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InSonar/Nichelodeon – UKIYOE (Mondi Fluttuanti)

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Ogni volta che ci si prepara all’ascolto di qualcosa che sia stato forgiato dalla feconda e geniale mente di Claudio Milano, il sole della galassia InSonar/Nichelodeon, si ha sempre un po’ di riverente riguardo che non spinge istintivamente a pigiare il tasto play per far decollare le sue note. Sai che quello che ti aspetta sarà un lungo viaggio, intenso e profondo che ti travolgerà, volente o nolente, in un’esperienza che solo alla fine capirai in che misura incantevole, sulla base di quanto ti sentirai una persona migliore o meno. Serve del tempo per ascoltare, guardare, leggere, provare nel profondo del cuore tutto quello che è racchiuso in questo UKIYOE (il significato letterale è proprio mondi fluttuanti e si riferisce ad una cultura e conseguentemente un tipo di stampa nipponica) e proprio la necessità di tempo da dedicare all’arte è la peculiarità primaria che rende le opere targate InSonar/Nichelodeon quanto di più distante dall’universo musicale/commerciale attuale, dove le band durano il tempo di passare dalla neve al sole e i brani si metabolizzano come jingle pubblicitari. Questa disuguaglianza è la grande forza degli Insonar/Nichelodeon ed anche il colossale limite che forgia il destino di Milano dentro la gabbia senza sbarre della nicchia underground.

L’ultimo mio approccio con i Nichelodeon risale allo scorso anno, in occasione dell’ascolto di L’Enfant et le Ménure/Bath Salts che fu per me anche l’occasione di conoscere l’altra creatura nata dalla mente di Milano, gli InSonar, ormai diventati una sorta di gemello siamese del più noto progetto Avant Prog. Si trattava di un lavoro enorme, sia come durata (quattro i dischi che lo compongono) sia per energia; un album che mi trascinò per mesi e che, ancora oggi, mi divora lo spirito in quei giorni in cui la consuetudine non basta. Quel disco, che fu l’apice di tutti i miei ascolti di quell’anno, è diventato indiscutibilmente la pietra di comparazione per ogni altra realizzazione di Claudio Milano, che si parli delle fatiche precedenti o di quelle future, il punto massimo che probabilmente mai si potrà valicare. Proprio in quest’ottica, vado dunque ad approcciarmi al nuovo UKIYOE, cercando di tralasciare, per quanto possibile, gli aspetti formali e biografici che ormai dovrebbero essere noti a tutti o che altrimenti v’invito a ricercare negli antecedenti scritti inerenti al nostro Milano. L’opera (in uscita a novembre per Snowdonia), come spesso accade, non si limita a una proposta uditiva e, come per il precedente prodotto, si mostra come una raccolta di stelle, ospiti più o meno noti ma comunque tutti d’importanza capitale in ambito sperimentale e vocale. Troveremo dunque la complicità di OTEME, Deadburger Factory, Garden Wall/Genoma, dei compositori Josed Chirudli ed Erica Scherl, di alcune tra le più grandi voci italiane del momento come Dalila Kayros, Stefano Luigi Mangia, Laura Catrani e tanti altri. Il punto di partenza dal quale tutto muove, il concept attorno al cui orbitano parole, musica, disegni e immagini, è il mare con i suoi movimenti, la costruzione e la distruzione della forma qui trasformata in sostanza materiale attraverso il lavoro di Milano che ha condotto i diversi arrangiamenti dei tanti compositori, assegnando in studio a ognuno un canale, alzato e abbassato in maniera improvvisata per comporre una struttura sia consistente, sia luminosa, alternativamente.

Prima di passare alla musica, merita attenzione l’artwork del digipack, realizzato con le illustrazioni dello stesso Milano. Disegni splendidi, gonfi di colori freddi che si mischiano a immagini confuse creando una specie di fusione tra un mondo reale, dato dalla solidità apparente della terraferma delle umane certezze, e uno formalmente illusorio dato dalla fluidità della coscienza, dal mare e da tutti quei movimenti dell’animo che esso inevitabilmente genera e che l’hanno reso il protagonista di una vastità di opere letterarie divenute capisaldi anche della nostra personale formazione culturale e umana, da Proust a Melville, da Conrad a Hemingway. Dopo aver goduto delle illustrazioni che ho potuto apprezzare anche nel formato originale, si passa all’altro elemento non prettamente musicale dell’opera. Il Dvd che affianca il disco è un breve film del regista d’avanguardia Francesco Paolo Paladino, promotore del progetto e finanziatore dello stesso. Quickworks & Deadworks, questo il titolo, affronta lo stesso tema partendo dalle inquietudini che l’atmosfera marina suscita, ovviamente con l’aiuto della musica degli InSonar/Nichelodeon. Le fotografie del film, della durata di circa mezz’ora, saranno le stesse che, mescolate alle illustrazioni, comporranno l’artwork. Una piccola nave spiaggiata ai piedi d’un bosco, una voce fuori campo che descrive il momento, due coppie, una di giovani vestiti di bianco, una di adulti in nero, si allontanano dall’imbarcazione, avvicinando l’obiettivo. Si ritrovano su una terrazza. La telecamera è fissa e riprende il quadrato nel quale i quattro sembrano idealmente imprigionati. I giovani chiacchierano allegri sul parapetto, gli adulti, preoccupati e quasi disperati, sono seduti alle sedie d’un tavolino. I loro mondi paiono distanti ma con il passare del tempo, il salire del vento, quei mondi finiranno per collimare.

