Jamie XX Tag Archive

In Waves, la gioia e l’introspezione da dancefloor di Jamie xx

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Il ritorno del produttore londinese coincide con un album estremamente personale e universale, che rimarrà tra le pietre miliari della musica elettronica.
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Me, the Other And. – 404 Human Not Found

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Lettere da Barcellona | Primavera Sound Festival 2017

Written by Live Report

Anche questa edizione appena trascorsa ha confermato il Primavera Sound Festival come il punto di incontro fondamentale per gli amanti della musica da oltre 125 paesi. Si stima che gli spettatori di questa diciassettesima, tra i concerti al Parc del Fòrum e le performance collaterali in centro città, siano stati oltre 200 mila. Ai 346 live in cartellone se ne sono aggiunti una ulteriore quindicina, annunciati a sorpresa durante i tre giorni della kermesse. Ma basta ragionare in numeri, che non sono mai lo strumento migliore per dipingere atmosfere.

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Le Classifiche del 2015 di Silvio “Don” Pizzica

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Jamie XX – In Colour

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A dover scegliere un colore da abbinare a quello che fu l’esordio omonimo del progetto The XX ci si trova inevitabilmente ad optare per il nero. Se imboccare la strada da solisti è una tentazione a cui in pochi riescono a resistere, ben venga se serve a dimostrare che c’è dell’altro, e in questo senso Jamie Smith di certo non ha perso l’occasione di sfoggiare il suo intero spettro cromatico.
La tavolozza è a tinte sature come quelle che campeggiano sull’artwork di In Colour, cromie squillanti eppure mai pacchiane: un esito quantomeno imprevedibile, considerato che la materia in gioco è essenzialmente Rave culture, distillata in undici tracce e diluita con estetica estremamente contemporanea.

Che Smith fosse un fuoriclasse nello stravolgere la logica di qualsiasi composizione musicale armato di estro e campionatori era chiaro da tempo. Dopo aver fatto sfoggio delle proprie abilità sull’opera di Gil Scott-Heron (è sua la materia che nel 2011 Jamie si diverte a smembrare e ricomporre in chiave Lo-Fi in We’re New Here), è ora pronto a mettere in tavola un progetto compiuto e personale, un pastiche retrofuturista di vocazione innegabilmente Pop che mentre sibila nostalgia per l’House dei chiassosi anni 90 scivola elegante verso un variopinto avvenire sonoro. Niente peripezie dall’ascolto ostico: le sintetiche trame sonore di In Colour si arrampicano sui beat in un gioco di giustapposizioni raffinate ma ammiccanti, lungi dal suonare pretenziose.

L’attitudine DIY esplode sin dall’incipit con l’essenza Jungle di “Gosh”, per lasciar spazio all’EDM sofisticata e terribilmente catchy di “Sleep Sound”.
Al fianco di Smith nell’intagliare alcune delle sue gemme di indietronica ci sono gli alfieri fidati. Il timbro suadente di Romy Madley-Croft suona a tinte cupe sulla ritmica Hip Hop di “See-saw” (nella cui produzione c’è lo zampino di Four Tet) e ammicca inevitabilmente al sound alla The XX in “Loud Places”. Quello di Oliver Sim impreziosisce e fluidifica i vellutati beat di “Strangers in a Room”.
Unico episodio che recide il morbido fil rouge che percorre il disco è la stridente “I Know There’s Gonna Be (Good Times)”, in cui la presenza di Young Thug spinge il risultato finale verso derive Rap invadenti e un po’ scontate. In compenso, la doppietta finale (“The Rest is Noise”, “Girl”) chiude perfettamente il cerchio, cristallizzando la cifra stilistica della personalissima rilettura di Smith della club culture d’oltremanica.

La riproducibilità esclude il beatmaking dal novero delle arti? Potrà anche darsi, ma sembra però che tanta bellezza Pop figlia illegittima del proprio tempo farà a meno del titolo nobiliare senza crucciarsene.

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A novembre Torino si accende di musica: ritorna il Club To Club!

