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Flowers and Paraffin – Ricordati di santificare le feste

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Pubblicato il 27 Marzo, domenica di Pasqua, Ricordati di Santificare le Feste è il secondo lavoro dei Flowers and Paraffin, giovane band campana che due anni fa realizzò un breve Ep (5 pezzi in 12 minuti) che faceva ben sperare per questo seguito. I sei ragazzi provenienti dalle province di Salerno ed Avellino in questo nuovo lavoro, che si sviluppa in 7 pezzi che scorrono via in 19 minuti, non solo non hanno disatteso queste speranze ma sono riusciti a fare un buon passo avanti evolvendo il loro sound. Questo secondo capitolo porta infatti a maturazione la ricetta del buon esordio accompagnandola a soluzioni strumentali ora divenute più ricche soprattutto nei momenti in cui la band cerca soluzioni diverse (Post Rock, Math Rock, Shoegaze) che diventano ben più dei brevi inserti che si potevano trovare in Caduta e che suonate con la loro inclinazione Emo Post-Punk (senza dunque perdere in immediatezza) portano ad un buon guadagno in intensità. Non manca inoltre una crescita anche nelle liriche sempre basate sulla sublimazione di confusione, incertezze e paure della terra di mezzo dei ventenni nonché sull’immancabile ed altrettanto confuso argomento amore, che in questa seconda prova, nonostante qualche piccolo passaggio a vuoto, guadagnano comunque indiscutibilmente in spessore.
In quasi ogni brano della scaletta vedremo alternarsi momenti musicalmente soffusi ad altri ben più tirati ad accompagnare liriche ora espresse con uno spoken abbandonato a sé stesso ora urlate come per liberarsi da pesi troppo pesanti da portare per una sola schiena (come dichiarato nella conclusiva “Maledetta Gioventù”). Troveremo i momenti migliori nelle ben coese “Conta”, “Cosmo (Andrea)” e “Autoritratto”, brani dove l’incastro tra musica e parole risulterà pressoché perfetto, dove le chitarre ora carezzevoli ora graffianti pur facendo la parte del leone non ruberanno la scena a tutto il resto: una sezione ritmica sempre puntuale e pronta a pestare nei momenti più tirati, un synth che decora con precisione e senza risultare invasivo. In questi brani, che sono anche quelli dalle liriche più intense, troveremo gli incontri meglio riusciti tra l’innato animo Emo Punk della band e le deviazioni in altri territori di cui si parlava sopra e sarà sicuramente possibile sentirci una riuscita fusione, tra i tanti, di Marlene Kuntz, Fine Before You Came e Massimo Volume.

L’idea di terapia di gruppo tra amici segnalata dalla cartella stampa descrive bene l’intenzione dei sei ragazzi e si fa viva anche durante l’ascolto, i testi sono spesso delle confessioni, delle (ri)scoperte di sé che la band accompagna con complicità e riuscendo a creare una discreta tensione, considerando tra l’altro che stiamo parlando di ragazzi ancora giovanissimi che ad oggi in due lavori ci hanno regalato mezz’ora di quel che sono, mezz’ora di questa sofferta crescita che li porterà ad essere quel che saranno.
In estrema sintesi: promossi.

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Wilco, un’altra data in Italia a luglio

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L’attesa cresce e la notizia provoca il desiderio di superare con un balzo questo inverno che non c’è stato: il 5 luglio tornano a Roma i Wilco, ospiti del palco di Villa Ada – Roma incontra il mondo, grazie a BMU Booking & Management.

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Manifesto, elettronica al Monk Club di Roma dall’8 al 10 aprile | Line-up completa e timetable

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Manifesto – We Are The Music Makers si prepara per un lungo fine settimana totalmente dedicato all’elettronica e alla sperimentazione con una formula veloce e diretta in cui musicisti e ospiti si alterneranno in una serie di live showcase, set inediti, presentazioni, mostre, incontri e djset.

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Zirkus der Zeit – A Shape in the Void

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Probabilmente, tra l’infinità di dischi che ho avuto il piacere di ascoltare negli ultimi mesi, nessuno come questo A Shape in the Void dei liguri Zirkus der Zeit è riuscito a mettermi nella stessa condizione di difficoltà valutativa.

