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Shut Up Much – Rapporti di Forza

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Nati nell’autunno del 2011 gli Shut Up Much fondono una moltitudine di generi, spaziando dall’ Elettronica al Post Rock, una mistura che dà vita a Rapporti di Forza, un lavoro incentrato sui rapporti interpersonali e sulla fragilità degli stessi. Un concept ambizioso e fuori da ogni stereotipo.
Il disco prende piede con “Molecola”, scandita da una batteria tombale e dalla voce profonda di Antonio. Lo scenario è meno asfissiante in “Xanax”: i toni vorrebbero rilassarsi, ma permane un’atmosfera ipnotica in un cui la tensione è tangibile. “Nichilismo” parte con un piglio Dance, si evolve nella New Wave dei Joy Division e, a conti fatti, è vicinissimo allo stile dei Subsonica. Quest’ultimo tratto risulterà dominante anche nella seguente “Il Silenzio di Much”, accostando alla citata influenza una pennellata Dark Ambient. Andando avanti ci muoviamo tra la falsa spensieratezza di “Pop TG”, l’Industrial tribale di “Pope Nope” e le chitarrone corrosive della title track, a cavallo tra Rammstein e Franz Ferdinand.
Rapporti Di Forza è la sagra delle buone occasioni mancate. Molta carne al fuoco. Pochi concetti sviluppati nella loro interezza. Conto di ascoltare in futuro un qualcosa di meno abulico generato da questi ragazzi di Salerno, forte del fatto che si scorgono spiragli positivi disseminati qua e là all’ interno dell’album.

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Nero – Lust Souls

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Nero è il colore giusto. Perfetto per lo sporco suono New Wave che produce, con tanto di chitarre insistenti e una voce cupa, sensuale e viscida come la pelle di un serpente. Il suo disco d’esordio Lust Soul è il perfetto connubio tra vintage e modernità. Nero di certo non è un novellino, ma annovera un passato con band del calibro dei The Detonators e The Doggs (per altro recensiti dal sottoscritto qui su Rockambula qualche anno fa). Il suo background è dunque fissato su solide basi di sporco Rock’N’Roll, tra Black Sabbath e Stooges per intenderci. Indubbiamente in questo lavoro solita la sua rotta vira verso sonorità più lente e scure, più ossessive e più schizofreniche. Come la stupenda “I’m The Sin”, un vortice di passione dentro la frenesia dei Joy Division senza perdere il senno, grazie a una melodia trascinante. Il suono dietro è perfetto, curato in ogni minimo dettaglio: rullante che martella il nostro cervello, basso cadenzato e ben definito che scombussola il nostro bacino. “In my Town” è un piccolo capolavoro minimal, quello che sarebbero i Depeche Mode senza una mega produzione e senza dimenticare le tenebre di Ozzy e dei suoi Black Sabbath. Guardando ad una città più grande, scappa anche la vicinanza alla New York decadente di Lou Reed. La canzone è un viaggio psichedelico in una grotta completamente buia, umida senza via d’uscita, ma con la consapevolezza che nessuno ci farà del male. Sicurezza che viene meno nella terrificante “Bleeding”, ritmica quasi Doom immersa in chitarre ululanti e un piano che compare ogni tanto come uno spaventoso fantasma. I ritmi si innalzano in “Over my Dead Body”, riff Punk venuto dallo spazio, basso incalzante e synth svarionanti dominano l’atmosfera e ci introducono in un crescendo interminabile. Come se Marc Bolan e i suoi T-Rex incontrassero in studio i Daft Punk. Nero riesce con grande naturalezza a mischiare sensazioni, suoni, spazi e periodi storici. Il tutto grazie ad un’improbabile macchina del tempo, scassata, ma terribilmente efficace. “Old Demons” è superba, sembra uscita in due minuti di prove e ha l’efficacia di essere vera e nostra. Ci togliere dal tunnel buio per portarci a braccetto negli inferi, dove rimaniamo bloccati fino a “Spirit”. Battiamo il cranio contro un muro rovente. Si questa elettronica è calda, è vera come un Les Paul collegato al suo Marshall JCM 800. Nero poi ci saluta con le schitarrate distese di “Tomorrow Never Comes”, riporta tutto alla semplicità, ad un triste epilogo, a un dolore viscerale. “Vedrai un grave dolore e in quel dolore sarai felice”, scriveva Dostoevskij.

