La luce artificiale in copertina potrebbe ingannare. Una luce fredda e squadrata che poco si intona con il violino del musicista britannico. Cinquant’anni di carriera e un portfolio da far raddrizzare tutti i peli in corpo. Collaborazioni con Paul McCartney, James Taylor, Jimi Page, The Moody Blues, Ian Hunter. Per non parlare della sua fraterna amicizia con Joe Strummer, che l’ha portato a militare anche nei Mescaleros (stupendo il suo violino in “Silver and Gold” dall’album “Streetcore”). La luce è dunque vivida, offuscata dalle nuvole della Gran Bretagna, bagnata come la rugiada e bianca come la pelle dell’ormai sessantacinquenne Tymon Dogg. Made of Light è un album estremamente maturo eppure così vicino alle radici della musica Folk d’oltremanica, con un piede nella prateria e uno verso la grande città. Un suono di altri tempi trapiantato nel 2015. La forza della sua voce e del violino vengono subito sprigionate dalla rabbiosa “Conscience Money”, violenta, virale, quasi a risvegliare Strummer e i fantasmi della ribellione. “A Pound of Grain” è proprio un inno al veganesimo. A detta di Tymon la canzone è stata proprio ispirata dai discorsi con l’ex Clash riguardo lo sfruttamento degli animali da parte dell’uomo. I suoni sono acustici ma risuona in ogni nota la prepotenza del Punk degli anni d’oro e quello spirito gypsy che strappa sempre un sorriso sulle labbra. La title track è intensa, liturgica, grido straziante a richiamare un Dio dimenticato. Qui Tymon si fa accompagnare da chitarre classiche, mentre il violino innalza la voce verso il cielo. Le sfaccettature di questo disco non finiscono qui; “Like I Used to Be” e “Perfect Match” sembrano rubate ai Beatles di Revolver, un bel sorriso in un giorno esageratamente estivo in un paesino d’Inghilterra. La melodia danza indisturbata anche nella meravigliosa ballata “As I Make my Way”, simbolo della spontaneità e della semplicità di questo onestissimo musicista. Un canto quasi ubriaco, e per questo vera quanto mai. La voce di Tymon Dogg è tremendamente inglese e tremendamente saggia, in una canzone è capace di descriverci la meraviglia della vita buttando dentro suo padre, suo figlio e tutto se stesso. Aggiungiamoci la forza di un violino Punk mai troppo invadente e di una luce tutt’altro che artificiale, capace di illuminare il nostro paesaggio creando colori abbaglianti e ombre che con questo suono fanno meno paura.
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Patti Smith performs Horses 27/07/2015
Patti Smith performs Horses @ Flowers Festival Collegno (TO) – 27/07/2015
Vedere un concerto di lunedì sera è una pratica tanto inusuale quanto liberatoria. Rende più piacevole l’inizio settimana e meno noiosa la presenza pesante della domenica. Vedere poi uno dei più suggestivi concerti della tua vita dietro casa tua, in una cornice come quella del Flowers Festival, rende il tutto memorabile.
Ad aprire le danze ci pensa la giovanissima Erica Mou che da sola con la chitarra fa suonare un’orchestra mentre ci bacia, tanto per citare una delle sue dolci e soffici canzonette. Non c’è trucco e non c’è inganno, semplicemente Erica con la sua chitarra acustica crea ritmi e arpeggi, mixati egregiamente dal suo piedino sulla loop station. Coraggio e una vocina che sotto sotto ci grida in faccia tutte le sue emozioni.
Dopo il breve set della cantautrice pugliese aspettiamo appena mezz’ora e sul palco salgono quattro uomini canuti e una donna, più canuta di tutti loro. Il pubblico non è numerosissimo ma per Patti Smith e la sua band questo non è certo un buon motivo per abbassare la guardia e per non dare la giusta veste ad uno degli album fondamentali per la storia della musica popolare. I cavalli di quarant’anni fa ricominciano il loro cammino con “Gloria”: epica, teatrale, una preghiera al cielo stellato che ricopre il palco. Tutti fermi, tutti ammutoliti, a parlare ci pensa la Sacerdotessa (ora capisco perché viene comunemente chiamata così e mai appellativo fu più azzeccato). Jesus died for somebody’s sins but not mine, una sentenza di una potenza disarmante, già sentita miriadi di volte su disco, ma che dal vivo prende vita e pare fredda come una lama che trafigge la nostra pelle rilassata. Sarà un lunedì sera forte, intenso, magico, avvolgente come la tragica danza Reggae di “Redondo Beach”. I cavalli iniziano a galoppare dopo la solenne marcia di “Gloria”. Galoppano per scappare, per fuggire via dalle tenebre, per poi viaggiare in un’altra dimensione con la jazzaggiante “Birdland”. Parole e musica si fondono in un’eterna poesia che vaga tra le nostre orecchie. Il senso di smarrimento è forte, il senso di impotenza davanti a tanta bellezza è immenso. Patti ha quasi settant’anni e si dimena come una ragazzina che vive per i suoi ideali e per i suoi sogni, la sua lotta interminabile è pitturata poi da una band spaventosa. A comandare la ciurma un eccelso Lenny Kaye, da sempre insieme a Patti, capace di accarezzare e poi martoriare la chitarra che è, a seconda del mood del pezzo, il suo amore, la sua disgrazia ma anche il suo organo sessuale.
