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What’s up on Bandcamp? [ottobre 2019]
I consigli di Rockambula dalla piattaforma più amata dall’indie.
Continue ReadingJack White – Lazaretto
Jack White è un tipo particolare, si sa, visibilmente eccentrico almeno nelle apparizioni ufficiali. Il suo look ultimamente è l’incrocio perfetto tra il surrogato Rock di Johnny Deep e un vampiro. Tanto eloquente è la cover di questo secondo e necessario album da solista; lui bianco pallido seduto su un trono di angeli, nel centro esatto della copertina, con la faccia imbruttita e una tinta blu glaciale che fa da sfondo. Diciamocelo, White, che ci piaccia o no, è uno che non lascia nulla al caso. Una chicca, se così può essere considerata, per i collezionisti, è il vinile: la testina del giradischi va posizionata alla fine del disco, verso il centro, l’album gira al contrario; sulle scanalature ci sono dei piccoli ologrammi raffiguranti gli angeli di copertina che risaltano alla luce e tengono i nostri occhi inchiodati sul disco che gira; la prima canzone sul lato B, “Just One Drink”, ha una doppia scanalatura che si traduce in una doppia intro, acustica/elettrica, in base a dove finisce l’ago della testina. Fissazioni?!
Ma arriviamo all’album, anzi, alla musica. Lazaretto è un’altalena in cui fluiscono sfumature di vari generi nella prosa Blues, oscura e psichedelica, di White. Una gestazione durata più di un anno al contrario dei precedenti album registrati in una manciata di giorni. White si chiude a Nashville nella sua Third Man Records, il suo Lazzaretto, luogo di confine per appestati e lebbrosi, catalizzando i suoni del suo passato e mettendo una distanza netta dagli White Stripes e trovando un mood più pieno, meno minimal. Tanta la strumentazione utilizzata ma permangono su tutto l’album soprattutto il magnifico suono del pedal steel di accompagnamento, i vari synth moog suonati alla barrelhouse come si faceva nei vecchi saloon western, mandolino Folk e ovviamente l’immancabile frastuono della sua chitarra elettrica; “High Ball Stepper” ne è un esempio perfetto. L’album si apre con “Three Women”, organo hammond in stile big band, propulsione R’n’B e disturbi di chitarra elettrificata. Si parte da qui, anche se la riconoscerete forse solo per il testo, questa è una cover del cieco (blind) Willie McTell (1928), alle radici del Blues quindi, alle radici della musica moderna. Tutto il disco risulta avvolgente, modulato a tal punto che si ascolta senza problemi, dal Blues più ritmico di “Lazaretto”, seconda traccia, a quello Country di “Temporary Ground”. Dalla malinconia desolante di “Whould You Fight for my Love?”, con i suoi cori tetri, alla più Punk “Just One Drink”, molto President of U.S.A..
Con questo lavoro White, dopo essere diventato una star con gli White Stripes, cerca la consacrazione nella Rock and Roll Hall of Fame. Undici pezzi impeccabili stilisticamente che ne fanno un lavoro da non perdere assolutamente. Godetevelo!
Bliss, quinto disco per i Captain Mantell.
