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John Grant: unica data italiana
L’autore di Queen of Denmark e Pale Green Ghosts, torna in Italia per un’unica data a novembre per presentare il nuovo album Grey Tickles, Black Pressure, registrato a Dallas con il produttore John Congleton (St Vincent, Franz Ferdinand, Swans) e con la partecipazione straordinaria di Tracey Thorne ed Amanda Palmer.
Il concerto si terrà il 22 novembre 2015 al Fabrique di Milano.
John Grant – Grey Tickles, Black Pressure
Vive di paradossi affascinanti, questo terzo album dell’ex frontman de The Czars, di scarti minimi e diversioni apparentemente casuali. Un impianto minimale, di suoni elettronici qui frizzanti e là cupi, in cui John Grant sciorina flussi di coscienza tra vita quotidiana e paranoie notturne, zampate sensuali e paure profonde della malattia (è affetto da HIV) e della perdita. Pecca di Grey Tickles, Black Pressure è la sua linearità: sonora, quando questi brillii di beat secchi, questi fondali di synth, questa voce bassa e suadente iniziano a confondersi tra un pezzo e l’altro; e lirica, quando le rime baciate diventano un gioco ritmico più che una necessità poetica, quando il quotidiano si infiltra con troppa immantinenza per permetterci di uscire dall’hic et nunc di quella vita, di quel vissuto. La sfida vinta, invece, è sulla piacevolezza immediata, sul sapere essere profondamente Pop portando il minimalismo elettronico nell’area del Funk, del groove, del suonare cool intrinsecamente, senza sbavature, con un gusto melodico lanciatissimo che ricorda le grandi star inglesi, la scuola del titanismo popular anglosassone (potrebbe essere un Robbie Williams di un Rudebox meno paraculo, per intenderci), capace di suonare freak e insieme radiofonico, travolgente. Non so se questo disco passerà alla storia, ma di certo è un disco sincero fino alla nudità, dove John Grant si spoglia e, con un’ironia che fa trasparire una sensibilità malcelata, ci canta davvero il suo intricato vivere, le sue vibranti viscere.
Rockambula al Primavera Sound, Day 2 (under the rainbow)
Day 2, di nuovo sotto la pioggia. Tra temporale tropicale e metropolitana intasata capisco che dovró rinunciare a John Grant. Quando spunta fuori quello che è già diventato l’arcobaleno più celebre di Instagram, le grida di gioia del popolo del Primavera assiepato in attesa sotto gli stand esplodono unanimi. Si torna di corsa sotto ai palchi.
Neopsichedelia e bassi penetranti all’ATP con i Loop.
Notevole la performance delle Haim, ma resto nelle retrovie perchè tra poco ho un’appuntamento importante a cui non posso permettermi di arrivare in ritardo.
Ed eccoli qua. la performance degli Slowdive è davvero un “tuffo lento”, in un universo sonoro in grado di farsi di volta in volta sognante oppure inquieto, ma sempre più intenso.
Dolorosa scelta quella di non lanciarsi nella folla e poter vedere i Pixies soltanto dai maxischermi, ma tra poco ho un’altra corsa all’assalto della prima fila sotto il palco Sony.
The National, melodici e sincopati, con quella sezione ritmica così trascinante. mi lascio pervadere come ogni volta dalla voce calda di Matt Berninger, che come consuetudine si arrampica, vaga, rompe a terra un paio di microfoni, si lancia tra il pubblico. Il tutto senza smettere un attimo di cantare.
John Grant – Pale Green Ghosts
“L’abito non fa il monaco”, recita un vecchio adagio popolare. Infatti, a giudizio esclusivo della front cover – non eccezionale, ammettiamolo – il secondo appuntamento discografico di John Grant (già leader dei Czars), Pale Green Ghosts, si configura a prima vista come il solito e dozzinale prodotto Country statunitense, elemento che ben si accorda con l’estrazione geografica del soggetto in questione (la cittadina di Parker, Colorado). Ed invece no. Pale Green Ghosts é tutta un’altra storia. ”Non é lo stesso fottuto campo da gioco, non é lo stesso campionato e non é nemmeno lo stesso sport”, affermerebbe seccato Samuel Lee Jackson nei panni del sicario filosofo Jules Winnfield.