A questo punto approdiamo alla parte musicale, ai sei brani che compongono i mondi fluttuanti qui dipinti. Come i più attenti seguaci del verbo Nichelodeon potranno immaginare, oltre alle sette ottave donate dalla voce di Milano, il tutto si compone di una marea infinita di strumenti e musicisti. Violino, violoncello, arpa, viola, clarinetto, sax, voci di ogni tipo, chitarre di ogni tipo, elettronica, le più disparate percussioni anche non convenzionali e tantissimo altro. Scegliere dei punti di riferimento precisi è difficile. Si citano da Robert Wyatt all’accoppiata Nico / Cale, dagli Swans recenti di The Seer a Henry Cow, da Fausto Romitelli a Scott Walker, passando per David Sylvian, Kate Bush, Radiohead, Liars, Ulver, Carla Bozulich, Tim Buckley, Burial, Nine Inch Nails, Tool, Joy Division, Dead Can Dance, Current 93 e tantissimi altri. Talmente numerosi che pare di aver detto tutto che è un po’ come non dire niente. Perché alla fine non mente Milano quanto indica tutti questi come punti di riferimento; in fondo, ogni album che un musicista ascolta nel profondo fino a farlo veramente suo, finisce per costruire anche un solo piccolo frammento della personalità di quell’artista e, inevitabilmente, ogni pezzettino di sé andrà a costruire in un modo o nell’altro, ciò che poi è il risultato del suo estro. Tuttavia non lasciatevi ingannare da questi nomi. Le sperimentazioni di Claudio Milano solcano gli stessi mari già attraversati in precedenza. Dunque sarà la Modern Classical a farla da padrone, sullo sfondo di una voce sempre tesa tra melodia e sperimentazione (“Veleno”) o ancora le reminiscenze da scena di Canterbury (“Fi(j)uru d’acqua (Fiore/Figlio d’acqua)”), le tensioni nervose dell’Avant Prog (“Marinaio”), la teatralità di certo cantautorato (“Ohi ma(Nel Mare che hai dentro)”) che non disdegna di usare il dialetto per rendere al meglio certe suggestioni. “I Pesci dei tuoi Fiumi (Ezechiele 29:4; 29:5)” è forse il momento più terrificante, spaventoso e violento, certamente a suo mondo più moderno, quello che più si strappa dal passato per protendersi verso le future trepidazioni di un certo Art Pop sperimentale, enigmatico e apocalittico, quasi musica astratta se non fosse per le parole (in questo disco sempre o quasi in lingua italiana) che imprimono precise linee di demarcazione che altrimenti sarebbe impossibile seguire. Avanguardia pura che trova il suo compimento nella conclusiva “MA(r)LE”, che regalerà anche magnetismi autechriani ma dal sapore mediterraneo oltre ad un’infinità di altre immagini che spazieranno attraverso tutte le influenze suddette dei nostri, in una sorta di lungo excursus riassuntivo.

Giunto alla fine, resta l’impagabile soddisfazione di non trovarsi mai tradito da un artista che indubbiamente amo ed ho il piacere di seguire in ogni sua nuova esperienza. C’è da tornare però a valutare l’opera usando come pietra di paragone quel già citato L’Enfant et le Ménure / Bath Salts e, non posso negarlo, questo UKIYOE (Mondi Fluttuanti) non regge minimamente il confronto. Il fatto stesso che si tratti di una sorta di concept finisce per ingabbiare l’opera laddove al contrario, il quadruplo album precedente aveva il grande merito di spaziare e svariare così tanto da somigliare a quello che in letteratura potrebbe essere un capolavoro come Infinite Jest di David Foster Wallace. Qualcosa di tanto complesso eppure coinvolgente che a ogni ascolto/lettura ti pare di scoprire una parte di te, una sorta d’immaginifica bibbia emotiva personale che non rappresenta solo un momento della nostra esistenza, ma la racchiude in tutta la sua complessità. In questo nuovo album invece, tutto quell’universo è ricondotto e fuso in un unico elemento che, per quanto denso, risulta di più complessa compenetrazione. A livello prettamente formale, resta sempre eccelso il lavoro di Milano e dei suoi musicisti, sia come esecutore e cantante puro e sia come regista, coordinatore e demiurgo capace di far confluire idee e concezioni ineluttabilmente diverse in un archetipo comune e ben definito, che sappia prendere le lezioni di un passato che ha visto protagonisti nomi quali i già citati Buckley, Wyatt o Cale e, allo stesso modo, legarle con le nuove idee di mostri come Swans, Burial, Walker. Le frasi dello stesso Milano spiegano meglio di chiunque altro come si sia giunti a tanto: “sono autore delle linee melodiche e ho strutturato gli arrangiamenti, a cui pure ho preso parte, chiedendo a diversi musicisti di realizzarne una propria “visione musicale”. Nessuno è stato messo al corrente di quello che stavano producendo gli altri. Impiegando infine lo studio di registrazione come “un musicista a sé”, ho poi editato e montato creativamente i diversi arrangiamenti, come mossi dai flussi delle onde. In breve, tanta gente a bordo, due soli capitani, io e il sound designer Paolo Siconolfi. Le prime cinque copie del digipack saranno accompagnate da plaquette dell’artista Gloria Chiappani Rodichevski. Ognuna delle plaquette recherà tramite illustrazione (io ho un sistema di notazione assai pittorico su pentagramma) frequenza, altezza, durata e intensità della singola nota/sillaba che va a comporre il brano U-KI-YO-E che chiude idealmente il CD. Le plaquette saranno dunque tutte differenti e se lette una accanto all’altro attraverso l’incontro ideale dei singoli possessori, permetteranno di cantare o suonare il “tassello mancante” di un lavoro, di fatto, strutturato alla stessa maniera di un mosaico”.