“Free Money” è violenza pura e grande Rock’n’Roll prima del lato B di Horses aperto con “Kimberly”, governata da un bel basso pulsante e di nuovo quel Reggae ossessivo . La voce di Patti è prepotente come quarant’ anni fa, una foga che ci spacca le orecchie. Sinceramente non saprei dire se ci sono state pecche tecniche, stecche, cali di voce o cazzate del genere. Quelle le posso sentire se il mio cervello è attivo e presente. Qui sono stato immerso in uno stato fuori dal razionale, la musica mi ha rapito e in questa dimensione nulla sembrava fuori posto. “Break It Up” è un inno alla libertà e la voce della signora Smith trema leggermente quando ci incoraggia ad aprire le braccia e sentire lo spirito di Jim Morrison che vaga nell’aria. La terra zozza e la polvere di stelle si amalgamano in “Land”, onirica e realista, tirata all’inverosimile. Dieci minuti di incastri ritmici, sali-scendi continui, passaggi che vanno dai richiami Soul di “Land of 1000 Dancers” alla furente parte di “La Mer(de)”, per finire nei cori disperati di “Gloria”, ripresa con enfasi da un pubblico che è vero portento questa sera (per fortuna ho visto anche meno cellulari alzati del solito!). “Land” è un capolavoro e non si discute, qui i cavalli vanno a tutta velocità per poi rallentare increduli davanti a questo fiume di parole così ribelli e così fuori dagli schemi. Joey Dee Daugherty, altro storico compagno di Patti alla batteria, inventa ritmi e suona nervoso e dolce, con una versatilità che raramente ho incontrato. Per altro Joey si improvvisa pure bassista nell’ultima perla di Horses. “Elegie” è una canzonetta a detta della Sacerdotessa, dedicata a suo tempo a Jimi Hendrix. Ora, ci dice Patti, tutti noi abbiamo perso qualcuno di caro e con questo ci rende parte attiva della canzone, che nel mezzo regala un saluto ad altri grandi amici del mondo della musica, scomparsi anche loro il questi quarant’anni. E così sono applausi a scena aperta per Lou Reed, Joe Strummer, The Ramones al completo nella loro prima formazione e tantissimi altri miti della musica americana.
Horses è concluso, i cavalli rallentano per poi fermarsi a guardare. E così l’ultima parte di concerto, che pensavo potesse avere il sapore di greatest hits, ci regala perle e non perde affatto il filo logico. “Privilege (Set Me Free)” sembra essere la continuazione di “Break It Up” con quella frase iniziale I see it all before me: the days of love and torment, the nights of rock’n’roll. Tanto Jim Morrison da farlo ricordare ancora una volta. Poi quella imprecazione: goddamn, così violenta e viscerale che gela la spina dorsale. Patti poi esce dal palco e la scena rimane sulla sua band che intona un medley dedicato ai Velvet Underground. Quarant’anni di Horses e cinquanta di Velvet Underground dice Lenny Kaye con il venticello di Collegno tra i capelli lunghi e bianchi. A cantare non solo lui ma anche Tony Shanahan e il figlio di Patti Jackson Smith, abilissimi anche nei numerosi cambi strumento durante il set. “Rock’n’Roll” è una pura sassata, la band poi si rilassa ma gli spigoli rimangono vivi in “I’m Waitin’ For The Man” cantata a squarciagola da tutto il Flowers. In “White Light, Whit Heat” Patti risale sul palco a battere le mani e ballare, le star le lasciamo a casa questa sera, solo ottima musica e tanto, ma proprio tanto, da imparare.