Bliss è il titolo del quinto album dei Captain Mantell, power trio guidato da Tommaso Mantelli (omonimo del Capitano Thomas Mantell, primo pilota a morire inseguendo un UFO). Un lavoro ispirato alle radici del Rock che rappresenta un deciso punto di svolta stilistica per la band. La matrice compositiva rimane la medesima di sempre, Pop ma capace di soluzioni sempre originali. Il raggio d’azione pero’ si muove verso orizzonti piu’ vasti, anche grazie all’introduzione del sassofono, capace di evocare nuove suggestioni. La versatilità compositiva della band emerge più che mai, come una macchina del tempo impazzita attraverso la storia del Rock che salta dai King Crimson a Jack White, dai Beatles ai Nirvana, da John Zorn a Jeff Buckley. Le ritmiche potenti dell’Ammiraglio Dix, il sassofono sperimentale del Sergente Zags, i riff di chitarra che sembrano usciti dall’epoca d’oro del Rock creano delle basi sonore perfette per la voce del Capitano Mantell, espressiva ed efficace nei pezzi piu’ tirati come nelle ballad. I testi, cupi e disincantati ma con una vena di speranza ci accompagnano poeticamente alla ricerca della beatitudine (Bliss) intesa come evasione dallo stile di vita moderno e simbolicamente rappresentata attraverso la rivincita sulle rigide regole delle macchine elettroniche che fino ad ora avevano governato il suono della ciurma. Registrato e mixato nel 2014 tra Veneto e Abruzzo il disco vede anche la partecipazione di graditi ospiti quali Liam McKahey (Liam McKahey and the Bodies, Cousteau) che regala una sublime traccia vocale su “Side On”, Nicola Manzan (Bologna Violenta, Menace, Ulan Bator) che mette il suo tocco nell’arrangiamento di alcuni brani, la violenza dei Bleeding Eyes e la pazzia di DJ Muto. Il disco sarà pubblicato in vinile, CD e free download il 10 novembre 2014 da una cordata di etichette indipendenti formata da Dischi Bervisti, Overdrive Rec, Dreamingorilla Rec e Xnot You Xme (distribuito da Audioglobe).
TRACKLIST
01 – Love/hate
02 – The ending hour
03 – Wait for the rain
04 – The day we waited for
05 – Side on (feat. Liam McKahey)
06 – Dead man’s hand
07 – Ugly boy
08 – Better late than now
09 – First easy come then easy go
10 – Picture me floating
11 – To keep you in me
12 – With my mess around
13 – The age of black
14 – Won’t stop
15 – Bliss (bonus track)
Furious Georgie – You Know It
E’ difficile catalogare il progetto solista di Giorgio Trombino, musicista palermitano che si propone in veste solista sebbene sia già conosciuto per militare in numerosissimi gruppi underground siculi. Il ragazzo spazia molto e lo racconta già la sua biografia. Tra le sue “corde” c’è il Death Metal degli Haemophagus, lo Stoner dei Sergeant Hamster e degli Elevators to the Grateful Sky, fino ai suonatori di colonne sonore Funky-Jazz: The Smuggler Brothers. Un bel minestrone mi verrebbe da dire, ma più che altro nulla a che vedere con questo suo primo album.
Giorgio parte in quarta con il blusaccio di “Giggrind”, voce graffiante, armonica impazzita, battiti di mani e chitarra acustica sparata a macinare groove. Muddy Waters con un tocco di bianco, sembra quasi che Palermo abbia il suo Jack White. Con “Screaming Parrot” le sonorità si placano e George Harrison benedice uno dei brani tra i più riusciti del progetto, spostando improvvisamente la rotta da una simpatica cavalcata verso gli inferi ad una onirica traversata di nuvole e arcobaleni. Il Blues torna un po’ più ammorbidito con “Day of the Dead” e “Lost and Found”, arrivano anche echi a giovani e vecchi cantautori americani con le loro infinite praterie ed il vento tra i capelli (due nomi? Ryan Adams e Neil Young su tutti). C’è anche spazio per un brano in italiano dalle vedute Progressive, che da ancora più colore al suono. Il pennello però rischia di uscire dalla tela, imbrattando tutto ciò che sta intorno. Le idee di “NGC 6543” sono comunque ottime con echi alla Ziggy Sturdust riuscitissimi, peccato che la canzone sia veramente fuori dal seminato. Sicuramente un pezzo spiazzante e non consono alle sonorità del disco, messo a metà scaletta e di durata nettamente superiore rispetto al resto. Scelta coraggiosa, ma priva di gran senso logico.
Le distanze sono dilatatissime nella cantilena di “Years Gone by” e nella struggente ninna nanna di “Watch the Drift as it Goes”, Furious Georgie dimostra che la musica del diavolo è nelle sua anima e la scarna produzione aiuta semplici canzoni come queste ad elevarsi nell’atmosfera. Nel finale del disco c’è spazio per altre sfumature: la divertente e spensierata “Kiwi Roll”, la furente (sebbene acustica) “Armed Peace” e per concludere la ballata “Young Lard” che strizza l’occhio alle lunghe cavalcate di Jagger e Richards.
