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Bea Sanjust – Larosa

Written by Recensioni

Ci sono incontri che ti cambiano la vita. A Bea Sanjust questo tipo di incontro capitò nel 2004 quando conobbe Tom Cowan, chitarrista inglese col quale l’artista romana volò a Brighton entrando a far parte del Willkommen Collective, un’alleanza musicale tra una dozzina di elementi poi cresciuti nel tempo il cui nome si ispira a Will Calderbank, violoncellista e pianista presente in  buona parte dei progetti nati da questo collettivo (The Leisure Society il nome più famoso) tra i quali gli Shoreline (band con Cowan tra i suoi elementi) coi quali Bea iniziò a collaborare. Da quest’avventura una crescita, non solo artistica, che ha portato la Nostra, rientrata in Italia, a produrre con la collaborazione di Marco Fabi e Simone De Filippis, questo suo lavoro nel quale troviamo un nutrito gruppo di collaboratori di Brighton come di Roma, tra i quali Fabio Rondanini dei Calibro 35 solo per citare il nome più conosciuto.

Larosa, scritto nell’arco di 8 anni, pur guardando anzitutto al Folk britannico non manca di esalare vapori psichedelici come profumi retro’ tra trame musicali sempre ben costruite. La voce di Bea (che escludendo un breve passaggio in italiano canta sempre in inglese) è ineccepibile, non una sbavatura oltre che una capacità non comune di dimostrarsi calda e accogliente qualsiasi cosa esprima, molte sono le cantanti alle quali potremmo associarla ma più che farvi un inutile elenco credo sia opportuno dire che ci troviamo di fronte ad una delle migliori voci italiane che si possano trovare oggi in circolazione. Tra i momenti migliori del disco “Julia”, primo singolo estratto, il pezzo più Rock di questo esordio, dove ci si chiede quanto bene possiamo conoscere le persone che ci stanno accanto; l’essenzialità Folk delle delicate “Two Sisters”, “She Needs Me” e “The Eye”; la suggestiva “Marijuana” (che vede partecipare alcuni membri degli Shoreline), monito verso l’uso delle droghe, anche se leggere, che nella seconda parte diviene un inno d’amore per le cose semplici della vita. Ed ancora “Wildflowers”, forse il brano più triste ed introspettivo del lotto (qui a partecipare sono alcuni membri dei romani Canialga) capace di farci sentire scivolare sulla pelle sottili fili di pioggia accompagnati da un leggero soffio di vento come di farci portare lo sguardo lontano, verso nuovi e sereni orizzonti; la costruzione un po’ più complessa di “Honey Bye Bye” col suo umore variabile che porta sentori Ragtime Bluesy senza lasciarsi sfuggire una certa mediterraneità, ed infine la toccante “Kings”, rifacimento di un brano scritto da Tom Cowan tratto dal primo Ep degli Shoreline.

Disco intimo ma aperto e ricco di colori sfumati tra i quali spiccano il verde ed il celeste. Larosa è una raccolta di 11 brani che sono panni profumati stesi ad asciugare al sole ed al vento, brani non arditi ma che sanno essere eleganti riuscendo a risultare sinceri, brani scritti da una donna che, come canta in “The Eye”, ha voluto la sua mente libera, ed ascoltando questo lavoro, semplice ma significativo, pare riuscita nel suo intento.

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“Amore da oggi siamo poveri”, il nuovo singolo dei Borghese

Written by Novità

Il cantautore 2.0, divenuto vera e propria band col secondo album In Caso Di Pioggia La Rivoluzione Si Farà Al Coperto (TouchClay Records, 2015), torna con un nuovo singolo, uno dei brani più romantici del disco, “Amore da oggi siamo poveri”.