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MUSICA E CINEMA: Che Film Ascoltiamo Stasera?

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The Underground Youth – Haunted

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Tanta cassa dritta, voce cupa, monotona e suoni sommessi e ovattati. Non è un caso che The Underground Youth provenga dalle stesse terre della più grande band Post Punk mai esistita, i Joy Division. Il solco è quello ma con sfumature sintetiche e psichedeliche maggiori, un’attitudine rivolta più al Gothic che al Punk e un suono tendenzialmente Wave che se non fosse per l’indolenza delle ritmiche sarebbe perfetto per far ballare i vampiri quasi a guisa di violenta Ebm (“Drown in me”). Quelli che sembrano i punti di forza di Haunted finiscono inevitabilmente per diventarne gli stessi limiti. Laddove le chitarre osano con più insistenza, si evidenziano non solo le influenze della band di Manchester ma anche le similitudini con formazioni contemporanee ben più note e talentuose. Stessa cosa possiamo rilevare nella sezione ritmica e se da un lato ci si potrebbe aspettare un qualche conforto dalla voce, non resta che rassegnarsi anche alla sua banale piattezza e timbrica involontariamente sgradevole. Tutte queste considerazioni sembrano far protendere il giudizio verso una solenne bocciatura eppure c’è qualcosa di buono in questo settimo Lp della band formatasi solo nel 2009 (certo quello che non le manca è la prolificità). Quando le derive psichedeliche si fanno più marcate e Craig Dyer e soci prendono le strade più Experimental Noise Rock (la parte iniziale di “Self Inflicted” ad esempio o “The Girl Behind” che può ricordare certi Have a Nice Life o ancora “Slave”) mostrano tutto il loro potenziale talento e il rimpianto è di non aver assistito alla definitiva crescita stilistica di una formazione che probabilmente avrebbe potuto dare molto di più al genere pur avendo fornito prova di evoluzione considerevole rispetto agli esordi.

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Sorry, Heels – The Accuracy of Silence

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Ci sono voluti dei finlandesi per dare una svolta alla carriera degli italianissimi Sorry, Heels. Sarà a causa di un genere piuttosto internazionale come il Gothic Rock, spesso non compreso appieno nella nostra terra. Se la fiducia al giorno d’oggi sia un azzardo o meno lo scopriremo ascoltando The Accuracy of Silence, loro primo album ufficiale dopo due EP autoprodotti, passati in sordina. Le atmosfere decadenti di “Light’s End” e “Carving a Smile”, gemelle di Joy Division e Bauhaus, non sono ben sorrette dalla voce piatta di Simona. Scoprirò più avanti che non sono episodi isolati: c’è un piattume di fondo in quasi tutto il disco. Pochi momenti rompono il confine dell’approssimazione. Sono racchiusi nel bel ritornello di “Last Day on Earth” e nella linea melodica di “Fragments”, un brano che sta alla New Wave come i Germs stanno alla Musica Classica. Anche la cover di “N.I.B.” dei Black Sabbath interpretata in chiave Gothic resta un esperimento evanescente che grida vendetta. In The Accuracy of Silence è un sound crudo e spietato a spadroneggiare, soffocando la vena artistica dei quattro ragazzi laziali, lasciando il senso di un lavoro svolto a metà. Mi aspettavo un Van Gogh e mi sono trovato tra le mani un dipinto di Teomondo Scrofalo. Delusione.