Questo è un disco che non annoia. Eterogeneo, variopinto e estroverso. Geogie non ha di certo paura ad esporre la sua immensa e rara creatività, aiutato da una versatilità che è dimostrata non solo da questo album, ma già anche dalle miriadi di diverse collaborazioni a cui partecipa. Il palermitano esprime bene il Blues, gli ampi spazi di un Cantautorato distante, le note lunghe del Progressive e gli episodi più svarionanti del Rock inglese anni 60. Qui però la sensazione è che le grandi idee (che è inutile nasconderlo, ci sono!) siano offuscate dalla foga di mettere troppa carne al fuoco. Peccato perché con qualche pezzo in meno e con qualche melodia in più questo sarebbe stato davvero un disco grandioso. Sperando in meno impulso e più riflessioni, aspetto con ansia il secondo episodio.
Una Volta Erano Buskers
La musica come forma d’intrattenimento e di comunicazione è legata inscindibilmente con la pulsante vita della strada. Ogni nazione ha avuto la propria dose e storia di corrente musicale on the road, dove gli artisti facevano di piazze, angoli e vicoli il loro personalissimo palco. Comunicavano, raccontavano, protestavano ed in cambio non chiedevano nulla, se non offerte libere. Musicisti itineranti e non che della musica hanno fatto la propria vita e il proprio mezzo di sussistenza, creando nelle varie nazioni veri e propri movimenti musicali. Dai tempi della gloriosa Roma passando per i cantori dell’amor cortese dell’alto medioevo come i Troubadours della Francia settentrionale e i Minnesingers tedeschi, oppure i musicisti Tzigani dell’est europa, i Mariachi messicani fino ad arrivare addirittura alla cultura nipponica con i Chyndon’ya giapponesi. Esempi ce ne sono moltissimi. Chiamati nel mondo moderno genericamente buskers, parola di origine indo europea che significa “cercare”. Intrattenitori che nella ricerca, dunque, anelano fortuna, fama o “semplicemente” la sopravvivenza. Anche nel corso dell’ultimo secolo, il busking ha trovato varie connotazioni nelle diverse scene musicali. Dagli itineranti bluesmen lungo le rive del Mississippi, passando per i vagabondi del cantautorato folk, fino agli anni della controcultura dei figli dei fiori.
La strada vista come sfogo comunicativo del proprio essere e del proprio pensiero, un ambiente (non sempre, ahi noi,) libero, dove poter manifestare la propria passione e il proprio talento. Oggi più che mai rappresenta per gli artisti di tutte le arti un banco di prova fondamentale, probabilmente il banco di prova più importante. Nella musica non basta solo il talento, ma bisogna saper emozionare ed emozionarsi. È proprio qui che la musica di strada diventa giudice generosa e spietata della performance dell’artista. Uno strumento di trasporto diretto dell’individualità personale. Il busker interagisce direttamente con l’ascoltatore. Niente palchi, niente divisioni. Spettatore e artista insieme sullo stesso piano. La conquista di un pubblico passante assorbito nei propri pensieri e la capacità di gestire un’audience, trattenerlo, farlo tornare sono qualità che si imparano con l’esperienza, con il coraggio di osare e combattendo lo stress e la sempre viva possibilità del non essere cagati. In fondo tutti i musicisti vogliono solo qualcuno che li ascolti e che diano un senso di approvazione alla loro indole artistica, altrimenti cercherebbero fortuna in altri modi. È proprio grazie al confronto con la strada che molti artisti hanno trovato la fiducia, la forza e la spinta per riuscire a trovare se stessi e far si che la propria carriera musicale decollasse.