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #10.06.2016

Written by Playlist

Vinicio Capossela – Canzoni Della Cupa

Written by Recensioni

Canzoni Della Cupa è il decimo album in studio di Vinicio Capossela. Diviso in due parti per 28 brani e una durata di più di due ore, Canzoni Della Cupa è un atto d’amore e di testimonianza verso un tempo passato che ormai è fuori dal tempo, mitizzato nell’immagine brusca e insieme rasserenante di una società contadina, ruvida e sincera, in cui si vive e si canta della vita, e quindi dell’amore, carnale soprattutto, ma sempre giocoso, vinoso, anche quando è serio; della morte e delle creature della notte, degli spaventi nelle ombre dei fuochi e dei monti sotto la luna; dei campi, dei poveri, del sudore, del lavoro; dei primi treni, dei viaggiatori, delle verità scolpite nella pietra dei proverbi e della saggezza popolare.
Ineccepibile nella produzione e nella resa, il disco continua la parabola del mito, della rivisitazione della tradizione (o tradizioni) che Capossela sta portando avanti da Marinai, Profeti e Balene (con in mezzo Rebetiko Gymnastas) ma che è stata da sempre una sottotraccia di tutta la sua produzione, interessata fin dai primi dischi alla rielaborazione del popolare/tradizionale (ritmi sudamericani, armonie mediorientali, atmosfere mediterranee).

Questo disco è l’ideale proseguimento di quella parabola e insieme il suo compimento totalizzante e definitivo: il ritorno nella terra degli avi, l’archeologia sentimentale nei racconti e nelle leggende, nelle storie e nelle musiche che erano la colonna sonora di un affascinante tempo che fu, che qui vira seppia, come le foto, e diventa quasi un’età dell’oro, un mondo che, nei suoi dolori, suonava forse più diretto e vero, più libero, certo più povero e più stanco ma senza perdere la fame d’amore, di festa, di paura anche, quella un po’ superstiziosa che eccita e riunisce il gruppo intorno alle luci e ai canti dopo l’angoscia, il cuore affaticato e una spaventosa, fantastica storia da raccontare.
Non sorprende quindi scoprire che Canzoni Della Cupa fosse in cantiere da più di dieci anni: è una sempreverde voglia di mito a spingere Capossela verso la rielaborazione e la testimonianza per riportare al suo oggi delle tradizioni che, sotto la polvere e oltre l’ombra della memoria, appaiono estremamente vive, anche (e soprattutto) grazie alle sue doti di interprete e riscrittore eccelso, maestro del racconto, sciamano della voce e della parola.

La nota dolente, per i fan del cantautore, potrebbe però nascondersi qui attorno: scavando si trovano tesori, ma ci si ingobbisce; gli occhi si fanno miopi a guardare tanta terra smossa. Canzoni Della Cupa è un progetto ambizioso, pensato ed eseguito senza passi falsi o sbavature (non ci saremmo aspettati di meno); è un racconto mitico e preciso, immaginifico e appassionato, da godersi senza remore, scoprendo in ogni brano una storia affascinante, divertente, incredibilmente vicina. È perciò con una certa amara sorpresa che alla fine, quando rialzi gli occhi stanchi dalla terra e dai suoi tesori, ti accorgi di quanto sia ormai sfocato e nebbioso l’orizzonte: lontano più di quanto, forse, dovrebbe.

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Explosions In The Sky @ Circolo Magnolia, Segrate (MI) 31/05/2016 [PHOTO REPORT]

Written by Live Report

Il circolo Magnolia di Segrate (MI) ha ospitato martedì 31 Maggio sul suo palco esterno i texani Explosions in the Sky.
I ragazzi di Austin hanno pubblicato il 1° Aprile scorso la loro ultima fatica The Wilderness, disco che personalmente, per quanto ben suonato e per quanto al suo interno si trovino pregevoli trame, trovo un po’ piatto ma che eseguito dal vivo riesce a trovare maggiore visceralità (inevitabilmente considerando che on stage i ragazzi, come noto, non si risparmiano).

