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The Johnny Clash Project – Hate and War [VIDEO]
Guarda in esclusiva il nuovo video del trio che rilegge The Clash in stile Johnny Cash.
Continue ReadingLa Tosse Grassa – Tg4
La Tosse Grassa è un culto più che una one man band demenziale, cattivo e ironico come mai nessuno in terra italica; irriverente e totalmente contro tutto quello che i puristi del Rock possono considerare musica. Un culto ormai attivo dal 2011 e con quattro dischi alle spalle (Tg4 compreso) del tipo che riesce a rapire tanto quanto a disgustare, spaccando inevitabilmente gli ascoltatori tra adepti e nemici. Se non avete mai origliato null’altro di quest’omaccione marchigiano preparatevi al peggio perché la prima volta che lo farete, le vostre reazioni saranno un misto tra “che merda è questa?”, “stiamo scherzando?” e altre dichiarazioni di questo stampo. Poi potranno accadere due cose. Non vi azzarderete mai più a pigiare il tasto play oppure proverete un’imbarazzante voglia di dare ascolto ancora e poi ancora e poi ancora i brani di uno dei Tg (i suoi album). La cosa più strana è che non riuscirete a capire il perché di questa voglia e avrete paura di quello che siete, un po’ come quando nella testa ci passano pensieri talmente cattivi, sadici e meschini da farci vergognare di noi stessi. Dal vivo La Tosse Grassa è esperienza delirante e divertente grazie anche allo pseudo corpo di ballo Radical Macabre Tanzkommando ma per ora, in attesa della nuova stagione live, dobbiamo accontentarci di questo nuovo lavoro in studio, che poi dire “in studio” è piuttosto un’esagerazione, visto il livello Lo Fi della registrazione. Chiarito ai miscredenti quale sia la follia dietro al culto, resta da capire di che diavolo di roba si stia parlando. Autodefinitosi un incrocio tra GG Allin, Madonna ed Elvis Presley in realtà il nostro non fa altro che miscelare brani preesistenti a formare delle basi spesso di stampo danzereccio, sulle quali piazza delle liriche aggressive, sarcastiche, che affrontano temi di stampo sociale e umanistico, oppure semplicemente raccontano storie folli, senza mai eccedere con l’ostentazione biografica. A differenza degli episodi precedenti, sono meno i brani sessualmente o blasfemicamente rilevanti (“Voglio la Pensione”) e più quelli intimi.
In realtà non ci sono episodi esasperatamente eccessivi come potevano essere “Lo Vuoi nel Culo”, “Gay Porn”, “Ho Male a te” (ho male al cazzo, ho male al cazzo, ho male a te), “Robuste Dosi di Cazzo” in TG1, “Ti Apro il Culto” (più per l’uso dell’inno italiano che per le bestemmie) in TG2, “Marchigian Routine 2” (se vi danno fastidio le bestemmie, questo pezzo sarà il vostro demonio) in TG3. Satira politica estrema dunque (“Tentacoli”, “Lutto Nazionale”) e attacchi pesanti al sistema comunicativo (“Sono Io il Suffragio Universale”, “Adam Kadmon”) ma anche storie divertenti (“Me La Dai la D.I.”) o aggressioni verbali ai nuovi loser come i malati di gioco d’azzardo da bar (“Just Cavalle”) e la stupidità in genere (“Mentalità” che canta forza Juve, viva il duce, Vasco Vasco alé alé), o racconti pesanti di squilibri mentali (“NSFW”) e deliri cimiteriali (“Never Forget Cimitero”, “Afoto Patomba”). Rispetto ai Tg precedenti sono meno anche i brani veramente memorabili, a modo loro, ma in tracklist c’è forse la più bella cosa mai scritta dal genio (passatemelo, dai) di Recanati (forse al pari di “Sei Qui Solo per le Telecamere” che puntava su ritmi ballabili e potenti). “C’ho una Persona Dentro” è un pezzo introspettivo, l’unico realmente in prima persona, sia a livello musicale sia testuale in cui La Tosse Grassa (usando per la base Massimo Ranieri – “Perdere L’Amore”, Arcade Fire – “Rebellion (Lies)”, Kirlian Camera – “Ascension” e Riz Ortolani – “Cannibal Holocaust”) racconta di come, nel profondo del suo animo, viva uno spirito capace di metterlo in una condizione di accettazione anche nei confronti di tutto ciò di più fastidioso e ingiusto ci circondi nella vita di tutti i giorni (c’ho una persona dentro che mi fa stare allegro /quando vado a fa spesa e mi chiama capo un negro /c’ho una persona dentro che non dice “capo un cazzo” /ma sorride al ragazzo).