Nascere in una nazione come l’Australia dove il busking è una delle forme di espressione più rispettate e dove in ogni angolo delle città è possibile immergersi in esibizioni di straordinari performer, è senza dubbio un vantaggio di non poco conto, ma allo stesso tempo un pitch di non facile conquista. Nel 1996 nella colorata cittadina di Fremantle, nel Western Australia, il 21enne John Butler attratto dal richiamo della strada inizia a suonare la sua chitarra lungo i marciapiedi della città. Chitarra e voce l’unica forma di comunicazione con la quale riesce a esprimere la propria personalità. Succede, dunque, che l’umiltà, la passione e il talento che il giovane dimostra, incanta ed intrattiene costantemente pubblico. Non solo gli appassionati di musica si fermano ammaliati, intontiti e sbalorditi durante le note del pezzo intitolato “Ocean”, brano strumentale scritto all’età di 16 anni che esprime tutta l’essenza del chitarrista australiano il quale in un misto di vibrazioni emotive intense parla di amore, vita e perdita. Accetta i consigli del pubblico e decide, con i soldi guadagnati, di incidere una cassetta. La intitola Searching For Heritage, vende più di 3000 copie in brevissimo tempo. Dalla strada passa ai locali per poi conquistare con il suo John Butler Trio tutto il continente australiano e non, in un escalation continua di approvazioni di pubblico e critica. Chitarrista dal talento cristallino che grazie alla sua tecnica e alla sua miscela di musica Bluegrass, Folk, Blues, Funky, Roots, probabilmente avrebbe avuto successo anche se avesse iniziato in una maniera differente. Ciò che è certo è che la strada aiuta John ad avere fiducia nelle sue possibilità e nelle sue capacità, ad acquisire carisma e personalità e, per sua stessa ammissione, a intrattenere il pubblico e a capire le dinamiche dello show. In una recente intervista ricordando quei giorni dichiara:” Vivi la tua vita giornalmente struggendoti, per cercare di trovare la tua voce o il tuo posto nella società. Poi tutto ad un tratto ti trovi di fianco ad un bidone dell’immondizia con il tuo strumento e facendo facce che spaventano i bimbi. Il pubblico ama ciò che suoni e tu riesci a sentirlo. Continui semplicemente a farlo e a seguire questo flow”. I live del suo pezzo Ocean hanno raggiunto oramai più di 30.000.000 visualizzazioni, tant’è che nel 2012 per ringraziare il pubblico decide di incidere una versione in studio e offrirlo in free download sul suo sito. “ È un pezzo parte del mio DNA, raccoglie tutto ciò che non posso spiegare con le parole.” Il virtuoso musicista ha regalato fin da subito il suo spirito alla strada, esibendosi in quello che tutt’ora è ancora il suo pezzo più personale. E la strada lo ha premiato.
John Butler in una non recentissima ma molto evocativa versione di Ocean, molto vicina alla versione incisa su Searchin for Heritage
Legata ad una storia simile è la incredibile Kaki King, chitarrista statunitense amata tantissimo, tra l’altro, dal popolo italiano. Artista dal talento puro ed esploratrice assoluta dello strumento a sei corde, sempre alla ricerca di sonorità al di fuori dei canoni stilistici classici (pur partendo da una profonda conoscenza/amore per la musica classica del 20th secolo). Una prima passione per la batteria per poi passare ad interessarsi alla chitarra, che suona con una tecnica finger picking caratterizzata dalle percussioni di derivazione Flamenco e dal fret tapping. Un talento che inizia a diffondere le proprio note nei tunnel della metropolitana di New York nel settembre del 2001. Trasferitasi, infatti, per motivi di studio dalla natia Atlanta ed ancora poco certa sul futuro, decide di scendere nella subway neworkese munita della sua chitarra e del suo estro. Spinta dalla necessità di guadagnare qualche soldo e dalla semplice voglia di suonare per strada, inizia la sua carriera di busker nelle stazioni lungo la linea metropolitana. La spontaneità ed originalità delle sue performance non passano assolutamente inosservate. La meraviglia che desta nei concentrati pendolari americani si trasforma in una continua e insistente richiesta di demo. Troppo brava per non essere notata, troppo brava per non vendere la sua musica. Inizia a lavorare come cameriere al Mercury Lounge dove nel 2002 viene organizzata una festa per l’album creato dalle sue performance live nella metropolitana. Una copia dell’album finisce sulla scrivania della Knitting Factory che le offre la possibilità di suonare nel loro Tap Bar. Come spesso capita nella musica la persona giusta al momento giusto nota il talento di Kaki durante un’esibizione e grazie a quell’incontro pubblica nel 2003 l’album strumentale Everybody Loves You per l’etichetta Velour. Un disco d’esordio acclamato dalla critica che le permette di accrescere la propria notorietà e di esibirsi aprendo i concerti di artisti più affermati conquistando anno dopo anno la stima del mondo della musica. Sei gli album pubblicati fino ad oggi, tante le collaborazioni e i premi. Una musicista fantastica molto legata e grata fortemente agli insegnamenti tratti dalle perfomance da buskers. Racconta delle sue esibizioni in metropolitana come un vero e proprio allenamento che le ha dato la giusta forza, formandola fisicamente e mentalmente. In un’esperienza lunga poco più di un anno, si è forgiata, aumentando e migliorando la propria creatività e divertendosi facendo ciò che più ama. Suonare per strada ammette che spesso le manca; le manca, molto semplicemente, la libertà ,anche di poter scegliere di mollare tutto nel mezzo di un brano ed andare a casa.