“Because The Night” è commovente, delicata, dedicata al marito scomparso ormai vent’anni fa. La rabbia però ritorna nell’immensa voglia di ribellione di “People Have The Power”. Alla fine Patti intona “My Generation”, inno immortale che pende dalle sue labbra. Una canzone che farebbe ridere addosso a qualsiasi musicista vecchio. Ma lei no, la fa sua, la rende viva e vegeta. Rivive così lo spirito di Keith Moon e la Sacerdotessa onora un altro highlander del Rock come Pete Townshend. Intanto la signora, con un piglio tanto divertente quanto sadico, masturba la chitarra, staccandogli tutte le corde ad una ad una con precisione chirurgica.
La musica di Patti Smith è ancora bella e dannata, proprio come la sua New York, come i suoi vestiti eleganti ma in qualche modo Punk, come i suoi sputi sul palco, come i sorsi di thè e gli occhiali da vista indossati per leggere poesie sul palco, come i suoi occhi vecchi ma per niente stanchi e come il suo sorriso rassicurante. Fonte di gioia, di vita, di saggezza e di una voglia indescrivibile di libertà.
U2 – Songs of Innocence
Martedì nove settembre è arrivata in mondovisione una fucilata. Uno apre iTunes e si trova davanti il nuovo disco della band più polare al mondo (sì, non sono The Beatles perché non fanno più dischi dal 1970 e non voglio credere che siano gli One Direction!). Io, tolto lo stupore iniziale, me ne sbatto della markettata soprattutto perchè non ci ho capito mai una mazza delle manovre di marketing. Quindi, che me ne frega se la Apple ha sborsato cento milioni di dollari? E allo stesso modo non mi tocca se ora gli U2 sono in vetta alle classifiche con le vecchie glorie mentre la gente punta il dito contro la mossa eccessivamente mainstream.
Attenzione, però, che qui la critica ci sta tutta, per altri motivi e non sarò certo io ad esimermi. Veniamo al dunque: questo disco è brutto! O meglio, insipido. Il più piatto e prevedibile di sempre della carriera del quartetto irlandese. Per quanto mi riguarda le aspettative nei confronti di un loro nuovo disco sono sempre esagerate e effettivamente parzialmente deluse da Zooropa in avanti eppure, in ogni caso, sono riuscito a trovare uno spiraglio, un ornamento che donasse nuova linfa a un vestito reso così sempre diverso, nuovo e sgargiante, sebbene con gli anni sia più plastico e meno colorato. Qui però l’abito è sbiadito, sgualcito, appiccicato con pezze sberluccicanti ma raffazzonate. L’inizio promette grandi cose ma il pretenzioso e divertente titolo sfoggiato in “The Miracle (of Joey Ramone)” crolla immediatamente all’arrivo degli inutili coretti “ooooh ooooh”, così inspiegabilmente Coldplay. Non bastano le rare pennate del chitarrone di The Edge a distogliermi dalla rilettura incredula di quel nome immenso: Joey Ramone; e dove sta l’antica anima Post Punk degli U2? La produzione di Dangerous Mouse (che per altro è affiancato da altri supernomi come Paul Epworth, Ryan Tedder, Declan Gaffney e Flood, sembrano messi lì quasi per il gusto di riempire la bocca) è sicuramente forte, presente, massiccia, moderna ma non porta in nessuna direzione, se non a una sterile autocelebrazione e ad un timido tributo alla musica Pop che passa dalle citazioni dei Police in “Every Breaking Wave” (una via di mezzo tra “With or Without You” e proprio “Every Breath You Take”) agli echi di “California”, che rimandano diretti a “Barbara Ann” dei Beach Boys.