Come detto, la parte musicale è essenzialmente composta di miscele di brani di altri, quindi, superato lo sconcerto iniziale e una volta presa familiarità con i testi assurdi, potreste divertirvi a scovare da quali brani siano formate le canzoni, considerando che La Tosse Grassa ha sempre mostrato una grande conoscenza del mondo della musica, senza mai palesarsi banale nelle scelte, anzi tirando fuori perle notevoli e ostentandosi attento anche alle novità meno mainstream. Qualche suggerimento: Johnny Cash – “Ring Of Fire”, The Cramps – “Garbageman”, Frankie Knuckles – “Your Love”, Kraftwerk – “Numbers”, The Pains of Being Pure at Heart – “Simple And Sure” e tantissimi altri. Per chi avrà apprezzato le cose più movimentate dei capitoli precedenti, sicuramente degne di nota e di sicuro impatto in chiave live vanno considerate “Me La Dai la D.I.” e “Never Forget Cimitero” mentre interessanti sono anche “Mentalità” e “Afoto Patomba”. Arrivato alla fine, viene da chiedersi come si possa esprimere un giudizio reale su un disco del genere perché non esiste assolutamente nulla di paragonabile e TG4 può essere visto sotto una duplice veste. Da un lato muove il gusto per il macabro, il brutto, il rivoltante, che è parte integrante del nostro essere. Dall’altro è un’idea intelligente messa in piedi nella maniera più grezza possibile, orrida in un certo senso ma perfetta per rendere il concetto. Paragonato ai dischi precedenti, TG4 deluderà solo i più legati alla carnalità volgare degli esordi mentre non lo farà affatto con chi ha amato anche il più intelligente messo in mostra nelle ultime cose. In senso assoluto TG4 è un disco volutamente brutto, un album che dovete assolutamente ascoltare una volta, almeno per poter dire con certezza che mai più lo farete ma attenzione, c’è il forte rischio di trovarvi anche voi invischiati nella merda fino al collo, dentro il culto de La Tosse Grassa.
Mark Lanegan – Imitations
Luogo di ascolto: in macchina nel tentativo disperato di incassare un assegno prima del fine settimana.
Umore: come di uno che sta per fare un fine settimana dispendioso.