C’è invece chi deve alla strada la propria sopravvivenza e storia, non solo musicale ma di vita vera. Steven Gene Wold, in arte Seasick Steve, americano classe 1941, lascia la casa materna per via di un patrigno manesco all’età di 13 anni. Pochi spiccioli e una chitarra. Inizia il suo cammino in lungo e in largo per gli States alla ricerca di ogni tipo di lavoro, in un girovagare degno di un romanzo della beat generation. Ci sono giorni in cui lavoro manca e la fame fiacca il corpo e lo spirito. In quei giorni Steve prende la chitarra, sfoga la propria frustrazione, condivide il proprio amore per la musica e racimola qualche dollaro. Per resistere e sopravvivere con il suo Rock Boogie nel cuore. Suona per le strade d’America e i fatti della vita lo portano a suonare nelle metropolitane di Parigi. Il successo per lui non è certo immediato, il suo stile di musica viene riconosciuto poco interessante e, stando ai suoi racconti, non colpisce particolarmente i passanti. Non abbandona mai la propria indole e personalità musicale. In un girovagare continuo finisce addirittura nella zona di Seattle, nell’epoca dell’esplosione del Grunge. Apre un piccolo studio di registrazione nella città di Olympia e viene in contatto con dozzine delle giovani band della zona. Si riesce a ritagliare un spazio in piccole gigs. I ragazzi di Washington mostrano di apprezzare lo stile musicale di dell’ hobo Steve (lo stesso Dave Grohl racconta di avere assistito entusiasta ad uno suo show). Per insistenza della moglie, norvegese, Seasick Steve torna in Europa ad Oslo dove nel 2003 con una piccola etichetta indipendente e due musicisti svedesi incide il primo album Cheap. Il lavoro arriva all’orecchio di alcuni importanti dj inglesi generando un discreto successo in Inghilterra, tanto da invitarlo ad andare a Londra per alcuni show. Sembra iniziare la carriera del bluesman americano quando purtroppo un’infarto gli pregiudica lo stato di salute e deve mollare promozioni ed esibizioni. Sull’orlo dell’abbandono della speranza di fare della musica la sua professione, trova la forza (anche grazie alla moglie) di reagire e di incidere “Dog Blues Music” con l’etichetta indipendente Bronzerat Label, registrato interamente su un recorder a traccia unica nella cucina di casa.