L’esordio solista di Grant si concretizza in Queen of Denmark, dato alle stampe nel dicembre 2010 ed accolto nel panorama discografico internazionale con il plauso unanime di critica e pubblico (album dell’anno secondo l’influente rivista specializzata Mojo). Il cantautore di Denver, dopo la militanza decennale negli Czars e la malinconica esperienza Folk Rock dei Midlake, persevera nel proprio percorso artistico dando libero sfogo al lato più sintetico della sua indole creativa, riportando alla luce (soprattutto nelle bonus tracks della versione deluxe) le fredde e marziali partiture elettroniche di New Order, Ultravox e Depeche Mode, straordinarie colonne sonore di una generazione indomita e ribelle che affollava i club Synth Wave sul finire dei mitici anni ottanta.
Tutto sembra girare per il meglio, quando… deus ex machina. Grant viene a conoscenza di una realtà infausta e terribile: la positività al virus HIV. A questo punto bisogna ricomporre con lucida pazienza i frammenti di un’esistenza trascorsa tra follie ed eccessi di ogni genere, archiviare definitivamente il passato nell’angolo più remoto della coscienza per cavalcare, ancora una volta, la cresta più alta dell’onda. Un bisogno impellente di tranquillità, da raggiungere ad ogni costo, con ogni mezzo. Il cantautore statunitense sceglie la via dell’esilio, emigrando tra i solitari ghiacci d’Islanda dove, nel celebre studio Oroom di Reykjavik, viene alla luce Pale Green Ghosts, con il fondamentale contributo artistico di Chris Pemberton (il tastierista che da tempo accompagna Grant nei suoi tour), Birgir Þórarinsson dei Gus Gus, Paul Alexander e Mckenzie Smith (rispettivamente bassista e batterista dei Midlake, presenti in due ballate ortodosse come “Vietnam” e “It Doesn’t Matter to Him”), il sassofonista Óskar Gudjónsson e la celeberrima Sinead O’Connor nell’inedita e compiaciuta veste di backing singer (autrice di una splendida performance in “Why Don’t You Love me Anymore”). Il multiforme e tormentato Pop/Folk Rock targato Czars/Midlake viene ripetutamente filtrato attraverso un flusso elettronico malsano, percussivo e minimale (particolarmente evidente nella title track “Pale Green Ghosts”), vero e proprio marchio distintivo del talentuoso Birgir Þórarinsson a.k.a. Biggi Veira, partorito attraverso l’ausilio di drum machine e sintetizzatori dal sapore squisitamente ottantiano. Troneggia su tutto il sorprendente registro baritonale di Grant, in grado di regalarci, per l’ennesima volta, liriche estremamente pungenti e sarcastiche (assolutamente fantastico in “GMF”: “sono il più grande figlio di puttana che potrai mai incontrare”); esperienze di vita vissuta, cronache di prostrazione e rivalsa, omosessualità ed omofobia, fino alla sconvolgente rivelazione della positività all’HIV, affidata al sax tenore di Óskar Gudjónsson nel brano “Ernest Borgnine” (“dad keep looking at me says I got the disease…”).
Per i feticisti del dettaglio: lo stesso John Grant, rievocando con una certa dose di malinconia gli anni ruggenti della gioventù, rivela che all’epoca era solito percorrere l’interstate 25 per raggiungere i vari club Synth Wave della zona; nei quaranta chilometri del tratto Denver – Boulder l’autostrada era fiancheggiata da numerose piantagioni di ulivi russi, le cui piccole foglie argentate acquisivano una particolare luminosità al chiaro di luna (le Pale Green Ghosts del titolo, per capirci). Fenomenologia e poetica dell’immagine, celebrazione tramite emotività e ricordo, rappresentazione figurativa che di per sé vale già il prezzo il biglietto.