UKIYOE (Mondi Fluttuanti) è un’opera immancabile e imprescindibile per ogni amante di sperimentazione vocale e non ed è in questo che sta forse l’unico grande difetto di Claudio Milano. Qualche giorno fa, stavo chiacchierando con Miro Sassolini, membro degli S.m.s. e voce storica dei Diaframma di Siberia, proprio di sperimentazione e circa l’importanza della voce dentro la musica. Quasi in maniera scontata si è finiti a parlare di Demetrio Stratos, il più grande utilizzatore di corde vocali che l’Italia ricordi, ed io non ho potuto esimermi dal tirare fuori proprio il nome di Milano. Sassolini ha confidato: “Claudio, che io stimo immensamente, ha studiato e ripercorso l’intera fase sperimentale di Stratos; forse non ce ne era bisogno. Forse bastava coglierne l’essenza ma questo è solo il mio punto di vista. Io e lui abbiamo cominciato più o meno dagli stessi territori di sperimentazione. Mentre io, però, ho seguito la strada della forma canzone, cercando sempre la melodia dentro la musica, lui ha braccato la purezza, legandosi piuttosto ai suoni, alla ricerca della complessità e alla metodologia estrema. Semplicemente abbiamo avuto diverse progettualità dettate da difformi esigenze personali”. Una verità tanto schietta quanto un po’ malinconica perché proprio questo disco è destinato a essere amato da pochi, come tutte le cose che osano troppo e la consapevolezza che, in tal senso, ci sia stato quasi un passo indietro rispetto al passato, mi getta in una triste realtà in cui pare non esserci spazio per chi ha veramente qualcosa da dire, sa esattamente come farlo eppure parla una lingua sconosciuta a un popolo troppo pigro per imparare.

*un ringraziamento speciale a Miro Sassolini per la piacevole e intensa chiacchierata sul lavoro proprio di Claudio Milano e per i suoi preziosi consigli

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Gluts

Written by Interviste

Ciao ragazzi e benvenuti su Rockambula. Cominciamo a raccontare la storia dei Gluts. Come e quando sono nati?

I Gluts sono nati a fine 2010. Dopo vari cambi di formazione e soprattutto di sonorità la svolta vera c’è stata sicuramente a settembre 2012 con l’ingresso di Claudia al basso. Con lei abbiamo finalmente trovato la strada giusta per quello che poi è oggi il suono dei Gluts  e il suono di Warsaw.

Da quali band sono influenzati i Gluts?

Credo che principalmente siamo una band Punk. Anche e soprattutto per la forte attitudine DIY in cui crediamo davvero molto e che ad oggi ci ha dato sempre grandi soddisfazioni. Se parliamo di influenze sonore, sarà banale e scontato dirlo ma sicuramente il suono dei Joy Division e il “wall of sound” degli A Place to Bury Strangers ci hanno influenzato parecchio.

Warsaw è il vostro nuovo disco; a cosa vi siete inspirati per la sua composizione e di cosa trattano i testi?

Credo non ci sia stata una vera e propria ispirazione a livello compositivo. Non ci siamo mai seduti attorno ad un tavolo per decidere cosa volevamo da questo disco o cosa potesse piacere alla gente. Oltretutto non abbiamo MAI avuto un approccio cantautorale alla composizione delle tracce. È molto difficile che qualcuno di noi arrivi con una canzone “preconfezionata”. Tutto quello che sono i brani di Warsaw nasce da pura improvvisazione in sala prove; senza regole, senza schemi o preconcetti. Attacchiamo gli ampli, ci registriamo e vediamo cosa viene fuori. Le idee buone diventano poi canzoni..le altre..vengono scartate. Per quanto riguarda i testi, sarò breve: trattano di tutto quello che ci circonda; la vita, le ingiustizie della vita quello che ci piace o quello che ci fa incazzare. Alcuni testi hanno anche tematiche forti, vero, ma voglio a nome di tutta la band sfatare il mito che i Gluts “siano una band impegnata”. Non è una cosa che ci è mai interessata e non ne saremmo nemmeno in grado. Preferiamo lasciarlo fare ad altri.

Che tipo di lavoro avete svolto per le fasi di mixaggio e registrazione e dove è avvenuto il tutto?

Registrare il disco è stato davvero una figata. Principalmente perché abbiamo lavorato con persone che conoscevamo già da tempo e che sono prima di tutto amici. Le registrazioni sono state fatte vicino a Domodossola nello studio di Francesco Vanni e Davide Galli (ex Piatcions) insieme a James Aparacio, produttore inglese che ha lavorato con band enormi come Liars o Spiritualized (tra le altre). Diciamo che lavorare per la prima volta con qualcuno che conosceva davvero bene a livello di sonorità quello che stavamo cercando è stato molto bello e gratificante. Le fasi di mixaggio poi sono state fatte direttamente da James nel suo studio di Londra; poco da aggiungere, il tocco inglese si sente, noi siamo estremamente soddisfatti ed il disco suona da paura. Era proprio quello che volevamo, un suono internazionale.

A cosa aspirano i Gluts?

(Ride ndr); le aspirazioni! Diciamo che aspiriamo a fare musica che soddisfi ed esalti prima di tutto noi stessi. Quest’anno ci siamo già tolti delle belle soddisfazioni (il MiAmi, A Night Like This Festival ed altri due festival che faremo a breve) e ne siamo felici. Suonare il più possibile, nel limite degli impegni lavorativi di ognuno di noi, è sicuramente l’aspirazione più grande. Riuscire a portare Warsaw al di fuori del nord Italia e anche all’estero sarebbe figo e ci stiamo infatti muovendo per far si che succeda. Non abbiamo più, purtroppo, vent’anni e quindi ovviamente ci sono anche altre priorità. La musica però è la nostra passione, da sempre. Non siamo dei professionisti ma lo facciamo nel modo più professionale possibile e quindi pretendiamo professionalità e serietà.