Written by Senza categoria

#C2C15 è la quindicesima edizione di Club To Club, importante Festival di musica e arte in Italia, alla costante ricerca del punto d’incontro perfetto fra Avanguardia e Pop.
Club To Club celebra il suo XV anniversario con un’edizione che si preannuncia esaltante a Torino dal 4 all’8 novembre, durante la Contemporary Week. Nato negli anni zero come circuito di club uniti nel corso di una notte da un solo biglietto, il festival è cresciuto fino a diventare una cinque giorni di spettacoli no-stop di alcuni degli artisti più acclamati e visionari al mondo, che si snodano all’interno di location uniche della città più elegante e regale d’Italia.

#C2C15 animerà coi suoi echi musicali diverse location sparse in tutta la città, ognuna col suo fascino e la sua personalità: dagli spazi del Salone dei Concerti del Conservatorio, famoso per l’impeccabile qualità della sua acustica, al barocco e prestigioso Teatro Carignano, dai nuovi e ampi spazi a disposizione nei padiglioni post-industriali del Lingotto Fiere al quartiere di San Salvario, centro nevralgico della creatività torinese. Un intero hotel verrà trasformato nel quartier generale del Festival, dove si svolgerà il programma diurno tra proiezioni, talk e musica.

La lineup è ancora da completare, ed al momento risulta composta dai seguenti nomi:

Andy Stott
Anthony Naples
Apparat Soundtracks Live
Battles
Carter Tutti Void
Dekmantel Soundsystem
Floating Points Live at Teatro Carignano
Four Tet Live
Holly Herndon
Jamie XX
Jeff Mills
Kuedo
La Priest
Lotic
Mumdance + Novelist Feat. the Square
Nicolas Jaar Dj
Nigga Fox
Ninos Du Brasil
Omar Souleyman
Oneohtrix Point Never
Prurient
Shackleton
Sophie + Qt
Soundwalk Collective Perform Underground
Tala
Todd Terje Live
Vaghe Stelle
to be continued…

Per maggiori info:
http://clubtoclub.it
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Primavera Sound Festival 2014 | Day 2

Written by Live Report

Sveglia di nuovo alle 15. Il fuso orario di questo appartamento nel cuore del Borne è ormai irrimediabilmente allineato a quello di Bangkok. Dei fantomatici autobus extra previsti per questi giorni tra il Forum e il centro ieri sera se n’è visto solo uno, che ci ha portati a casa alle 6.30 di stamattina. Tipo che a sapere di dover rimanere in strada piuttosto mi sparavo tutto il set di Jamie XX. Un tempo di merda ci accompagna fino al Forum, vestiti da turisti scemi tra ombrelli, improponibili poncho di plastica e messe in piega andate a puttane, che ho l’aspetto di un cocker dopo il bagnetto. Il diluvio sembra non voler affatto smettere e ogni momento vuoto è buono per riempirlo di birra, magra consolazione sotto gli stand al coperto, quando a un tratto si leva un grido collettivo di giubilo al veder spuntare dal mare un grosso nitido arcobaleno che tutti si affrettano ad instagrammare per poi correre sotto ai palchi. Arriviamo ai piedi dell’ATP giusto in tempo per gli ultimi due pezzi dei Loop. Una delle carte vincenti che da qualche anno a questa parte ha elevato il Primavera Sound al rango di grande rassegna è una scelta sapiente e variegata nel comporre la line-up, per genere ma anche per epoca, puntando molto sulle gradite reunion. Neopsichedelia in pieno giorno? Le chitarre graffianti e ossessive sembrano giungermi dimezzate da un palco dall’allestimento minimal e alla luce del seppur tanto atteso sole. La verità però è che a volte ci facciamo fregare dalle aspettative, perché al di là di quello che avevo immaginato ciò che ascolto in questi dieci minuti mi dice che questo dev’essere stato un gran bel live.