Mark Lanegan è affetto da un morbo serio e debilitante, nel suo caso è stato colpito da poco e la malattia è solo ai primi stadi: l’ex vocalist degli Screaming Trees è malato della sindrome di Morgan. Già, quella malattia che nei periodi di magra creativa spinge l’ex leader di una band ben riuscita ad uscire con dei dischi di meravigliose canzoni di altri, o come fa figo chiamarle, cover. Certo nel caso di Morgan la malattia che giustamente porta il suo nome è ai massimi livelli, il suo personaggio televisivo oramai è diventato ipertrofico rispetto alla caratura di artista di cui oramai non si ricorda nemmeno un pezzo degno di nota ma molte acconciature di gran bizzarria. Torniamo a Lanegan, Imitations (il titolo è chiaramente esplicativo degli intenti con cui lo si è registrato, evidentemente) è un disco di cover a cui non si può voler male ma nemmeno dire un mondo di bene. L’occhio tra le dodici canzoni che compongono la tracklist mi è caduto subito sull’ultima, “Autumn Leaves” quindi l’ascolto ha seguito una strada piuttosto sghimbescia (per quelli che leggono Signorini, significa storta): era troppa la curiosità di sapere come sir Lanegan avesse affrontato il pezzo più interpretato del sistema solare, sconquassato da sbrodolamenti jazzistici per 40 anni, infangato con versioni in inglese tradotte a membro di segugio (per i lettori di Signorini: a cazzo di cane), deturpato con pronunce francesi improponibili da parte per lo più di inglesi che non sanno altre lingue e dicono agli italiani che non sanno cantare in inglese. Direi che con “Autumn Leaves”, date le premesse, Mark se l’è cavata abbastanza bene; nulla di più però di un buon pezzo riarrangiato in maniera da calcare finalmente il battere di ogni accordo come mi ero disabituato a sentire dopo decenni di spostamenti ritmici swing, con un bell’arrangiamento di archi e batteria in modalità spazzole.
Mark Lanegan penso sia l’unico al mondo, al pari di Johnny Cash, a potersi permettere di cantare a tonalità subumane, avere la presenza scenica della stele di Rosetta (per i lettori di Signorini, il gossip qui non c’entra, Rosetta non è mai entrata nella casa del grande fratello) e al tempo stesso rapirti dal vivo come se non ti trovassi più a casa tua o in un palazzetto dello sport. Quando ascolti la voce di Mark Lanegan la sabbia che al mare trovi nelle pieghe dei pantaloni diventa terra rossa del deserto del Mohave e il cellulare in tasca diventa una pistola nella fondina. Quando ascolti tutte quelle chitarre arpeggiate dal suono così antico e al tempo stesso così caldo pensi di aver sbagliato a nascere nel vecchio continente e ti bombardi il cervello di suggestioni cinematografiche. Imitations poi non è cantato male, anzi; Lanegan dimostra di essere anche un ottimo emissore di note medio alte, arricchendo la sua tavolozza vocale di sfumature che sinceramente non credevo ci fossero. “Brompton Oratory” è un pezzone, davvero azzeccata l’interpretazione e la cornice, “Mack the Knife” è troppo simpatica in veste Country con le acustiche a fare il contrappunto alla melodia della voce, “Elegie Funebre” invece sembra cantata invece che in francese in coreano tanto è brutta la pronuncia . Il disco non è malaccio, ma è sempre un disco di cover e per di più senza nemmeno rischiare tanto, lo vedrei bene come colonna sonora di Nashville, la nuova serie Sky sul Country, ma nulla di più. Da un popò di artista così è lecito e doveroso aspettarsi un disco solo quando ha materiale per farlo, mica deve pagare le bollette come Morgan.
Almeno spero.
TAKE A WALK IN THE WEBSITE, MOLA MOLA WEBZINE NIGHT @ LALLA WAHLALLA
Take a Walk in the Website è l’invito da parte del variegato campionario di umanità che da un anno e mezzo a questa parte anima Mola Mola Webzine a fare una passeggiata tra le connessioni reali e vissute tra musica e ulteriori forme d’arte. Il Lalla Wahlalla offre lo spazio, che verrà trasformato in un luogo metaforico che sappia rispecchiare la struttura del sito stesso, attraverso l’impegno e le attività dei collaboratori. In una cornice adeguatamente allestita con immagini di concerti (scatti di Barbara Della Porta e Ludovica Galeazzi) e con fumetti su audiocassette di carta (il progetto “This is not a love song” della New Monkey Press Records in collaborazione con To Lose La Track, illustrazioni legate a bellissime canzoni d’amore), la serata comincerà con le interviste live, a cura di Anna G Gala e Jacopo Serotti: a rispondere alle curiosità e alle domande, gli Zippo, da poco rientrati in patria dopo il tour europeo, e Antonello Recanatini, che presenterà “Abruzzo invented punk”, prima e prossima uscita della Nova Feedback Records.