Dei vostri live cosa ci dite, è difficile trovare un posto dove suonare ed organizzarsi? Nella vostra città come siete messi?

Credo che la dimensione LIVE sia proprio quella dove si possa apprezzare di più chi siamo veramente. Dico questo perché è capitato spesso che amici o anche persone che non conoscevamo dopo un nostro concerto venissero a farci i complimenti per la rabbia e la passione che ci mettiamo. Sul palco  diamo davvero TUTTO e questo chi viene a sentirci credo lo apprezzi molto. Per quanto riguarda l’organizzarsi, ad oggi non sapremmo darti una risposta certa perché stiamo appunto cercando di organizzare un mini tour promozionale di Warsaw in giro per l’Italia per il prossimo inverno e vedremo come andrà. A sensazione comunque penso che ci sia dell’interesse ancora vivo per la musica LIVE e soprattutto gente che abbia voglia di sbattersi e organizzare concerti come si deve. Su Milano, mi permetto di citare mio fratello Marco: “Milano è una bella città, ma un posto del cazzo se si parla di musica” (ride ndr).

Parlando di concerti: dove suonerete nei prossimi giorni?

Abbiamo ancora due date confermati per l’estate e una già confermata per fine settembre. Saremo sabato 9 agosto a Piateda (SO) al Rock And Rodes mentre martedì 12 agosto saremo a Fara Vicentina (VI) all’Anguriara Fest. Siamo molto esaltati di partecipare a questi due festival perché quando siamo stati contattati dagli organizzatori abbiamo subito avuto la sensazione di parlare con persone che ci mettono una passione enorme e credono tantissimo in quello che fanno. Questo è davvero molto importante per noi e quindi non vediamo davvero l’ora. Per fine settembre invece siamo molto contenti di aprire la stagione di un locale storico della nostra zona come il Circolone di Legnano in compagnia di Maria Antonietta. Precisamente venerdì 26 settembre.

Come è stato accolto Warsaw dalla critica?

Direi che tutto sommato fino ad oggi non ci possiamo lamentare. Un risultato fin qui positivo. Come spesso succede un mix di mega esaltazione e disfattismo totale dove la verità sta sempre nel mezzo. Permettimi di dire che secondo me chiunque ascolti Warsaw in maniera oggettiva e senza preconcetti o cazzate attorno di nessun genere non possa dire di trovarsi davanti ad un disco BRUTTO o prodotto MALE. Poi ovviamente, come tutto, può piacere o non piacere per le più svariate ragioni. Dal canto nostro ci abbiamo investito davvero tanto tempo, tanti soldi e tanti sacrifici quindi ci crediamo moltissimo.

Siete già a lavoro per qualche altro disco o in generale materiale inedito?

Abbiamo iniziato da poco a lavorare su qualche nuova traccia ma è tutto ancora in fase embrionale. L’idea è quella comunque di non stare mai fermi e quindi in tempi relativamente brevi riuscire a buttare fuori un Ep oppure perché no un secondo LP (ride ndr).

Bene ragazzi, l’ intervista si chiude qui, concludete come meglio credete…

Buon natale e… mi raccomando!

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Television al Sexto’nplugged di Sesto al Reghena (PN)

Written by Senza categoria

MARQUEE MOON – “Full Electric Show”
MARTEDI 5 AGOSTO 2014
SESTO AL REGHENA (PN) – PIAZZA CASTELLO
Ingresso: 20,00 euro + dir prev
Prevendite: www.vivaticket.it – www.mailticket.it
Apertura biglietterie ore 19:30
Apertura porte: 20:00
Inizio concerto: ore 21:30

I Television, una delle band più innovative della scena underground della New York di metà anni 70, tornano in Italia per un unico concerto imperdibile dove riproporranno in versione integrale quello che è considerato il loro indiscusso capolavoro Marquee Moon. Un disco seminale che ha marchiato a fuoco l’epopea New Wave ed ha influenzato moltissimi artisti dai Joy Division agli Echo & The Bunnymen, dai Cure a Siouxsie and the Banshees, fino agli Smiths e Interpol. Un’occasione unica per rivedere dal vivo Tom Verlaine, Billy Ficca e Fred Smith accompagnati dalla leggendaria chitarra di Jimmy Rip, già al fianco di Mick Jagger e Jerry Lee Lewis.

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Winter Severity Index – Slanting Ray

Written by Recensioni

Quel che una volta era un quartetto tutto al femminile, ora, nel 2014, troviamo a trainare la carretta la sola Simona Ferrucci, anima e corpo del progetto Winter Severity Index. Slanting Ray è la conseguenza dell’estro dell’artista, stavolta accompagnata da Alessandra Romeo (già con Bohemien, No Fun e Cat Fud) al synth e alle tastiere. Presenza meno fissa è quella di Giovanni Stax che suona il basso in ambito live. Il duo romano ci propone un cupo Dark Wave i cui background sono ovviamente The Cure, Siouxie and the Banshees e Joy Division, il tutto in una salsa più minimale, ma non per questo meno avvolgente ed intrigante. Le canzoni di Slanting Ray ci faranno precipitare in un baratro oscuro, in una galleria priva di via d’uscita, dove disperazione e paranoia troveranno terreno fertile per dar vita ai nostri incubi più reconditi. Non importa che le atmosfere siano sognanti (“At Least The Snow”), opprimenti (“A Sudden Cold”) o persino più ritmate, sfruttando la regalità di un sassofono, fatto usuale anche per i The Cure (“Ordinary Love”),non si perde mai la cognizione dell’amore/odio viscerale da cui sono venite fuori queste dieci perle nere sanguinolente.