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I picchi emotivi più elevati sono comunque giunti coi brani più datati del repertorio del quintetto tra i quali “Greet Death”, “The Birth and Death of the Day”, “Your Hand in Mine” ed il travolgente finale di “The Only Moment We Were Alone”.
Insomma, anche questa volta le esplosioni, nel cielo e nel cuore, non sono mancate.

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Clowns From Other Space – Zeng

Written by Recensioni

Disco d’esordio dell’ensemble abruzzese, Zeng è un frullatone di Rock distorto e melodia, immerso fino alle ginocchia negli anni ’90 soprattutto inglesi, dove batterie lineari ma con personalità si accompagnano a un intreccio di chitarre sempre ragionato, mai sciatto. I pezzi sono gonfi di suoni: c’è in Zeng un’attenzione lodevole all’insieme compatto e pieno degli strumenti, ma questo non va a inficiare la resa melodica del disco, che è un disco di canzoni. I brani riescono a distinguersi, a rendersi riconoscibili pur in un contesto uniforme e coeso.

La voce di Cesare Di Flaviano, strascicata, sghemba, che sembra quasi stonare senza mai risultare fuori luogo, è un accompagnamento melodico perfetto. Lo scazzo generale è molto british, ma non disturba particolarmente, anzi: rende i brani piacevolmente equilibrati, li fa giocosi, sospesi come sono in quella terra di nessuno che non è Rock duro, non è Grunge, non è Brit-Pop, ma è un po’ tutto questo insieme.

Alcune scelte di composizione sono forse troppo facili: arrivano subito, questo è vero; rimangono nelle orecchie, ma sorge il dubbio che sia così perché già sentite altrove, già sperimentate tante (troppe?) volte. Piccolo neo anche per quanto riguarda i testi: un inglese non eccelso, che non convince al 100%. Interessante l’idea di dare al disco un’architettura strutturata, con la prima parte più diretta e la seconda più misterica, criptica; una distinzione che però non si percepisce molto nei fatti e che magari poteva essere maggiormente sottolineata.
I Clowns From Other Space hanno costruito un disco godibile nella sua interezza, che non fa magari innamorare perdutamente ma regala quei quaranta minuti (per nove tracce) di piede battente e testa oscillante. Forse osare di più aiuterebbe, ma la direzione presa è buona e il passo non è casuale, e si sente.


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Coucou, Sèlavy! – Nequaquam Voodoo Wake

Written by Recensioni

“Senza profilo da offrire alle galassie, ululavo alle costellazioni che indossavo a buon mercato…”

Artista romano che risponde allo pseudonimo di Coucou, Selavy!, l’autore di questo Nequaquam Voodoo Wake (terza opera, prodotta in trenta copie) è anche uno dei ricercatori vocali più importanti di tutta la penisola, uno dei pochi artisti ancora in grado di abbattere le esigenze del mercato; non semplicemente ignorarle ma farle letteralmente a pezzi e proporre qualcosa che si fa beffe di tutto il mainstream e lo pseudo alternative in circolazione, mostrandoci completamente a nudo la vera anima dell’arte, fatta di sperimentazione, libertà, necessità espressiva e compositiva. La sua opera è un’incredibile miscela di Post Punk (“Orfeo, Banfi, Lino-Lillà”), Neo Folk (“All This World”), Folk Apocalittico, Gothic (“Precipices”), Dark Cabaret (“Nequaquam”) il tutto impreziosito da una sensibilità, un’ironia ed uno stile unico, tanto da rendere praticamente impossibile e inutile il rimando ad alcun artista e musicista specifico e con al centro una vocalità straordinaria, poliedrica, capace di alternare scream, growl, canto classico e poi lingua italiana, inglese, francese e tanto altro. Prendete tutto questo e piazzatelo davanti ad un palcoscenico dall’incredibile gusto classico e barocco al tempo stesso ed eccovi una delle migliori opere uscite in Italia quest’anno, una delle cose potenzialmente più interessanti di tutto il globo che pecca solo nella qualità della registrazione e nell’idea di immediatezza che lascia scivolare con l’ascolto e che suona quasi come incompiutezza, non sappiamo quanto voluta viste le scarsissime informazioni a riguardo.