Partiamo dalle prime impressioni e da quei fattori che servono poi a costruirsi un’iniziale opinione; cominciamo da quegli elementi congegnati dal duo e che, inevitabilmente, vogliono innalzare l’asticella del nostro interesse. Un nome in tedesco che significa Il Circo del Tempo; due membri di sesso opposto rintanati sotto gli pseudonimi di V e Z; un album dal titolo in inglese che si traduce in una forma nel vuoto; un artwork minimale, oscuro e accattivante; una foto/disegno che ritrae V e Z in una posa che ricorda un’altra coppia che, come vedremo, è da considerare punto di riferimento dei nostri Zirkus der Zeit. Se l’intento era di rapire la nostra attenzione, ci sono riusciti; quello che resta è andare al sodo con l’ascolto e qui iniziano i dubbi. Tanta “solennità” inizia a sciogliersi col passare dei minuti e la prima cosa che viene voglia di fare è incazzarsi per una sorta di tradimento artistico ma poi subentra la serietà di chi è chiamato a descrivere qualcosa che probabilmente non conoscete (nonostante sia il secondo album) e non avete ancora ascoltato. Quello in cui certamente riesce il duo è, prima di tutto, creare un immaginario che coinvolga reminiscenze che superano la sola musica e fornire elementi per fantasticare e viaggiare nello spazio e nel tempo, nel passato e nel futuro, dentro e fuori i confini del mondo. Quello che colpisce è sicuramente il coraggio, soprattutto di V che crea trame soniche complesse, articolate, dalle continue variazioni e sicuramente non consone alle più ovvie produzioni nostrane. Quello che, invece, diventa il punto debole dell’opera è, prima di tutto la voce di Z, la quale, sopra tappeti sonori contorti e oscuri, prova a fare sfoggio di muscoli ma non regge il peso con la sua timbrica mediocre e una tecnica non proprio fuori dal comune.

Eppure non è solo lei a non convincere perché, se è vero che di V possiamo apprezzarne il coraggio (del resto, in Italia essere coraggiosi, nel senso di diversi non è poi cosa di troppo sforzo) non possiamo dire altrettanto degli arrangiamenti e del sound nel suo complesso, che da più parti si vuol far ricondurre a influenze di prestigio quali NIN, King Crimson, Tool addirittura, ma che in realtà, finisce per forgiare solo una copia non troppo riuscita dei Dresden Dolls in chiave Rock. Sono proprio loro il punto di riferimento principale, o almeno l’accostamento più opportuno, nonostante mai citato a quanto pare, per i nostri Zirkus der Zeit, soprattutto nelle sessioni di piano/voce che sono poi anche le più interessanti. Proprio come la band di Boston capitanata da Amanda Palmer, i liguri lavorano su atmosfere cinematografiche noir, su sonorità da Dark Cabaret, su immagini nostalgiche come sbiadite foto in bianco e nero, alternando poi Piano Rock e un banale Alternative Rock misto a Prog e Metal senza vera convinzione ma che finisce per essere l’unica vera variante notevole dal più noto e già citato duo.

Se dunque la fortuna del duo americano è da ricondursi alla creazione di questo varietà grottesco e circense da Belle Epoque, non si può dire lo stesso di chi cerca di imitarne all’eccesso lo stile e se i primi hanno avuto non solo la capacità di essere primi e diversi ma anche di produrre brani eccelsi e immortali, unendo sensibilità e divertissement ad arrangiamenti notevoli e una voce incantevole e intensa, gli italiani non riescono a colpire nello stesso modo, riducendo il tutto a una sorta d’imitazione basilare che vorrebbe forgiarsi di derivazioni più complesse senza riuscirci.
Detto questo, sembrerebbe ovvia una bocciatura per il secondo album dei Zirkus der Zeit, ma da qui i dubbi palesati all’inizio. A Shape in the Void è come un tema copiato dal primo della classe ma un tema ben scritto, con qualche spunto interessante e comunque diverso dalle banalità di quattro asini che si scopiazzano tra loro senza riuscire a mettere insieme un pensiero decente. Dunque, dopo una serie innumerevole di ascolti, non posso che promuovere il duo, se non altro perché hanno tutte le potenzialità per andare ben oltre quei limiti. L’importante sarebbe iniziare a essere davvero se stessi e partendo da questo presupposto si potrebbe veramente capirne il valore. Avvolgere i Dresden Dolls di fumo e veli neri, di schitarrate e ritmiche pesanti e contorte, non può bastare.