La voce di Simona è perfetta per il genere: la timbrica presenta parecchi picchi crepuscolari, rarissime aperture celestiali, come in “Lighting Ratio” ad esempio, e taglia via ogni linea melodica nella penultima “Compulsion”, optando per uno sbalorditivo cantato/parlato. La ricercatezza e la morbosità del sound delle Winter Severity Index è un qualcosa a cui molti di noi non sono ancora preparati, il disco si fa ascoltare a momenti con eccessiva fatica ed una volta concluso difficilmente si ha ancora la voglia di ricominciarlo daccapo. E’ principalmente rivolto agli amanti della corrente nata negli anni 80. Chi non è incluso nella cerchia degli adepti della Dark Wave si senta libero di passare oltre.

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Der Noir – Numeri & Figure

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I Der Noir sono tre e sembrano cento: merito delle sonorità elettroniche, certo, delle drum machine e dei sintetizzatori, merito delle collaborazioni (Luca Gillian alla voce, Hannes Rief alla tromba, Anna Martino al violino elettrico, Pierluigi Ferro al sax, per citarne solo alcuni), ma merito anche della loro capacità di costruire intrecci musicali complessi, vere e proprie stratificazioni melodiche e suggestioni Noise.

L’album si apre con “Carry On” che subito ci catapulta in atmosfere New Wave rivisitate: una lettura più Dance, forse, con echi alla Depeche Mode. La title-track, “Numeri e Figure” ha un testo in italiano che si muove su sonorità anni 80 freddissime, retto da una linea melodica complessa, capace di un andamento sillabico e momenti più ariosi e sospesi. Segue “Zero”: vaghe reminiscenze dei Massive Attack per un testo nuovamente in inglese e un brano che predilige la pulsione ritmica alla costruzione armonica. “L’Inganno” è forse la canzone più bella del disco: liriche interessanti, un cantato sillabico, chiaro che si staglia pulito su un arrangiamento composito, tra suoni sintetici e il calore dello strumento a fiato. “Sunrise” è quasi tribale, “Kali Yuga” dà una sfumatura mediorientale che subito viene abbandonata per una visione più Industrial, oscura e suburbana, che prosegue nella successiva “Metamorfosi”, in un crescendo malinconico e ansiogeno. Con “She’s the Arcane” si torna a parlare al corpo in quel modo subdolo e indiretto di cui i Joy Division erano maestri: non è una canzone da ballare, ma è una canzone che sicuramente vi farà muovere la testa con compostezza. Il disco chiude con una meditabonda “The Forms” che sancisce la fine dell’album addensando le suggestioni tracciate nei brani precedenti, una bella summa di quello che i Der Noir sanno dare. Il disco non è perfetto, forse i momenti più cinetici sono anche i più bassi, mentre i brani più riflessivi tradiscono una capacità compositiva su cui la formazione dovrebbe concentrarsi maggiormente, ma è un bel disco, che vale la pena ascoltare.
Fatelo.

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Evacalls – Seasons

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Piove sempre, sembra non esserci più nessuna soluzione. Scariche elettriche cadono dal cielo plumbeo, l’elettronica degli Evacalls contraddistingue positivamente l’esordio discografico Seasons. Un sound proveniente dagli anni 80 ma visibilmente riadattato alle moderne concezioni di suono, campionamenti rincorsi dalle chitarre e sinth in continua evoluzione. Diventa tutto molto chiaro già dal primo pezzo “The Second Winter of the Year”, un titolo premonitore di quello che stiamo vivendo in questo particolare cambiamento climatico. La voce prende gran parte della scena, a volte sembra somigliare a quella di Paul Banks, ma è soltanto una questione di sensazioni, soprattutto causate dalle aperture delle canzoni come nel caso di “Give me a Reason”.

Gli Evacalls provano a personalizzare un genere strasuonato, un genere maltrattato negli ultimi anni, un sistema di fare musica diverso dai soliti preconfezionati pacchetti commerciali. Seasons suona otto tracce completamente diverse tra loro, ogni canzone contraddistingue una volontà d’espressione, il cuore salta in gola durante l’ascolto di “No Silneces”, apertura alla Joy Division. Poi tanta emozionalità e la voce riesce ad intraprendere uno stile decisamente Post Punk. Basso energico e sinuoso nella più sensuale “Two Lines”, le chitarre suonano alla Rem primo periodo, il risultato è piacevole ma forse troppo semplice e già suonato. E’ il rischio da correre quando si rielabora musica “datata”, si rischia di assomigliare troppo a qualcun altro, si rischia di lavorare invano senza ricevere gloria. Preferisco di gran lunga la parte elettronica Post Punk degli Evacalls, in quella circostanza riescono a dare il meglio della loro produzione, riescono a creare delle ottime canzoni evitano banali sgambetti. Infatti, in “Mondey” ritrovano la loro dimensione, riescono a riprendersi la fetta d’orgoglio che gli appartiene. Il resto è composto bene ma non regala neanche una piccola briciola di soddisfazione. Seasons è un disco che potrebbe piacere a tutti, gli Evacalls non sono una band capace di creare tendenza, sono capaci di svariare in tanti generi e quindi abbracciare varie tipologie di pubblico. Ho provato delle belle sensazioni soprattutto nella parte iniziale del lavoro, alcune cose mi sono piaciute parecchio e altre meno ma nel complesso Seasons merita di essere apprezzato. Gli Evacalls hanno tutto il tempo necessario per dimostrare di aver messo apposto le idee e di crearsi una propria identità musicale.