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La Band della Settimana: We Are Waves

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I We Are Waves sono un gruppo italiano, originario di Torino, di musica New Wave contaminata da elettronica moderna. Il gruppo è composto da Fabio Viassone, Cesare Corso, Fabio Menegatti e Francesco Pezzali. Esordiscono con un EP di 4 brani nel febbraio 2012. Dopo un periodo fitto di date live, il gruppo pubblica nel 2014 il primo album, Labile, diffuso dall’etichetta Memorial Records. Il disco viene ottimamente accolto da pubblico e critica, che in poco più di un anno annovera i WAW tra le “migliori band di genere in Italia” (Rockit). Nell’arco del 2014 intraprendono un lungo tour italiano. Nell’Ottobre dello stesso anno iniziano le lavorazioni ai pezzi del secondo album, “Promises“, pubblicato dall’etichetta valdostana Meatbeat Records a Maggio 2015. Tra le influenze più importanti vi sono molte band new wave attive negli anni ’80 come The Cure (cui hanno dedicato una personale rivisitazione del classico “A Forest” nel loro disco d’esordio), Joy Division, Sisters Of Mercy, Tears For Fears. Ma anche il wave-rock moderno di White Lies ed Editors, e soprattutto l’elettronica di stampo synth-rave di Nero, Vitalic, Gesaffelstein, The Toxic Avenger. Le atmosfere e i testi dei We Are Waves sono frammenti di quotidianità riverberati in una cornice introspettiva, dove malinconia e fragilità si alternano a un senso di determinazione e consapevolezza, in un continuo gioco di chiaroscuri. In quest’ottica “Promises” è il rito di iniziazione a una nuova fase della vita, là dove Labile ha rappresentato la catarsi da una serie di demoni personali.

 

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We Are Waves 20/06/2015

Written by Live Report

We Are Waves @ Blah Blah, Torino, 20/06/2015

Breve e doverosa premessa: il mio primissimo incontro con i We Are Waves non avviene durante un live con tutta la band al completo, ma durante una festa di quartiere (quartiere Vanchiglia, Torino), in un negozio di dischi (Gravity Records) dedicato alle etichette indipendenti, dove la band ha suonato in formazione di electro-set che vedeva rispettivamente il cantante Fabio Viassone e Cesare Corso, alle prese con chitarra e sintetizzatori. Da quel primo casuale incontro, intuisco che la musica che stavo ascoltando era qualcosa di speciale; lo capisco dal fatto che mi ritrovo improvvisamente a sorridere, e comincio a sentire dentro una sensazione rassicurante, del tipo “Eccoti qua finalmente, ti stavo cercando”. La questione andava comunque approfondita, mica ci si può fermare alle prime impressioni. Compro Promises, quando torno a casa me lo sparo nelle orecchie, ed è stato come averli là, tutti: The CureJoy Division e tanti, tanti altri, tutti a dare il proprio contributo a quel disco dai toni così decadenti ed attaccati alla tradizione New Wave, ma che allo stesso tempo suonava moderno, influenzato di certo dalla tradizione elettronica torinese, e non un disco-fantoccio dalle finalità esclusivamente evocative. Il mio desiderio è quello di poterli riascoltare a breve, e l’occasione si presenta in fretta per il release party di Promises al Blah Blah di Torino. Fine della premessa.

Mentre Torino si prepara alla visita del Papa a botta di maxischermi e transenne lungo tutta via Po, il Blah Blah si prepara al live della serata sfoderando i propri santi protettori; ecco comparire sull’amplificatore l’effige di un altro famoso papa, “Papa Morrisey”, giusto per rendere chiara a tutti la religione che si segue in certi luogo di culto. Dopo più di un anno i We Are Waves tornano a suonare nella propria città con un concerto questa volta che vede la band al completo, nella formazione di Fabio Viassone alla voce e chitarra, Cesare Corso ai sintetizzatori, Fabio Menegatti al basso e  Francesco Pezzali alla batteria.

Il pubblico è di certo quello bello ed affettuoso di chi gioca in casa, ricco degli amici di una vita che vengono a festeggiare un nuovo traguardo, ma non solo; sono tanti i curiosi ed amanti della musica accorsi per sentire dal vivo quello che in digitale li ha tanto entusiasmati. Il risultato? Il Blah Blah è stracolmo di gente.  E Promises è un album che merita tutto questo affetto. Lo percepiscono maggiormente le anime inquiete, per le quali questo disco è come una goccia nel mare sconfinato delle proprie solitudini, e che nella sua versione live, grazie ai suoni ed alla voce intrisi di malinconia, riesce ancora di più ad arrivare in quei luoghi carichi di ferite, ed alleviare quel dolore che solo nella musica, certa musica, può trovare ristoro. Promises viene suonato quasi per intero, mentre gli ultimi pezzi sono quelli di Labile, disco del 2014.