È ora di tornare verso l’area sud del Forum. Mentre il sole torna a splendere ci dirigiamo verso l’Heineken e le Haim. Ecco Big Jeff che mi sorpassa a destra correndo con in mano un panino di dimensioni proporzionate alla sua stazza e il sorriso stampato che mi contagia immediatamente come la prima volta. Se non sapete della mia prima volta con Jeffrey molto male, perché vuol dire che non avete letto questo. Durante il live ho un moto di compassione per quel poveretto di Dash Hutton, batterista e unico componente maschio della band, che è anche l’unico a non portarne il nome come cognome. Me lo immagino in tour con queste tre leonesse che sono le sorelle Haim, ignaro alla partenza che la sua è la stessa sorte di un quattordicenne che si iscrive all’Istituto d’Arte o qualsiasi altra scuola superiore covo di femmine incazzate. Mentre sogghigno e mi produco in queste inconfessabili riflessioni la mia amica Lorenza mi fa notare che le espressioni facciali di Este mentre si diletta in iperbolici giri di basso sono decisamente più divertenti. Non sono qui per loro in realtà. Sono solo in attesa di quello che accadrà tra un’ora sul palco di fronte (io che nella vita non ho mai concesso a nessuno di vedermi arrivare con cinque minuti di anticipo). Eppure questo Pop Rock mi coinvolge. Ci sono molte valide tracce in questo album di esordio, e si uniscono a tutta la presenza scenica che ieri un’altra line-up al femminile su questo stesso palco non è riuscita a tirar fuori (se non sapete nulla di ieri e delle Warpaint arriva la seconda ammonizione, perché vuol dire che non avete letto neanche quest’altro). Ops. L’app mi ricorda che tra mezz’ora al Rockdelux ci sarà il Noise di Body/Head, alias Kim Gordon e Bill Nace. Amen. Da questo momento in poi non vorrò ascoltare alcun tipo di trillo che possa rovinare il mood zen che ho assunto oggi aspettando un paio di appuntamenti essenziali.

Era il 1991 quando usciva quello che fu l’album di esordio degli Slowdive. Io avevo 7 anni, e per Natale mi ero fatta regalare Dangerous di Michael Jackson, che il mio insegnante di danza metteva su “Remember The Time” per farci fare i pliés di riscaldamento, ed io quella musica la volevo sempre con me, dentro a un mangianastri rosa a forma di borsetta con tanto di tracolla, che se ce l’avessi ancora farei invidia a tutti gli hipster cultori di tecnologia analogica dall’aspetto kitsch. Ho incontrato i sussurri Shoegaze di Neil Halstead e Rachel Goswell solo molti anni più tardi, quando loro erano già meteore di un mondo discografico che non esiste più ed io avevo età anagrafica e necessità emotive adeguate per provarne il bisogno. Come tutte le cose che accadono quando ormai è troppo tardi, ho consumato Souvlaki e ancor di più Pygmalion (quell’ultimo album a lungo incompreso da una industria della musica che nel 95 impazziva solo per il Brit Pop) con quella impropria sensazione di nostalgia che si ha di epoche per cui non potresti provarne, dato che non ne hai fatto parte. Questo lungo preambolo è al solo scopo di dare una vaga idea del mio stato d’animo nell’apprendere del loro ritorno, una specie di seconda insperata opportunità. Forse neanche la stessa Rachel se l’aspettava più. Sale sullo stage Sony con un sorriso dolcissimo e un velo di commozione, che trattiene a stento sulle prime note di “Crazy for You” davanti a un pubblico che le accoglie estasiato. Mi intrufolo come un sorcio e guadagno la prima fila, e appesa alle transenne mi godo tutto il live senza dire una parola mentre compio l’atteso viaggio nel tempo. Rachel è discreta ed elegante, e non ha bisogno di ricorrere ad alcun tipo di escamotage scenico per assolvere al suo ruolo di front-woman. “Souvlaki Space Station” è davvero un tuffo lento, inquieto e intenso, che mi fa dimenticare ogni frenesia di questi giorni. Le giustapposizioni di chitarre di “When the Sun Hits” mi rapiscono. Credo proprio di avere la faccia di una che in questo momento non vorrebbe essere in nessun altro posto, ma in realtà non è così, perché ho come l’impressione che non sia questo il luogo adatto per godere dei dettagli di cui vivono gli Slowdive, quelle sottigliezze essenziali e impercettibili schiacciate dalla potenza dell’impianto. La cover di “Golden Hair” che rispolverano in chiusura lascia senza fiato. Ma io volevo “Alison”. Ecco, l’ho detto. E ora la smetto di ammorbarvi con i dettagli di questa specie di estasi mistica, che è ora di cena.