Poi dopo aver scomodato senza successo l’eroe del Punk americano, viene chiamato in cattedra pure il Punk anglosassone. Ed ecco “This is Where You Can Reach Me Now” dedicata a Joe Strummer; ritmiche in levare da manuale e tastiere che rimandano ai primi anni 80. Finalmente un pezzo degno di nota nonostante i suoni lontani di una produzione che meno Rock’N’ Roll di così non poteva essere. Anche nei timidi tentativi di “Volcano” e “Raised by Wolves” la vena più elettrica fa fatica ad uscire. The Edge ne soffre, le sue parti alcune volte appaiono spinte a forza dentro i brani. Pure la coppia d’oro Clayton-Muller pare distante, persa nelle atmosfere una volta create dai loro tocchi magici e ora affidate ai guru del suono digitale. L’unico che pare essere a suo agio in questo marasma è Bono. Con grande classe salva un paio di pezzi con la sua voce che ancora fa rizzare tutti i peli che ho in corpo. “Songs for Someone” è spudoratamente ruffiana e già trita e ritrita, ma Bono, sornione, la asseconda regalando una prestazione vocale magica. Poi nel finale del disco intreccia le sue inequivocabili corde vocali con quelle mistiche e misteriose di Lykke Li, ospite azzeccatissima in “The Trouble”, danza Trip Hop ben governata da un pungente giro di basso e concluso da uno sbalorditivo (seppur purtroppo brevissimo!) assolo di The Edge. Mi spiace però, a questo giro non mi farò illudere da trucchetti. Questo album rimane privo di idee e, inutile colpevolizzare scelte di suoni o pompaggi digitali, mancano le canzoni. Manca quel senso di rivoluzione che è passato dalle scorie Punk di “Boy” fino alla Disco Music chitarrosa di “Pop”, ma manca anche una stupida canzonetta canticchiabile alla “Beautiful Day” o le prove Rock’N’ Roll di “Vertigo”, e non scomodiamo i capolavori. Spero davvero che tutto questo non si sia perso in mezzo a palchi 3D e occhiali da sole, perché forse sono troppo romantico, ma credo che il mondo della musica abbia ancora bisogno di questi quattro ragazzi. Sicuramente più di quanto la Apple abbia bisogno di farsi pubblicità con l’uscita di un loro disco.
Peanuts 78 – Questione di Gusto
In questi giorni mi sento vecchio. Saranno i malanni di stagione che ogni anno si accumulano tra le ossa, la testa e la gola. Sarà forse che i miei problemi fino a qualche anno fa erano arrivare pronto all’esame e ora mi ritrovo a pensare a mutuo e investimenti. Forse saranno semplicemente le maledette responsabilità. “Old at heart but I’m only 28” diceva Axl Rose in “Extranged”. E mi sento ancora più vecchio perché una volta lui era il mio idolo e ora per me è solo un fantoccio che ha scritto una manciata di belle canzoni.
Potete capire dunque come il mio stato d’animo non possa giovare troppo di un disco che arriva da una giovanissima band propensa a quel pop tanto fresco da rischiare una prematura data di scadenza, condito di parole da Smemoranda liceale, arricchito da elettronica patinata e chitarre pseudo punk (chiedo perdono a Joe Strummer e Joey Ramone ma ormai a queste storpiature credo siano abituati). “Questione di gusto”, il titolo è inequivocabile e i tre torinesi Peanuts 78 sanno benissimo quali sono i gusti dei ragazzi al giorno d’oggi. E attenzione, niente ma proprio niente di male nell’essere degli spudorati “piacioni” soprattutto se si crede nella musica che si suona. “Se sapessi scrivere come quel buzzurro di Fabio Volo di certo non sarei qui a rompervi i coglioni con Leopardi”, diceva spesso la mia superaccultuarata ma onestissima prof di letteratura. E i brani dei Peanuts sono delle vere bombe da classifica a partire da “Insipido”, un po’ ballata alla Tiziano Ferro, un po’ elettronica da luna park. “Non è possibile” invece percorre strade meno lineari, ritmiche inaspettate vengono però raddrizzate in un ritornello facile e sintetico. Il singolo “Fuori Rotta” che ad una prima orecchiata pare non dare nulla in più al disco, stupisce per la facilità di comunicazione. “In equilibrio” prova a spingere su distorsioni e velocità, si cerca di accelerare ma ci troviamo in un autoscontro e i ragazzi cozzano contro le limitazioni del loro stesso pop.
Un bell’applauso in ogni caso va alla produzione, tutto si incastra alla perfezione. Il prodotto certamente suona preconfezionato, ma almeno non da scaffale del supermercato il cui beffardo destino è sempre il cestone dei saldi. Diciamo che conserva la sua genuinità da bancone del mercato.
Tra gli episodi più riusciti sicuramente spicca “Il re”, che rimanda allo stile frivolo di Cremonini ma degenera in un finale robotico. La cornice non cambia: cameretta stracolma di poster, di collezioni autunno/inverno di Zara e un computer portatile posizionato fisso su Facebook.
“Questione di gusto” non è un album memorabile, ma rimane ben suonato, allegro, fresco, orecchiabile, moderno e ricco di pretese. E consideriamo sopra tutto ciò che i ragazzi sono davvero dei pischelli pieni di futuro e strabordanti di musica pop. Non so se la mia prof avesse ragione, ma se potessi tornare indietro di otto anni e fare un album così un pensierino ce lo farei.