Un secondo album che sorprendentemente in Inghilterra in molti stavano aspettando. Il giorno della svolta, però, avviene il 31 dicembre del 2006 notte dove si esibisce al programma televisivo ingelse Jools Holland’s Hootenanny e dove accade ciò che Seasick Steve non si sarebbe, alla veneranda età di 65 anni, mai aspettato. Canta “Dog House Boogie” canzone biografica con una strampalata chitarra a tre corde ed un semplice drum box machine e conquista tutti. Con la sua barba lunga, il look da farmer e il suo three strings transboogie conquista il pubbico presente in sala e tutto il popolo inglese e da quella fatidica notte Seasick Steve, sempre impegnato nell’impresa di sfamare sé e la sua famiglia diventa una celebrità. Il popolo musicale inizia a celebrarlo. Ne apprezza la genuinità, il folklore del suo essere, la sua non semplice storia e la stravaganza degli strumenti musicali, alcuni dei quali costruiti da sè, ricchi di aneddoti e tanta umiltà. Dalla strada ai più grandi e importanti festival di tutto il mondo, dopo una gavetta durata mezzo secolo. Dall’anonimato più totale alle collaborazioni con artisti come Dave Grohl, Jack White, i Wolfmother e il mitico John Paul Jones degli Zeppelin che lo accompagna in moltissimi dei suoi concerti live. Le esibizioni per le strade d’Europa e d’America hanno avuto per Steve un’importanza fondamentale. Nella stesso brano “Dog House Boggie” racconta: “Sometimes gettin’ locked up an’ somet- sometimes just goin’ cold and hungry/ I didn’t have me no real school education, so what in the hell what I was gonna be able to do?/ But I always did pick on the guitar; I used to put the hat out for spare change /But now I’m makin’ this here record and I’m still tryin’ to get your spare change/ I don’t know why went wrong but it ain’t bad now. And I just keep playin’ my dog house music/ Sing the dog house song…!” Busker non solo come espressione di creatività ma come ultima speranza di vita. Ciò che la performance e la vita passata in strada ha insegnato a Seasick Stee è di non demordere. Nonostante sembrasse che a nessuno interessasse il suo sound, ha sempre persistito e continuato senza accettare compromessi, suonando il suo Blues, rimanendo se stesso, buttando fuori il suo mondo interiore. Un esempio di come a volte la strada possa essere spietata, ingenerosa ma allo stesso tempo maestra.
L’autobiografica Dog House Music in una versione del 2011 carica di energia con il batterista Dan Magnussen
Tre storie di successo diverse, in tre continenti diversi. Lontani nel tempo e nello spazio ma legati dall’indissolubile esperienza che la strada ha regalato. Tanta bravura in ognuno di loro, tanta sfacciataggine ed ovviamente anche culo. Ciò che pero è palese da queste storie è di come il Busking possa rappresentare un punto di partenza importante per ogni artista e di come il mantenimento e l’espressione della propria personalità sia alla base del successo. Umiltà, verità e personalità i fondamentali ingredienti di una musica autentica che viene dal cuore e in grado di colpire anche i passanti più distratti. Peccato, però, che spesso, diffidenza e soprattutto burocrazia, specialmente in Italia complichi sempre le cose, ma questa è tutta un’altra storia.
Mr. Furto & Lady Paccottilla – Water Blues Ep
Un mondo acqueo e distorto, dove il blu della profondità diventa Blues, disordinato e semplice. Parlo del (piccolo) universo di Mr. Furto & Lady Paccottilla, duo di Cremona (gentiluomo lui, fanciulla lei, basso lui, batteria lei). Water Blues, questo il titolo dell’EP, contiene 5 brani, di cui uno, la title track, sta sotto il minuto e mezzo ed è più che altro (o almeno credo) una scusa per dare il titolo al disco. Si dicono curiosi di capire quale etichetta può venir loro affibbiata: secondo me fanno (per l’appunto) del Rock-Blues con una punta di Lo-Fi (la batteria, dritta e lineare, in primis, ma anche la semplicità caciarona delle linee di basso, distorte e blueseggianti, e la voce, cupa, scura, gonfia – che esce molto bene in un pezzo energico come “Endless Riot”, suona creepy quanto basta in “Stonhead”, nel resto naviga). Insomma, sono tipo i White Stripes (e glielo avranno detto tremila volte), ma non è solo per il duo uomo-donna con lei alla batteria, è il mix di Rock/Blues/semplicità dell’insieme che porta la mente ai coniugi White. Poi, ok, non ne hanno la follia né il virtuosismo – ma vabbè, stiamo parlando del maledetto Jack White, non ci sono paragoni che tengano.
Mi ha cambiato la giornata, questo Water blues? Non molto, devo ammetterlo. Ma qualcosa d’interessante c’è: saltando a piè pari la prima parte, il disco si eleva all’arrivo di “Endless Riot”, muscolare e ficcante, per poi volare alto con “Kazakh March”, brano che chiude l’EP, e che più si discosta dal modus operandi messo in atto nel resto del lavoro. Meno Blues, più ossessivo, più intrigante (a mio modesto parere).
Insomma, stoffa ce n’è, curiosità di vederli dal vivo pure, manca forse un po’ di delirio, uno scombinare le carte più radicale, più energico. Forza, e avanti con un full lenght. Fatemi sapere.