Oggi siamo in modalità economy quanto saggia, perciò ci siamo portati da casa qualche metro di baguette ripiena di tortilla. La decisione che quest’anno il Primavera non me lo sarei perso è stata determinata in buona parte dalla presenza dei Pixies. Nel frattempo però sono successe un po’ di cose,  come l’uscita di Indie Cindy, la divina provvidenza che nel redigere la scaletta li ha piazzati appena prima dei National, e il fatto che Lorenza, che da gennaio non faceva altro che postare pezzi di Doolittle su Facebook, alla fine si è innamorata anche lei di Matt Berninger (e fidatevi che nessun uomo al mondo prima di lui era riuscito a scalfirle il cuore). Insomma, finisce che a Francis e soci sul palco Heineken concediamo giusto di farci da sottofondo mentre noi al Sony ci ingozziamo con la cena al sacco. Un sottofondo di tutto rispetto, ma di più non saprei dire, che sono ancora un po’ perplessa riguardo a quest’ultimo nuovo album che poi tanto nuovo non è, e soprattutto sono così presa al pensiero di ciò che accadrà tra poco, che il check della batteria di Bryan Devendorf che copre “Where is My Mind?” non mi infastidisce neanche.  È il 2005 quando i National, dopo l’uscita di Alligator, ancora ignoti ai più nel vecchio continente, si esibiscono a L’Aquila, sul palchetto più sfigato tra i due allestiti alla Festa dell’Unità. Posso dire con certezza che io c’ero, ma sono altrettanto sicura di essere stata sotto il palco sbagliato. Avrò espiato questa colpa al quindicesimo live di Matt Berninger che vedrò, e all’oggi la strada è ancora lunga.

Come di consueto, Matt sale sul palco visibilmente ubriaco. Non dice nulla ma canta in modo impeccabile. Sono i gemelli Dessner che tra un brano e l’altro si sorridono con aria rassegnata del tipo “ci risiamo anche stavolta” e rivolgono a turno qualche parola al pubblico. Lui vaga sul palco col suo gomitolo infinito di cavo, sorseggia cubatas, e ogni due brani fracassa a terra un microfono. “It doesn’t make its job!”, dice, ma non è vero, è tutto perfetto, e se state pensando che il tasso alcolico infici la sua performance sappiate che non è affatto così (anzi, inizio ormai a supporre che sia una condizione necessaria per la riuscita). I brani di Trouble Will Find Me il pubblico li intona all’unisono con Matt, ma con mio enorme sollievo questo non accade con il resto del repertorio (no vabbè, mi sa che “Terrible Love” la sanno tutti). L’inconfondibile preludio archi e batteria di “Squalor Victoria” è la consueta botta di adrenalina, poi mi sciolgo nella voce calda di “About Today”. Matt si lancia nelle sue note peripezie sul palcoscenico, si arrampica sulle casse e poi si lancia tra la folla, senza smettere un attimo di cantare. Un paio di ospitate sul palco (tra cui Justin Vernon, chitarra e voce sulla coda della struggente “Slow Show”) inevitabilmente passano quasi inosservate. Matt catalizza ogni sorta di attenzione. L’impressione che si ha è che quest’uomo sia nato per fare questo, con una naturalezza da frontman che non ricorre ad alcuno stratagemma per arrivare ad un pubblico che gli unici effetti scenici a cui assiste sono il vederselo saltare addosso o al massimo il rischiare di venir strozzato dal chilometrico cavo del suo microfono. Un esercito di gente cool che inspiegabilmente impazzisce per un tipo vestito da ragioniere? Ebbene sì, e questo insolito fenomeno mi suggerisce una chiave di lettura di tutto il percorso artistico dei National: l’impasto sonoro, basi melodiche ma sincopate a cui si aggiungono arrangiamenti virtuosi e mai scontati, risulta così efficace proprio grazie al suo essere intimamente classico, nell’accezione del termine che descrive ciò che è al riparo dal rischio di tramontare in quanto non è nato sull’effimera scia di una moda, e dell’apparire modaiolo non si è mai preoccupato.

Sì, lo so, ora ci sono quegli impronunciabili dei !!! ma io ho giusto le forze per affondare la faccia in una porzione di noodles allo stand thai e cercarmi un taxi. Domani sarà la più lunga delle giornate di questa fugace Primavera.

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