Come detto, è la voce di Coucou, Selavy! a mettersi al centro del palco ed è su questa che la nostra attenzione finisce per perdersi, alla ricerca di esperienze passate e future, di reminiscenze ottocentesche, di incursioni teatrali (“Incipit”), di spasmi avanguardistici, di sferzate ironiche e decadenti, demoniache e insane eppure godendo di capacità tecniche fuori dal comune e comunque lontane da quello cui siamo abituati (“L’Entropico Squallore”, “To the Center (of the Earth, of the Heart)”).

A chiudere la tracklist, l’incredibile ghost track, assurda reinterpretazione della nota “24000 Baci”, in una rilettura che confonde ogni nostra certezza e ci ricorda anche il passato dell’artista, già autore di tante cover di pezzi in assoluta contrapposizione agli originali. Non sappiamo cosa sarebbe potuto essere questo Nequaquam Voodoo Wake, non sappiamo perché un nome come quello del romano sia stato per tanto tempo nascosto ai più, non sappiamo se potremo godere anche in futuro delle sue qualità inumane e se un briciolo di notorietà in più saremo in grado di regalargli; quello che possiamo fare ora è mettere da parte ciò che non è o magari non sarà, dimenticare ogni illusione prospettica e godere dell’attimo presente in cui la sua musica ci scorre nelle vene.

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Recensioni | Giugno 2016

Written by Recensioni

Never Trust – The Line (Alternative Rock) 6,5/10
Energico Punk’n’Roll influenzato dai Paramore degli inizi e dalla melodia acida dei Guano Apes. Il timbro camaleontico di Elisa Galli conferisce ai brani una marcia in più. In “Turmoil” aleggia lo spettro dei Lacuna Coil, aprendo le porte ad influenze Gothic che hanno un senso compiuto nel contesto del brano. Peccato che le cartucce più spinte vengano sparate tutte nell’arco dei primi pezzi, ammorbidendo troppo il sound col passare dei minuti.

[ ascolta “A.I.M.B.” ]

Anadarko – Tropicalipto (Post Rock, Noise) 4/10
Gli Anadarko sono un trio di Trieste e propongono un Post Rock molto spigoloso, fatto da riff netti e decisi ripetuti in loop, vitalizzati ogni tanto da influenze Jazz. Quasi tutti i brani hanno lunghi momenti di ripetizione, ma risultano monotoni non avendo molte stratificazioni sonore e cambi di ritmo. Questo fa si che non si riesca mai a catturare l’ascoltatore e trasportarlo nel mondo raccontato. La ripetizione non genera ossessione, i suoni non ti lanciano nel cosmo o ti rinchiudono in un quadro post apocalittico. La sensazione e che ci si trovi davanti a brani figli di sessioni di improvvisazione piuttosto che a lavori rifiniti e cesellati da sofisticati incastri sonori. Le basi ci sono ma andrebbero esplorate e ampliate.

[ ascolta “Aterfobia” ]

Hoax Hoax – Shot Revolver (Post Rock, Noise) 4/10
L’ambizione di questo progetto è strettamente legata alla dimensione live, perchè è quella di creare un palcoscenico globale dove ciò che viene offerto per l’esperienza è al punto di incontro tra la musica degli Hoax Hoax, le video proiezioni e la luce. Nel loro Post Rock ci sono tanti sconfinamenti, come col Noise di “Huacos”, ma talvolta nettamente fuori contesto. Nel complesso quello che manca non è un senso logico ed organico, ma è un lavoro che senza il contesto multimediale non può essere apprezzato a pieno.