A concerto finito la sensazione è bellissima, e se qualcuno venisse oggi a chiedermi: “Fanno musica New Wave, un genere che ha visto i suoi anni migliori all’incirca 30 anni fa. C’era davvero bisogno di un gruppo così?”. La mia risposta sarebbe: “Si. Ce n’era un disperato bisogno”.

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We Are Waves – Promises

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Arrivato sul mercato da quasi due mesi per l’etichetta valdostana MeatBeat Records, Promises (secondo album della band dopo Labile del 2014, uscito per Memorial Records) è un disco che fa sperare parecchio pur mettendo subito in chiaro un legame col passato consistente sia sotto l’aspetto estetico e formale, sia sostanziale e che tocca tanto la parte lirica quanto quella strumentale. Un’affinità con gli anni Ottanta che si nota presto non solo dall’ascolto delle prime note dell’album ma anche con la lettura dei titoli stessi dei brani (l’orwelliana “1982” su tutte) e nella bellissima immagine di copertina che ritrae dei ragazzini con gli sguardi tesi a narrare la storia di due fratelli di cui il maggiore, cresciuto inevitabilmente troppo in fretta, si trova a dover proteggere il più piccolo dalle sue paure. Diventare adulto non è una scelta e forse non lo è neanche il mantenere un legame con le proprie radici. Questa sembra la chiave di lettura principale di Promises, album in grado di evocare gli Ottanta ormai lontanissimi nel tempo, celebrandoli nella loro avvenenza e non nelle trashate da amarcord televisivo ma nello stesso istante capace di andare oltre, avvolgersi alle contaminazioni del presente, provando a smascherare un futuro prossimo che conservi comunque intatta l’anima rock decadente dei protagonisti.

Undici tracce che smascherano e infondono tutte le emozioni incontrate in qualsiasi processo di crescita, siano esse il tormento per l’inconsapevolezza del domani, la depressione di chi sa che andare avanti significa inevitabilmente abbandonare qualcosa di sé e del mondo che ha amato, ma anche la risolutezza di chi è convinto di poter raggiungere i propri obiettivi e con essi una felicità dalla forma sconosciuta. Pur giungendo da un mondo non certo famigerato per la sua ilarità, Promises non è dunque un lavoro prettamente disilluso e non lo è tanto nei testi, quanto nelle melodie, nonostante tutto, dai suoni scelti, alla timbrica di Fabio Viassone, lascino supporre il contrario.

Le promesse di questo bellissimo disco, di questa più che promettente formazione torinese, prendono spunto dagli Ottanta di The Cure, Joy Division, Sister of Mercy, Tears for Fears tendenzialmente seguendo lo stesso solco di un’altra band molto interessante, i Christine Plays Viola, ma rilevando di queste radici, non tanto gli aspetti Dark quanto quelli Post Punk e Synth Wave e quindi finendo per mettersi sulla ruota dei capiscuola del revival, se non tanto The National e Interpol, troppo Indie Rock al confronto, piuttosto Editors, White Lies ma anche The Prids e Les Savy Fav, finendo, in più di una circostanza, per buttarci giù dalla sedia, costretti a muovere il culo sotto ritmiche da disco eighties.

Se per molti i Soviet Soviet non hanno rivali in Italia nel genere, siamo pronti a scommettere che non passerà molto tempo prima che i pesaresi dovranno avere a che fare con questi We Are Waves.

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La Band della Settimana: Open Zoe