A seguire, un reading musicale di testi scritti dai redattori ispirati alle vite di alcune celebrità del mondo del Rock, da Lou Reed a Courtney Love passando per Johnny Cash, Nick Drake, Tori Amos, Depeche Mode e The National, raccontate in prima persona. Protagonisti e interpreti: Barbara Della Porta ed Elettra (voci cantanti), Anna G Gala e Roberta D’Intinosante (voci narranti), Fiorenza Panaccio (tastiera), Mauro Spada e Francesco Politi dei BuenRetiro (basso, chitarra e effetti).
A intervallare i momenti e a conclusione della serata, “Unintelligent love songs”, djset di Luca Benni e Juliet Burke.
A seguire torna ROCK YOUR HEART,la notte rock tutta da ballare,special guest sAx PISTOLS MUSIC SELEKTA !!!
Daughn Gibson – Me Moan
Daughn Gibson, per chi non lo sapesse, è il nome d’arte di Josh Martin, trentunenne ex-camionista della Pennsylvania che con la sua voce tenebrosa e le sue trucide storie di disagio, miscelate ad un Country elettrificato, sta conquistando pezzi di un pubblico sempre più vasto. L’immagine è quella di un ragazzo che percorre chilometri di asfalto sul suo camion in giro per gli USA: nottate in squallidi motel, soste in bettole di provincia piene di ubriaconi e il rapporto con le proprie origini, conservatrici, di provincia. La sintesi del personaggio è stata accostata al mitico Johnny Cash, sia per il tipo di storie raccontate, storie di gente emarginata, borderline, sia per il modo di interpretare il proprio personaggio. Ovviamente, anche se ci sono punti in comune fra i due, Daughn dovrà fare la sua parte e dimostrare nel tempo, con una dose massiccia di creatività, questo accostamento a un mito del Rock Made in U.S.A..
Dopo il suo primo lavoro All Hell (2012), edito dalla White Denim Records e scovato da Pitchfork che l’ha reso noto al grande pubblico, Me Moan è il suo secondo album, uscito all’inizio di quest’estate. Pieno di un Country sgocciolante e una ritmica abissale ha sorpreso tutti quando la mitica Sub POP Records l’ha rilasciato. Ma c’era da aspettarselo che una qualche etichetta di rilievo si occupasse di una voce così spessa e profonda. Nel passaggio tra le due case discografiche Gibson al momento perde parte della narrazione, le storie diventano storielle meno definite e più aperte allo specchio dell’ascoltatore con la melodia che segue provando ad essere meno introspettiva e più addolcita per un pubblico più vasto; Meno suoni campionati e una ritmica minimale. Rimane validissima la sua rielaborazione della Country Music che si porta dietro fatta di note elettriche miscelate alla classica strumentazione Rock che attribuisce uno stile evocativo ai suoi testi che insieme alla sua voce ci trasportano in una sorta di altare dove vengono sacrificati emarginati, disadattati, mignotte, tossici e marchettari.
Anche se Me Moan si distanzia dal precedente lavoro sacrificando originalità e scaltrezza a favore di un risultato più tondo e immediatamente usufruibile per il pubblico, rimane sempre la sua voce baritonale che ci schiaccia vorticosamente in questi oli raffiguranti situazioni ai bordi della società. Un po’ a tinte scure e struggenti come in “Franco” storia di isolamento, un po’ ballata Country come nel primo singolo estratto “Kissin on the Blacktop” che potete ascoltare qui sotto e un po’ Dance con ululati di fantasmi campionati con “Phantom Rider”. Un album più disomogeneo e meno raffinato rispetto l’esordio ma nel complesso produce un onda tra le varie canzoni che lo fanno scorrere per tutti i suoi settanta minuti. Da non perdere assolutamente anche “Mad Ocean”, “You Don’t Fade” e la finale “Into The Sea”.