[ ascolta “Ablution” ]

Light Lead – Randomness (Dream Pop) 6/10
I bresciani Davide Panada, Beppe Mondini e, soprattutto, la voce di Michael Israeli confezionano questo Ep d’esordio dal sapore vagamente Beach House, anche nello stile vocale molto simile a quello di Victoria Legrand, ma con una maggiore semplicità e, purtroppo, decisamente meno talento. Eppure le cinque tracce di Randomness rapiscono già ai primi ascolti, grazie a suoni incastonati alla perfezione tra i vuoti delle corde vocali e a melodie eteree e rilassanti. Assolutamente da rivedere sulla lunga distanza, partendo dalla straordinaria opening “We Won’t Get Lost”.

[ ascolta “We Won’t Get Lost” ]

Rufus Party – Connections (Alternative Rock) 3/10
Gli emiliani Rufus Party gonfiano il proprio ego ri-presentandosi con un’opera che vuole essere una sorta di concept sul collegamento che intercorre tra gli uomini e la realtà attuale, sulla saldezza dei rapporti e delle relazioni che si instaurano tra i diversi attori che solcano il palco della vita. Una sorta di concept che però concept non è e che, dal punto di vista musicale, miscela Blues, Soul, Grunge in un miscuglio informe, banale, mal costruito e dal sound che oscilla tra inutilità e mediocrità. Cantato interamente in inglese, Connections è tutto quello di cui non avevamo bisogno, gradevole come una rassegna di band locali a costo zero alla sagra della birra di un paesino di provincia.

[ ascolta “Mothership Connections” ]

Mandela – Paint-sweating Hands (Alt Jazz) 7/10
Ottimo e purtroppo breve concentrato di Alt Jazz sinuoso e avvolgente come le spire di un grosso, lucido serpente. I cinque Mandela ci trasportano sul fondo di un oceano che si agita maestosamente e con placida grazia, tra il torrido di richiami esotici e il rarefatto di atmosfere nebbiose. Tastiere e synth mai fuori luogo, batterie che sanno venire in primo piano per poi arretrare, chitarre frizzanti e inserti di fiati che pennellano sapienti. Più cool di così si gela.
[ ascolta “Massive” ]

Weird Black – Hy Brazil (Psych Pop) 7/10
Italianissima formazione dedita a esperimenti lisergici ma senza prendersi troppo sul serio, che alla lezione Neo Psych dei C+C=Maxigross applica l’approccio scanzonato e Lo Fi di Mac DeMarco e una mollezza Folk da menestrelli d’altri tempi, elettrificata nei momenti opportuni, ad aprire parentesi sinistre (“In The Grave Of Lord”) oppure semplicemente a ricondurci nel presente, evitando abilmente di cadere in mere citazioni.
[ ascolta “Despite The Gloom” ]

Leave The Planet – Nowhere (Dream Pop, Synth Pop, Nu Gaze) 6,5/10
Duo londinese dalle origini italiche, i Leave the Planet sono Jack ai riverberi e Nathalie ai sussurri Shoegaze. Il Dream Pop del loro EP di esordio cavalca l’onda sintetica revivalista à la Slowdive, per sei gradevolissime tracce fatte di molti layer, soffici e giustapposti. L’assaggio stuzzica il palato, non resta che augurarsi che alla prova in full-length i due arrivino con qualche elemento in più a personalizzare la propria cifra stilistica.  
[ ascolta “Forever” ]

Femme – Debutante (Pop, Dance, EDM) 6,5/10
Un pixie cut rosa candy che campeggia sulla copertina del suo debut, ritmi easy da dancefloor sempre al limite del pacchiano e voce squillante e zuccherosa che ogni volta salva il tutto, specie quando si placa nelle ballad: è questa la formula di Femme, che si va a collocare nel folto esercito delle eroine del Pop danzereccio internazionale, per portarci una manciata di singoli appiccicosissimi, un’estetica accattivante e una buona dose di ironia.
[ ascolta “Light Me Up” ]