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #08.04.2016

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Derozer | Intervista alla band cult del Punk italiano

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #01.04.2016

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The Incredulous Eyes – Red Shot

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Una partenza moscia, con mood triste alla “Small Poppies” di Courtney Barnett, più  un nome e un immaginario grafico che rimandano ai Tre Allegri Ragazzi Morti; fatto sta che nella  testa tutte le mie ipotetiche aspettative si concretizzavano in un album dall’attitudine decisamente differente. Red Shot, invece, è un disco che spinge, che  inizia con una serie di tracce corte per poi maturare una complessità musicale in constante evoluzione nell’arco delle sue tredici canzoni. Rock di matrice che ricorda a  momenti i migliori Foo Fighters ma che assomiglia soprattutto ai Royal Blood con l’unico difetto di perdersi sporadicamente in qualche malinconico momento nickelbackiano. Musica da sottobosco indie, locali piccoli e sotterranei, concerti bui e bagnati di sudore, un posto di diritto nelle playlist “alternative” di Spotify. Gli Incredulous Eyes riescono a liberarsi anche da tipici stilemi che affliggono il Rock italiano offrendoci un prodotto dalle sonorità totalmente internazionali, impresa non così scontata nella nostra penisola, senza compiere nulla di eclatante ma presentandosi con un album di ottima fattura.

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Big Cream – Creamy Tales

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Eterni Peter Pan, dentro e fuori, ma allo stesso tempo nubilosi e malinconici. Perennemente distratti da chissà cosa per capirsi veramente come per riuscire ad evitare di sporcarsi mangiando un gelato. Ancora oggi li riconosci: entrano in cremeria, ordinano il loro cono e sapendo che si sporcheranno fanno incetta di tovagliolini di carta che finiscono stropicciati in qualche tasca, pronti all’uso; quei tovagliolini sono spesso la loro più grande evoluzione dai tempi in cui ascoltavano Cobain in cuffia col loro buon vecchio walkman e la copertina di questo esordio dei Big Cream li descrive perfettamente.
Sono i ragazzi, oggi quarantenni, cresciuti a pane ed Alternative Rock a stelle e strisce del periodo che dalla prima metà degli Ottanta alla prima dei Novanta segnò le loro giovani esistenze e che questi tre ragazzacci della provincia di Bologna, completamente pazzi per quel periodo hanno deciso, come molti loro attuali colleghi, di riproporci sguazzandoci dentro come se li avessero vissuti. Creamy Tales, prodotto da MiaCameretta per la versione in CD e da More Letters Records per la versione in cassetta (a dimostrazione dell’attaccamento verso quegli anni) è il titolo scelto per questo EP ma il lavoro, per quanto proposto, avrebbe potuto benissimo intitolarsi Superfuzz Bigcream combaciando tra l’altro nel numero dei brani come nella durata con l’EP d’esordio dei Mudhoney.

A onor del vero, l’ispirazione ancor più che dalla band di Mark Arm arriva da Nirvana e Dinosaur Jr., saranno comunque molteplici i riferimenti in ambito Alt Rock statunitense che si incontreranno durante l’ascolto. Il trio ci proporrà dunque un sound centrato sulle tipiche distorsioni del periodo sopra citato spingendo i ritmi fin dove il genere consente tra riff energici immersi in voci e suoni ruvidi ma melodici.
Il tutto verrà chiarificato sin dalla traccia d’apertura una “What a Mess” nella quale non risulterà difficile immaginare i 3 giovani suonare live con alle spalle un bel muro di ampli in pieno stile Dinosaur Jr. (l’impronta della band di J Mascis sarà ripresa anche nel video che accompagna il brano). Il disco non si scosterà mai molto da questi canoni, troveremo semplicemente canzoni il cui stile virerà verso il Grunge più classico (“Sleepy Clood”) o nelle quali sarà possibile trovare sentori di quel Pop Punk d’inizio anni 90 in stile Blink-182 e Green Day (“Sleep Therapy”) e nel caso del brano più a sé stante del lotto (“Slush”) maniere più vicine allo Shoegaze con voce e cori mimetizzati tra gli strumenti che in alcuni frangenti di questo pezzo viaggeranno a velocità meno sostenuta rispetto al resto del disco; in tutto questo non risulterà difficile trovare echi di Pixies per quanto svuotati un po’ della loro fantasia.
I Big Cream non inventano niente e farlo non era assolutamente nelle loro intenzioni, tutto suonerà già sentito, i loro riferimenti saranno sfacciatamente riproposti e miscelati ma in modo maledettamente istintivo e profondamente sentito tanto da farci pensare che Riccardo, Christian e Matteo non potrebbero suonare diversamente. I tre ragazzi, che aspettiamo fiduciosi e con tanto di maglietta macchiata alla prova sulla lunga distanza, in queste sonorità hanno infilato le mani in modo godurioso e frenetico come i bambini le infilano nella cioccolata o nella cesta dei giocattoli e li hanno fatti loro creando questa crema che farsi scivolare addosso è un vero piacere, per chi vent’anni li ha oggi come per chi, troppo distratto per rendersene conto, li avrà per sempre.

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Daniele Silvestri, annunciate le prime date del tour estivo

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