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The Foreign Resort – New Frontiers

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Fino a venti anni fa, in piena epoca Grunge ed Alternative Rock, orde di capelloni, depressi e disillusi in camicia di flanella e jeans strappati si accanivano ferocemente contro tutte quelle sonorità fredde e look da fighetto che rappresentano a tutto tondo quel caleidoscopico calderone denominato Post Punk o New Wave che dir si voglia. Dai primi anni Zero, grazie al successo di gruppi quali Interpol e Franz Ferdinand, è avvenuto un vero e proprio revisionismo storico nei confronti della “Nuova Onda” che ha attraversato il panorama musicale dal 1978 al 1983, regalandoci gemme che risplendono prepotenti ancora oggi nel firmamento Rock. La rivalutazione di tanto spessore e la continua citazione da parte di band emergenti sta rendendo nauseante e borioso il magnetismo oscuro di un’era artistica così estrosa, sia nei costumi e nel make-up, quanto permeata da un nichilismo e da un senso di disgregazione che ha fatto le sue vittime (Ian Curtis e  Adrian Borland su tutti).

I Foreign Resort sono un trio originario di Copenaghen, vero e proprio cuore nero d’Europa (basti pensare agli Ice Age), attivi sin dal 2009 e composto da Mikkel B. Jakobsen (chitarra e voce), Henrik Fischlein (chitarra e basso) e Morten Hansen (batteria e voce). Sfornano questo New Frontiers imbastendo un flusso sonoro carico di velata malinconia e di fantasmi mai svaniti che ormai è divenuto un cliché dal sicuro impatto sul pubblico anche se annoia brutalmente. Mikkel. voce e penna della band, strizza l’occhio a Robert Smith con quel cantato affogato e lontano per tutte e nove le tracce; musicalmente domina la ritmica funerea dei Joy Division , condita ora con elementi Synth Wave tanto cari ai Depeche Mode quanto ai Cocteau Twins, ora da sferragliate di feedback nella migliore tradizione Shoegaze (My Bloody Valentine, Jesus and Mary Chain).  Per quanto i riferimenti ai fasti del passato siano gloriosi, si finisce per essere risucchiati da un vortice tedioso e stucchevole; al massimo cercate un po’ di brio  nello spedito Post Punk a tinte epiche della titletrack.

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Musica e Cinema: 24 Hour Party People

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The Gluts – Warsaw

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Le atmosfere sono grigiastre, gli animi diventano cupi e a tratti si viene travolti da un senso d’ inquietudine. Sono le sensazioni trasmesse da Warsaw il disco d’esordio dei milanesi The Gluts ispirati, in primis, dai Joy Division (pilastri incontrastati della New Wave). Ma Warsaw non è solo questo, ha venature Noise Punk con riff di chitarra metallici, a volte striduli, a volte distorti. Una miscela esplosiva che rende il disco molto interessante e di un certo rilievo. Parliamo di un album che suona bene e non stanca in nessuna occasione chi ascolta, anzi, direi che scorre liscio ed il secondo ascolto risulta più piacevole del primo. L’impressione è quella di ascoltare un lavoro capace di unire malinconiche sonorità tipiche dei già citati Joy Division a quelle più elaborate dei Christian Death e dei Death In June, il tutto senza tradire l’andamento “cavernoso” intrapreso nel concept. Da sottolineare l’ottimo lavoro della musicista Claudia Cesena, capace di trasformare il suo strumento in vena pulsante del disco. Da invidiare tecnicamente un suo passaggio da una ritmica lenta ad una più veloce.

Una nota positiva si deve dedicare anche alle tematiche affrontate, in “Rag Doll” si parla della violenza sulle donne mentre in “Vietnam” si parla della guerra vista attraverso gli occhi di un adolescente vittima di abuso per mano di sedicenti salvatori. Warsaw è una perla di disco, trascinante e coinvolgente, una partenza ottima per i The Gluts che con impegno e serietà sono riusciti a raggiungere un notevole primo traguardo. La riuscita del disco comunque è dovuta anche all’ ottimo lavoro svolto da James Aparicio e Maurizio Giannotti nelle fasi di mixaggio e registrazione, quest’ ultima operazione avvenuta al New Mastering Studio di Milano. Non resta che ascoltare e gustarsi questo primo platter dei The Gluts, che detto francamente con queste idee possono soltanto progredire e creare album degni di nota. Una vera diavoleria per gli amanti del genere e non solo, un esordio discografico imponente per questi ben amati milanesi con la New Wave nel cuore.

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Musica e Cinema: Control

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Control (UK, USA, Australia, Giappone)
Anno 2007
Durata 122 min
Regia Anton Corbijn

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La vita del frontalist dei Joy Division Ian Curtis (Sam Riley), tratta dal libro biografico “Touching from a Distance”, in italia pubblicato da Giunti editore con il titolo “Cosi vicino, cosi lontano” (permettetemi un off-topic, tradurre “toccandosi da lontano” con un titolo che richiama in modo palese un film di Wenders, è semplicemente senza senso) di Deborah Woodruff Curtis, moglie di Ian (Samantha Morton), è descritta, almeno all’inizio, come quella di un adolescente normale. Va, abbastanza svogliatamente a scuola, ha un migliore amico, a cui frega la ragazza che poi diventerà sua moglie, è fruitore dei concerti delle allora emergenti band britanniche Alternative, la sua camera è piena di dischi e di poster dei suoi idoli ed è tifoso del Manchester City. Si sposa, ha una bambina e un lavoro, in un grigio ufficio di collocamento, canta nel suo gruppo per locali e pub di Manchester e dintorni, via via più importanti, fino alle soglie di una tournèe negli Usa che potrebbe consacrarlo.

