, Tre Allegri  Ragazzi Morti e Teatro degli Orrori); la cosa che più mi piace dell’Indie italiano è proprio che con la maggior parte di loro riesci anche a legare.

Nel disco ci sono anche ospiti quali Ivo Bucci dei Voina Hen, Luca Di Bucchianico del Management del Dolore Post Operatorio, Monica Ferrante dei Mom Blaster (altro gruppo prodotto da Ridens Records). Come sono nate queste collaborazioni?
Sono tutti amici nostri che conoscevamo anche al di fuori dell’ambito musicale; inoltre volevamo fare un disco che coinvolgesse un po’ tutta la scena locale anche perché suonando da un paio di anni nella scena frentana ci è sembrata una cosa naturale che collaborassero anche loro.

Dove vi vedete fra dieci anni?
Spero a suonare il più possibile.

Sempre con la stessa formazione, con tanti dischi e tanti live alle spalle?
Sicuramente! La stessa formazione? Beh, la base spero rimanga sempre quella ma non escludo l’aggiunta di qualche elemento in futuro… Dipenderà da quello che scriveremo…

Progetti in cantiere?
In primis il secondo singolo , che dovrà tra l’altro uscire fra poco, poi un secondo disco in studio (siamo già in fase di scrittura io e gli altri) ed infine stiamo cercando di continuare a preparare e, perché no, a migliorare i nostri live perché è una cosa a cui teniamo molto.

Qualche data importante?
Sì, abbiamo suonato di recente a Parma il 31 luglio, ma il calendario è sempre in continua evoluzione per cui seguiteci sul nostro sito ufficiale e sulla nostra pagina Facebook!

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Witches of Doom

Written by Interviste

I Witches of Doom non hanno perso tempo per mettersi in mostra. Nati in poco tempo e subito al lavoro sul loro disco d’esordio, Obey, Federico e soci, senza esitare, si sono messi all’opera, insieme all’ etichetta americana Sliptrick Records, per la promozione del loro album. Ai microfoni c’è Federico Venditti che ci spiega velocemente quale è stato il processo di formazione del gruppo.

Come e quando è nata la band?

I WOD sono nati a gennaio 2013, quando al nucleo iniziale formato da me alla chitarra, Jacopo al basso e Andrea si è aggiunto Danilo alla voce. Da quel momento in poi abbiamo bruciato le tappe. Dal momento che in un tempo relativamente breve siamo passati dalla sala prove ai live, per finire in sala d’incisione per registrare il nostro debutto. Ad inizio 2014 si è unito Graziano alle tastiere spostando la nostra musica ancora di più su lidi Goth Dark anni 80. L’idea di formare la band è partita da me, dopo che avevo concluso nel peggiore dei modi la mia precedente esperienza con il mio vecchio gruppo Ossimoro. Per fortuna in questa band ho trovato oltre che degli ottimi musicisti, anche delle belle persone con cui lavorare.

Quali sono le band che hanno influenzato i Witches of Doom?

Tutti noi veniamo da background musicali diversi,ma alla fine su tanti gruppi ci troviamo in sintonia. Danilo viene da un gruppo Crossover. Jacopo suonava in una band Black Metal. Andrea suona tuttora con una band Hip Hop, Rap ed infine Graziano ha suonato con una band psichedelica anni 70; io ho suonato la chitarra per anni in un gruppo Grunge Stoner. L’impronta che abbiamo voluto dare a questa band è quella di avere un suono scuro che richiami lo Stoner, il Doom e il Goth, ma in generale tutta la buona musica che abbiamo assimilato in anni di ascolti. Il prossimo disco sarà ancora di più multiforme nello stile, insomma ci saranno delle interessanti sorprese.

Obey è il vostro nuovo disco; a cosa vi siete inspirati per comporlo? Chi si occupa dei testi e generalmente su cosa sono centrati?

Obey è il nostro esordio, come detto prima; è da poco che suoniamo e da subito abbiamo deciso di saltare il discorso demo e di passare alla composizione di un disco vero e proprio. Per quanto riguarda i testi dovrebbe rispondere Danilo, siccome se ne occupa solo lui, ma posso dirti che i temi toccati vanno dall’amore tormentato all’abuso di sostanze varie, per finire con problemi esistenziali.

Come e dove si sono svolte le fasi di mixaggio e registrazione di Obey?

L’album è stato registrato e mixato agli Hombre Lobo studios di Fabio Recchia a Roma tra inizio novembre e marzo di quest’anno e il risultato è stato molto soddisfacente, anche per l’abilità di Fabio di darci utili consigli sugli arrangiamenti dei pezzi. Insomma siamo entrati in studio con un sound, e ne siamo usciti con un altro più moderno e fruibile se vogliamo. Il lavoro ha subito dei rallentamenti sotto le feste di Natale, ma nel complesso non ci sono stati grandi intoppi nella lavorazione.

Per quanto riguarda le  case discografiche cosa ci dici, siete con qualcuno attualmente o in cerca?