23 and Beyond the Infinite – Loath: Insane Mind Festival (Noise, Psych) 5,5/10
Quella della formazione beneventana è una psichedelia che deve molto alle origini del genere, chitarre distorte che si afflosciano narcotizzate, le liriche in inglese del cantato allucinato, esotismo quanto basta per catapultarsi nei mitologici 60’s. “From The Future to You” si sbilancia verso un Garage Rock oppiaceo ma è una promessa ingannevole: ci si gode il trip ma si resta insoddisfatti quando al termine dell’album appare chiaro che il viaggio è verso il passato, ed è di sola andata.
[ ascolta “From The Future to You” ]

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La violenza primitiva dei Ban-Off al Garbage Live Club

Written by Eventi

Giovanissima band teramana i Ban-Off nascono sul finire del 2013 miscelando sonorità Proto Punk con la violenza dell’Hardcore e le melodie del Post Punk e della New Wave . Dopo aver condiviso il palco con gruppi quali The Hussy, The Ar-Kaics, Wild Weekend, The Provincials, Plutonium Baby, Thee Rathskellers, Human Race, Wide Hips 69, A Minor Place, Two Guys One Cup, Zarr ed altri, saranno i protagonisti assoluti dell’ultima serata al coperto della stagione al Garbage Live Club (SABATO 4 GIUGNO ORE 22:30) di Pratola Peligna che, invece, aprirà la stagione degli eventi a “cielo aperto” sabato 11 giugno con i Coconuts Killer Band.

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5 artisti emergenti da tenere d’occhio

Written by Novità

Ci sentiamo tra qualche anno e scommettiamo che queste cinque band ne avranno fatta di strada?

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Cronauta – The Bullring

Written by Recensioni

Ci vuole una buona preparazione fisica e psicologica per far fronte all’onda anomala che da Finale Emilia travolgerà le vostre case, spazzerà via tutto, lasciando solo detriti. The Bullring è il primo disco edito dall’etichetta danese 5Feet Under Records per gli Hardcore heroes Cronauta ed è tranquillamente riassumibile come il suono della frantumazione. Nevrotici come i These Arms Are Snakes, inclassificabili come i Melvins, in Italia solo i Die Abete reggono il confronto per il livello eccessivo di pazzia espressa. “We Knew Well a Lip-Service Payment Would Have Followed the Statement” ed il singolo “Harangue” danno il via alle danze e subito la voce di Nicolò si scatena, senza dare respiro nemmeno per un secondo a uno sprazzo di melodia. C’è solo qualche spiraglio Experimental Jazz a intervallare l’incedere furioso, ma è davvero poca cosa. Così le parole incomprensibili ruggite fuori dall’ugola del cantante finiscono per fare da sfondo a un tappeto Mathcore tessuto dai tempi dispari della sezione ritmica. È però un qualcosa che metti in conto se ti avventuri in un ascolto simile. “Gentlemen’s Agreement” è un brano beffardo: in quattro minuti di canzone, uno di questi è dedicato a un intro rilassante che non lascia presagire a come sarà il seguito. Dobbiamo essere furbi noi ad essere impreparati, ma non troppo. “Mancuerda” ci regala la prima sorpresa con un giro di chitarra Noise inaspettato che molto deve a Duane Denison dei Jesus Lizard. Un assalto all’arma bianca che soddisfa un bisogno primordiale di smorzare i ritmi altamente schizzati dell’album. “Arizona Law in Northern Italy” mi ha ricordato tantissimo il sound degli Snapcase, soprattutto dal punto di vista vocale, anche se con i Cronauta nulla è circoscritto ed è lecito uscire dal recinto della prevedibilità. La chitarra di Niccolò cambia continuamente forma, passando dal caos a un riff quadrato e ragionato, trovando un riscontro perfetto nel resto dei compagni d’armi, impeccabili e facenti sfoggio di una padronanza strumentale eccelsa. The Bullring è un disco potente e prepotente, non adatto ai deboli di cuore e a chi vive la musica come una fonte di relax. Tutti gli altri non abbiano paura di dare una chance a questi camionisti, anche perché “87% of the Homicides Are Committed by Truck Drivers”.

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Il Video della Settimana || Alessia Ramusino- “I Had A Wood”

Written by Novità