Come ogni opera biografica che si rispetti, il film rappresenta uno spaccato di quei anni (fine anni Settanta inizio anni Ottanta britannici). Ma a differenza di altre opere del cinema inglese anche recente, non ci sono riferimenti politici e/o sociali in quella che resta uno dei periodi più tumultuosi della storia inglese, ossia l’ascesa della Thatcher e del neoliberismo che tanti squassi provocarono, soprattutto nel nord-ovest dell’Inghilterra da dove Curtis veniva. Invece gli accenni a quell’epoca riguardano solo l’ambiente musicale underground del tempo. E non potrebbe essere altrimenti dato che la sua vita e il suo mondo, la sua arte e la sua estrema sensibilità sono al centro di tutta la pellicola. Il rapporto con la moglie e l’amante Annick (Alexandra Maria Lara) rappresenta in modo molto chiaro e paradossale l’affresco di questo poeta maledetto moderno; cioè il non sapersi staccare da nulla che lui ama, quasi in maniera spasmodica, dai suoi affetti. Ai più, un tale comportamento sembrerebbe egoistico ma qui viene descritto come un estremo gesto di ipersensibilità che lo porterà alla fine all’autodistruzione.

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Cosi come per l’ambiente che lo circonda, anche gli altri personaggi risultano schiacciati dalla sua figura: il suo gruppo quasi scompare, Tony Wilson è trattato come una comparsa, i genitori sono dipinti in modo anonimo e asettico. L’unico che emerge un pochino è il manager dei Joy Division, ma forse più per la bravura dell’attore che lo intrpreta (Toby Kebbel) che per altro. Il rapporto con la malattia, incontrata casualmente e che sarà fonte del brano “She Lost Control” e l’abuso di psicofarmaci per curarsi, anche in questo caso, quasi non traspaiono nel film, quasi come scelta di far emergere ancor di più le sue debolezze e i suoi tormenti. La sua musica, poi, è l’elemento centrale del film. Non a caso la regia è curata da Anton Corbijn, qui al suo primo lungometraggio, che proviene dai video musicali (“Atmosphere” dei Joy Division, “Heart-shaped Box” dei Nirvana e “Straight to You” di Nick Cave and Bad Seeds, sono solo alcuni dei video che ha diretto), dal già citato sonoro (i brani sono realmente suonati e cantati dagli attori, escluse le sole “Love Will Tear us Apart” e “Atmosphere”, mentre sono presenti, nella colonna sonora, brani di The Killers, Bowie, Sex Pistols e New Order, spesso risalenti, quando possibile, all’epoca dei fatti), alla scelta del bianco e nero, fino alla lentezza della regia, non fa altro che amplificare il senso di cupezza del personaggio Ian Curtis.

Il regista sceglie di far passare l’ultima notte di Ian , ascoltando l’album The Idiot di Iggy Pop e soprattutto vedendo il film “La Ballata di Stroszek” di Hezog che ci sentiamo vivamente di consigliare. Control è quindi come un bel film, che sicuramente piace e piacerà ai fan dei Joy Division o degli ambienti musicali alternativi, ma sarà difficilmente apprezzato da chi certi ambienti non li conosce non li frequenta o non li ha mai frequentati.

Il film completo in lingua originale

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Euphorica – La Rivelazione

Written by Recensioni

Indubbiamente è quasi impossibile comprendere e percepire la distanza tra il mondo reale, quello dei megastore, dei dischi venduti, dei passaggi televisivi, dei video su Mtv e volendo anche Rock Tv o altri canali radiotelevisivi pseudo alternativi come quello XXX (mi autocensuro perché non abbiamo necessità di un’altra denuncia) di Virgin Radio e ciò che è il mondo di noi rincoglioniti che incurvati sul pc divoriamo recensioni su sfigate webzine, inseguendo una next big thing che in realtà non avrà mai un futuro, ascoltiamo migliaia di dischi e brani sconosciuti, provando a scorgere estro e genio, con la sottesa idea che magari saremo i primi a penetrare la grandezza dei futuri nuovi Joy Division. Se i nostri Have a Nice Life sono dei mostri d’inarrivabile talento, dobbiamo ammettere con disincanto che quelli cui frega sono veramente pochi. A questo punto, se proprio dobbiamo rotolarci nel fango del (quasi) anonimato, ci sia concesso quantomeno di godere di una qualità e un talento che mai proverà il pubblico dei suddetti canali radiotelevisivi pseudo alternativi di cui sopra. Se proprio voglio essere tra quelle duecento persone che ascolteranno il disco di una oscura band di una depressa provincia italiana, che mi sia concesso di origliare l’ostentazione dell’alternativo e non le brutte copie, o anche solo copie, di una delle band promosse da uno di quei canali radiotelevisivi pseudo alternativi di cui ho parlato prima. Come dire, se vuoi farmi provare del caviale da diecimila euro il chilo, fa che quella merda di uova abbiano un gusto fantastico perché di pagare solo il fatto che siano rare non mi frega molto.