Noi abbiamo firmato con l’americana Sliptrick Records che si sta occupando anche della promozione del disco. In generale posso dirti che ormai il mercato discografico è morto, almeno come lo intendevamo fino a poco tempo fa. Basti pensare che bastano poche centinaia di copie per andare in classifica su Billboard in USA. probabilmente stiamo vivendo un periodo di trasformazione dove i risultati li potremo vedere solo tra anni.

Come vi state muovendo per la promozione di Obey?

Come dicevo pima se ne occupa la nostra etichetta,ma anche noi ci stiamo dando da fare in modo da far girare il nome del gruppo il più possibile attraverso radio,webzine e magazine. A breve uscirà il nostro primo video del pezzo “Rotten to the Core” che sarà un’arma in più anche per passare in tv, poi il nostro sito ufficiale, dove trovare il nostro merchandise e tutte le notizie riguardanti tour ecc. In autunno puntiamo a suonare a nord Italia e fare qualche data di supporto a qualcuno in Sardegna dove abbiamo preso contatti. Insomma ci sono molte cose che bollono in pentola in casa WOD.

Come è stato accolto il disco dalla critica e come dal pubblico?

Guarda; fino ad ora in maniera ottima; tutte le recensioni sono eccezionali e convengono sul fatto che il disco è ben suonato e con delle belle idee. Questo trattamento non lo riceviamo solo in Italia, ma anche all’estero. Speriamo continui così! Il pubblico poi si dimostra entusiasta ad ogni nostro live, qualcuno si fa avanti chiedendo informazioni sulla band e quando risuoneremo live.

Per quanto riguarda i live cosa ci dici, dove suoneranno prossimamente i Witches of Doom?

Al momento siamo fermi perché ad agosto non saremo tutti qui per via delle ferie. Comunque ci stiamo organizzando per tornare sui palchi a settembre con live assortiti soprattutto fuori Roma. Siccome al momento siamo in pausa live, ne stiamo approfittando per buttare giù nuove idee per il prossimo disco che comunque non vedrà la luce prima della fine del 2015 e la direzione intrapresa sarà una bella sorpresa; senza però stravolgere il nostro sound.

C’è un festival in cui più di tutti vi piacerebbe partecipare?

Questa è una domanda difficile, perché ce ne sono così tanti; ma per quanto mi riguarda mi piacerebbe essere parte del bill dell’Hell Fest in Francia oppure del Rock in Sweden, due festival organizzati benissimo con una grande partecipazione di pubblico e con nomi altisonanti in scaletta; per ora è solo un sogno ma mai dire mai!

Bene Federico, l’intervista si conclude qui, lascia pure un messaggio di chiusura…

Ringrazio tutti i lettori della vostra webzine e li invito a seguirci sulla nostra pagina facebook per live e news sui Witches of Doom….doom or be doomed!

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Gluts

Written by Interviste

Ciao ragazzi e benvenuti su Rockambula. Cominciamo a raccontare la storia dei Gluts. Come e quando sono nati?

I Gluts sono nati a fine 2010. Dopo vari cambi di formazione e soprattutto di sonorità la svolta vera c’è stata sicuramente a settembre 2012 con l’ingresso di Claudia al basso. Con lei abbiamo finalmente trovato la strada giusta per quello che poi è oggi il suono dei Gluts  e il suono di Warsaw.

Da quali band sono influenzati i Gluts?

Credo che principalmente siamo una band Punk. Anche e soprattutto per la forte attitudine DIY in cui crediamo davvero molto e che ad oggi ci ha dato sempre grandi soddisfazioni. Se parliamo di influenze sonore, sarà banale e scontato dirlo ma sicuramente il suono dei Joy Division e il “wall of sound” degli A Place to Bury Strangers ci hanno influenzato parecchio.

Warsaw è il vostro nuovo disco; a cosa vi siete inspirati per la sua composizione e di cosa trattano i testi?

Credo non ci sia stata una vera e propria ispirazione a livello compositivo. Non ci siamo mai seduti attorno ad un tavolo per decidere cosa volevamo da questo disco o cosa potesse piacere alla gente. Oltretutto non abbiamo MAI avuto un approccio cantautorale alla composizione delle tracce. È molto difficile che qualcuno di noi arrivi con una canzone “preconfezionata”. Tutto quello che sono i brani di Warsaw nasce da pura improvvisazione in sala prove; senza regole, senza schemi o preconcetti. Attacchiamo gli ampli, ci registriamo e vediamo cosa viene fuori. Le idee buone diventano poi canzoni..le altre..vengono scartate. Per quanto riguarda i testi, sarò breve: trattano di tutto quello che ci circonda; la vita, le ingiustizie della vita quello che ci piace o quello che ci fa incazzare. Alcuni testi hanno anche tematiche forti, vero, ma voglio a nome di tutta la band sfatare il mito che i Gluts “siano una band impegnata”. Non è una cosa che ci è mai interessata e non ne saremmo nemmeno in grado. Preferiamo lasciarlo fare ad altri.