Written by Novità

Open Zoe è la rinascita di un progetto musicale i cui componenti si erano incrociati in altri progetti in vite precedenti. Per alcuni di essi l’abbandono dell’attività musicale era già realtà, per altri era un approdo delineato a seguito di delusioni e stanchezza. Dionisia, Enrico ed Ettore avevano condiviso l’esperienza musicale del progetto Etabeta (pop-rock con innesti di elettronica) che negli anni a cavallo tra il 97 e il 2002 aveva raccolto significativi riscontri in concorsi anche nazionali, recensioni (due mini cd all’attivo) e date in giro per l’Italia e Francia (anche di supporto a Bluvertigo, Cristina Donà, Rosso Maltese, Delta V) Enrico e Lele avevano portato avanti negli anni 2002-2010 gli Aulasei, gruppo di matrice dark-wave, che altresì aveva prodotto un cd e ottenuto lusinghieri riscontri critici. Tra il 2011 e il 2013 in tempi diversi Ettore e Dionisia (entrambi lontani dalla musica praticata da parecchi anni) accettano l’invito di Lele ed Enrico per dare vita ad un nuovo progetto che parta dal substrato wave degli Aulasei per svilupparsi in ambienti meno oscuri e più diretti e aperti. Tra il 2013 e il 2014 trovata l’amalgama tra i componenti e individuata una linea comune viene scritto e arrangiato il materiale per il primo disco Pareti Nude che viene registrato in varie tranche in un periodo di un anno e mezzo tra metà 2013 e inizio 2015. I testi sono di Lele Mancuso, le musiche nascono a quattro mani prendendo spunto da idee individuali. La matrice di partenza del suono Open Zoe viene riconosciuta nella new wave anni ’80 di band quali The Sound, Echo and the Bunnymen, Joy Division, Chameleons, primi U2. Lo sviluppo degli arrangiamenti e la robustezza del suono ha portato tuttavia alcuni a riconoscervi esperienze degli anni ’90 che hanno messo insieme musica organica ed elettronica (Radiohead e certi Pumpkins). Poche le incursioni live nel periodo di scrittura del disco, la band del resto è composta da musicisti che, spesso insieme nelle esperienze precedenti, hanno calcato decine e decine di palchi.

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Ascolta la cover di “Ceremony” suonata dai Morning Tea

Written by Senza categoria

“Ceremony” è un pezzo scritto dai Joy Division prima che Ian Curtis morisse. E’ stato successivamente pubblicato dai New Order nel 1981 come singolo di debutto. In questa inedita versione suonata dai Mornig Tea (Sherpa Records).

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Santo Barbaro – Geografia di un Corpo

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Quando una band è diversa dalle altre si vede da subito, non serve a niente sperare in miglioramenti futuri, partire con il piede giusto è fondamentale nella musica come in qualsiasi altra disciplina. I Santo Barbaro registrano dischi dal 2008, da quel Mare Morto che da subito aveva fatto notare le spiccate capacità artistiche del gruppo, composto originariamente dal cantautore Pier Alberto Valli e dall’arrangiatore Franco Naddei. Il nuovo, Geografia di un Corpo, è stato realizzato con il contributo di svariati musicisti, Giuseppe Righini, Michele Bertoni, Roberto Villa, Francesco Tappi, Lucia Centolani, Diego Sapignoli, Matteo Teio Rosetti, Michele Camorani, oltre ai due membri originali. Bene, abbiamo finito le noiose presentazioni da comunicato stampa, quelle obbligatorie, quelle che nella maggior parte dei casi irritano il naso, adesso iniziamo a parlare del disco. Se qualcuno afferma ancora che la New Wave è morta può anche iniziare a smettere di farlo, Geografia di un Corpo è un lavoro di matrice nettamente New Wave (almeno nelle sue iniziali intenzioni). Ascoltando “Lacrime di Androide” è inevitabile fare paragoni con i mostri sacri della New Wave, le chitarre e la batteria suonano in perfetto stile Joy Division, la voce molto ferrettiana armonizza in stile Post Punk. Questo pezzo tira maledettamente bene, viaggia dura e longilinea per tutta la durata, non poteva esserci miglior modo per iniziare il disco. Mi sono anche emozionato, in certe occasioni ancora riesco a farlo, ascoltando la melanconica “Cosmonauta” è inevitabile, il cuore si stringe nel petto, la lacrima ci scappa. Ho pensato al mio funerale, potrei benissimo usarla per sostituire, nel caso non fosse disponibile, la già scelta “Atmosphere”(Joy Division). In questo disco i Santo Barbaro sono in grado di rigenerarsi ad ogni occasione, c’è sempre il colpo di coda che non ti aspetti, la sterzata brusca ma decisamente gustosa (nei limiti!). Infatti, quando Geografia di un Corpo arriva più o meno verso la metà, precisamente alla traccia “Corpo non Menti”, le sonorità assumono riff indiscutibilmente più Rock. I Santo Barbaro decidono di aprire le finestre, fuori ha smesso di piovere, il sole brilla alto nel cielo, perché non lasciarlo entrare a scaldare le nostre anime? (“Ora il Presente”). Ma i temporali non si fanno certo annunciare, tutto diventa nuovamente scuro, piove insistentemente, ancora. Con la conclusiva “In Memoria di Nessuno” il viaggio finisce cavalcando il brivido della disperazione, questa canzone mi rende triste, insicuro, e questo non significa certo negatività. Geografia di un Corpo suona in maniera meravigliosa a volte, meno brillante in altre, soprattutto quando senza volerlo accosto quello che ascolto a qualcosa di poco originale. Adoro la loro foga New Wave, quando suonano in questa maniera riescono ad entrarmi dentro, quando decidono di far entrare la luce non mi colpiscono affatto. Un bel disco, la presa diretta trasmette tante emozioni, i Santo Barbaro si confermano un’interessante realtà del panorama musicale italiano, sanno sempre rimettersi in gioco elaborando ogni volta roba diversa, onore alla loro musica.