Mr Gibson con la sua voce si spinge sicuramente sempre un po’ più nell’eden dei cantautori americani anche se per arrivare anche solo alla cinta di Mr Cash avrà bisogno di molta fortuna nel panorama vaporoso della musica attuale e probabilmente di una chitarra.
Cut/Julie’s Haircut – Downtown Love Tragedies (Part I & II)
I progetti che includono solamente cover sono spesso visti con occhio critico, si pensa subito alla perdita di ispirazione, ad un facile appiglio per acquietare un poco gli stomaci voraci degli ascoltatori.
Personalmente non la vedo proprio così e rompo una lancia a favore di chi ancora oggi crede nella cover. Chi la violenta, la rivolta, dandogli un proprio significato, oppure chi la conserva, magari la rende meravigliosamente scarna (pensate ai brividi provati da Trent Reznor nell’ascoltare “Hurt” rivista da Johnny Cash!) mantenendo lo spirito e la naturalezza delle vibrazioni “originali”. In entrambi i casi la cover ha il suo sporco perché e la band registrando una cover si mette in gioco più che mai.
Questo che abbiamo davanti è un progetto indubbiamente ambizioso. C’è da dire che si parla di due nomi che a mettersi in gioco sicuramente non hanno paura. Un 7’’ splittato con due cover soul interpretate da due formidabili band del nostro paese molto legate tra loro. I brani in questione sono “Emma” degli Hot Chocolate (versione originale) interpretata dai garaggioni bolognesi Cut e “Who is he and who is he for you” di Bill Withers (versione originale) stravolta dalla psichedelia dei Julie’s Haircut. Potete capire come la scelta di queste due canzoni sia ambiziosa quanto singolare per due gruppi che nel panorama nostrano ci hanno abituati a ben altri sound.
Partiamo dai Cut, che per altro di questi esperimenti sono pratici (per esempio la rivisitazione del classicone di Prince “Sign O’ the times”). “Emma” gioca sulla dinamica: prima intima, lontana migliaia di pianeti dalla Terra, poi il chitarrone che ci risbatte sul pavimento, ma nonostante la botta non ci svegliamo. Rimane tutto onirico e confuso. Il sogno però non è per nulla piacevole, è straziante, agonizzante. La voce, l’hammond e le chitarre di Ferruccio Quercetti e Carlo Masu marciano indisturbate in questa odissea spaziale accompagnata dal semplice e dinamico groove di batteria. La versione degli Hot Chocolate viene conservata, certo meno black, ma altrettanto intensa e forse addirittura più straziante. In questo episodio la “tragedia d’amore” fa male. Bella pugnalata inaspettata, una lenta agonia.
I Julie’s Haircut si sa, sperimentano a tutto andare senza mai trovare un punto fermo. In continuo movimento e mutamento (e sia chiaro ci piacciono così!). Qui rubano il riff di “Little Johnny Jewel” dei Television e sparano una versione tastierosa, vetrosa, tetra e anche qui distante e spaziale. Si rimane in aria, appesi. Forse questa cover risulta snaturata della semplicità della soul music e sarei curioso di sapere cosa ne penserebbe il buon vecchio Bill Withers in mezzo a tutti questa elettronica e questi accenni post punk. Si perde il ritmo ballabile ma non la tensione, che viene addirittura amplificata dalla band di Sassuolo in un crescendo sintetico, piccola salita che arriva dritta allo strapiombo.
Questo split funziona, è “genuino” (lo dicono gli stessi Julie’s Haircut!), arricchisce e scarnifica le perle “originali”. Le gratta a mani nude per riappiccicarci sopra vestiti nuovi, conservando li da parte i vecchi pezzi, pronti ad essere rincollati da un momento all’altro.