Che tipo di lavoro avete svolto per le fasi di mixaggio e registrazione e dove è avvenuto il tutto?

Registrare il disco è stato davvero una figata. Principalmente perché abbiamo lavorato con persone che conoscevamo già da tempo e che sono prima di tutto amici. Le registrazioni sono state fatte vicino a Domodossola nello studio di Francesco Vanni e Davide Galli (ex Piatcions) insieme a James Aparacio, produttore inglese che ha lavorato con band enormi come Liars o Spiritualized (tra le altre). Diciamo che lavorare per la prima volta con qualcuno che conosceva davvero bene a livello di sonorità quello che stavamo cercando è stato molto bello e gratificante. Le fasi di mixaggio poi sono state fatte direttamente da James nel suo studio di Londra; poco da aggiungere, il tocco inglese si sente, noi siamo estremamente soddisfatti ed il disco suona da paura. Era proprio quello che volevamo, un suono internazionale.

A cosa aspirano i Gluts?

(Ride ndr); le aspirazioni! Diciamo che aspiriamo a fare musica che soddisfi ed esalti prima di tutto noi stessi. Quest’anno ci siamo già tolti delle belle soddisfazioni (il MiAmi, A Night Like This Festival ed altri due festival che faremo a breve) e ne siamo felici. Suonare il più possibile, nel limite degli impegni lavorativi di ognuno di noi, è sicuramente l’aspirazione più grande. Riuscire a portare Warsaw al di fuori del nord Italia e anche all’estero sarebbe figo e ci stiamo infatti muovendo per far si che succeda. Non abbiamo più, purtroppo, vent’anni e quindi ovviamente ci sono anche altre priorità. La musica però è la nostra passione, da sempre. Non siamo dei professionisti ma lo facciamo nel modo più professionale possibile e quindi pretendiamo professionalità e serietà.

Dei vostri live cosa ci dite, è difficile trovare un posto dove suonare ed organizzarsi? Nella vostra città come siete messi?

Credo che la dimensione LIVE sia proprio quella dove si possa apprezzare di più chi siamo veramente. Dico questo perché è capitato spesso che amici o anche persone che non conoscevamo dopo un nostro concerto venissero a farci i complimenti per la rabbia e la passione che ci mettiamo. Sul palco  diamo davvero TUTTO e questo chi viene a sentirci credo lo apprezzi molto. Per quanto riguarda l’organizzarsi, ad oggi non sapremmo darti una risposta certa perché stiamo appunto cercando di organizzare un mini tour promozionale di Warsaw in giro per l’Italia per il prossimo inverno e vedremo come andrà. A sensazione comunque penso che ci sia dell’interesse ancora vivo per la musica LIVE e soprattutto gente che abbia voglia di sbattersi e organizzare concerti come si deve. Su Milano, mi permetto di citare mio fratello Marco: “Milano è una bella città, ma un posto del cazzo se si parla di musica” (ride ndr).

Parlando di concerti: dove suonerete nei prossimi giorni?

Abbiamo ancora due date confermati per l’estate e una già confermata per fine settembre. Saremo sabato 9 agosto a Piateda (SO) al Rock And Rodes mentre martedì 12 agosto saremo a Fara Vicentina (VI) all’Anguriara Fest. Siamo molto esaltati di partecipare a questi due festival perché quando siamo stati contattati dagli organizzatori abbiamo subito avuto la sensazione di parlare con persone che ci mettono una passione enorme e credono tantissimo in quello che fanno. Questo è davvero molto importante per noi e quindi non vediamo davvero l’ora. Per fine settembre invece siamo molto contenti di aprire la stagione di un locale storico della nostra zona come il Circolone di Legnano in compagnia di Maria Antonietta. Precisamente venerdì 26 settembre.

Come è stato accolto Warsaw dalla critica?

Direi che tutto sommato fino ad oggi non ci possiamo lamentare. Un risultato fin qui positivo. Come spesso succede un mix di mega esaltazione e disfattismo totale dove la verità sta sempre nel mezzo. Permettimi di dire che secondo me chiunque ascolti Warsaw in maniera oggettiva e senza preconcetti o cazzate attorno di nessun genere non possa dire di trovarsi davanti ad un disco BRUTTO o prodotto MALE. Poi ovviamente, come tutto, può piacere o non piacere per le più svariate ragioni. Dal canto nostro ci abbiamo investito davvero tanto tempo, tanti soldi e tanti sacrifici quindi ci crediamo moltissimo.

Siete già a lavoro per qualche altro disco o in generale materiale inedito?

Abbiamo iniziato da poco a lavorare su qualche nuova traccia ma è tutto ancora in fase embrionale. L’idea è quella comunque di non stare mai fermi e quindi in tempi relativamente brevi riuscire a buttare fuori un Ep oppure perché no un secondo LP (ride ndr).

Bene ragazzi, l’ intervista si chiude qui, concludete come meglio credete…

Buon natale e… mi raccomando!

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