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Ash Code – Oblivion

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Immaginate di camminare in una strada di periferia, una di quelle buie illuminata quel poco che basta da un paio di lampioni e dall’insegna neon di quell’unico bar presente, la meta perfetta per una notte in solitudine tra whiskey e sigarette. Una strada ai piedi di enormi grattacieli equiparabili solo a giganti di pietra, il tutto avvolto da una fitta nebbia. Questo è grossomodo lo scenario che si crea ascoltando Oblivion, il nuovo disco degli Ash Code. La band napoletana propone un sound che miscela il Dark con l’Elettronica; per essere chiari immaginate i Joy Division con un sound Elettronico, otterrete la coraggiosa proposta degli Ash Code. Nel disco c’è la cupezza e l’angoscia di quei gruppi Dark che hanno segnato la New Wave degli anni 70 e 80, il tutto amalgamato con dei synths e degli effetti che tanto piacciono ai Ministry. Oblivion è un disco di un certo livello che mette in evidenza la torbida indole degli Ash Code. La bellezza del disco sta nella sua capacità di coinvolgimento, insomma, ti trascina lievemente in oscure atmosfere. La voce di Alessandro è simile a quella di Ian Curtis, ha la stessa tonalità bassa e oscura. Claudia invece è un portento con i suoi synths, è colei che effettivamente crea la magia intorno alle canzoni. Infine c’è Adriano capace di mantenere ritmi eccezionali. In Oblivion ogni traccia ha una sua particolarità, anche se, personalmente, ritengo che la migliore di tutte sia “Waves With No Shore” con la sua melodia sinistra che ti fa decisamente viaggiare con la mente. La successiva “Dry Your Eyes” mette bene a fuoco il connubio tra Joy Division e Ministry: lo stile dei primi con l’elettronica dei secondi. “Crucified” ed “Empty Room” sono due tracce che danno la possibilità di ballare e muoversi a tempo. La titletrack ha un particolare suono in cui i synth e gli effetti ricordano tanto una di quelle musichette di quei videogiochi del Megadrive o dello Snes; se qualcuno ha giocato ai primi Splatterhouse si renderà conto delle interessanti similitudini. Passiamo direttamente a “Drama”, un altro pezzo da novanta in cui il grosso del lavoro viene svolto dalla talentuosa Claudia: la sua calda voce è accompagnata da plasticose e cupe melodie. La chiusura del disco spetta all’angosciante “North Bahnohf”: tetri synth ed oscuri effetti si accostano ai bassi toni di Alessandro. Con Oblivion parliamo di un album di alta classe che suscita un miscuglio di emozioni; è suonato bene e gli Ash Code sanno il fatto loro. Appena ho ascoltato questo lavoro sono subito rimasto rapito da quel particolare sound costruito su effetti e melodie che, in un modo o nell’ altro, ti riportano a pensieri di ogni tipo. E’ un disco da ascoltare assolutamente.

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