Mi spiace che gli Euphorica e l’ascolto del loro secondo Lp La Rivelazione arrivi puntualmente dopo quello del nuovo lavoro di Kozelek, Current 93 e Have a Nice Life perché non posso negare che la cosa abbia fatto germogliare in me una discreta irritazione verso la musica italiana e la sua incapacità sia di azzardare e sia di promuoversi al di là dei canali di nicchia e ostentarsi a un pubblico che non sia solo appassionato di un certo specifico genere.  Mi infastidisce perché La Rivelazione, dopo diversi ascolti, si rivela un album di buona fattura, soprattutto se paragonato a quel tipo di Pop Rock nostrano i cui principali artefici preferirei non nominare. Piacciono molto le intromissioni del Folk (“L’Equilibrista”, “La Terra”) anche se ogni cosa, dalla sezione ritmica alle chitarre acustiche fino alle linee melodiche hanno lo scopo principale di intraprendere una strada Pop che vuole essere impegnata senza esserlo veramente. I testi, rigorosamente in madrelingua, raccontano secondo le più disparate sfaccettature, d’identità e maschere, di essere e apparire. Parlano di vita sfruttando riferimenti colti (“Demone”) ed episodi reali (“Il Predicatore”), raccontano la paura (“Shangri –La”) affrontando immancabilmente il sinonimo più poetico di vita stessa e cioè amore (“L’Ultima Danza”, “Tu”).

Il disco degli Euphorica spazia dall’Indie Pop accurato negli arrangiamenti (“Visione”) e dai riferimenti al Pop da classifica che però non si affanna dietro la ricerca ossessiva e ansimante di una melodia banale ma di successo, un po’ come il Niccolò Fabi meno noto (“Giuda”), fino al Rock attento a testi e armonie dei Tre Allegri Ragazzi Morti (“La Rivelazione”), con le quali le affinità vanno anche oltre le ovvietà delle linee vocali, che nel qual caso fatico ad apprezzare anche ben oltre gli aspetti puramente tecnici. Anzi, arriva a infastidirmi particolarmente quando insiste sulle vocali finali tanto che il pezzo che più riesce a emozionarmi non ha testo, né titolo e tuttavia non brilla neanche per originalità. La Rivelazione è un disco che ti fa arrabbiare quando poco prima hai ascoltato il mondo innaturale di una band del Connecticut ma che riesce anche a farsi perdonare, man mano che la musica si scioglie come neve nelle orecchie, magari lasciandoti nel cuore anche quel brivido di una goccia gelida che scorre sul collo. Non mi piace troppo quello che fate, non mi piace per niente anzi ma se proprio dovete farlo, per favore fatelo cosi.

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No Love Lost

Written by Interviste

Come ci piace fare spesso, Rockambula è stato media partner dell’evento organizzato questo dicembre a Sulmona (AQ) denominato Soundwave Christmas Nights, festival dedicato alla musica originale indipendente. Pur non trattandosi espressamente di un contest, Rockambula ha voluto comunque istituire un piccolo premio che consiste in un mini pacchetto promozionale comprensivo di recensione e/o intervista più banner pubblicitario sul nostro sito per circa un mese. La band che abbiamo scelto in quanto protagonista con il progetto più interessante e originale anche solo in ottica potenziale è stata quella denominata No Love Lost. In questa intervista cerchiamo di capire meglio di che progetto si tratta, quale possa esserne il futuro e cercheremo anche di ragionare su alcune tematiche care sopprattutto alle scene di provincia.

Iniziamo da una domanda ovvia. Il vostro nome richiama alla mente la grande band capitanata da Ian Curtis e voi avete iniziato la vostra avventura proprio come cover band dei Joy Division. Aver fatto cover è più utile a scrivere e proporre pezzi propri o più un ostacolo dovuto al rischio “imitazione”?
Aver iniziato come cover band dei Joy Division ha sicuramente contribuito a creare amalgama e affiatamento nel gruppo. Il rischio imitazione volontaria non c’è mai stato perché in fase compositiva seguiamo le nostre idee e l’istinto del momento senza doverci preoccupare di imitare qualcuno o assomigliargli. Se ci sono delle affinità con altre band non sono volute e cercate ma sono solo frutto dei nostri ascolti e gusti giovanili. Quando abbiamo deciso di cominciare a proporre un nostro repertorio abbiamo iniziato come nuovi No Love Lost e non come costola della cover band che eravamo prima.

Perché avete scelto di iniziare con le cover e perché avete scelto di passare a proporre pezzi vostri? Suonate ancora brani dei Joy Division dal vivo?
Il gruppo inizialmente è nato come una sfida a proporre una band poco conosciuta ai più e comunque poco coverizzata. L’idea era di fare alcune esibizioni in pubblico e divertirci a suonare una musica che aveva sempre esercitato un certo fascino su di noi. Abbiamo deciso di cominciare a proporre brani nostri perché da sempre noi tutti abbiamo avuto un approccio compositivo alla musica, ci viene naturale. Ognuno di noi tre normalmente compone in proprio e a maggior ragione trovandoci tutte e tre insieme, idee vecchie e nuove si sono accumulate con una certa rapidità dandoci la possibilità di scegliere tra un materiale numericamente consistente ancora in fase di definizione e composizione. In eventuali serate dal vivo in cui avremo la possibilità di suonare per più di un’ora sicuramente riproporremo dei brani dei Joy Division.

La vostra formazione attuale non prevede batteria, o meglio batterista. Il suo ruolo è affidato all’elettronica. Quanto la batteria elettronica può essere un vantaggio (Albini ci ha costruito una carriera, passatemi il termine, con una certa Roland) e quanto un limite per la vostra proposta? E perché avete fatto questa scelta?
La batteria elettronica (ma le basi in generale) per noi e per il nostro sound è un vantaggio in quanto la nostra musica necessita di ritmi definiti e ben schematizzati; ci da la possibilità di far lavorare il basso in modalità non usuali (uso di ottave alte quando lavora in contemporanea con un basso synth) mantenendo una certa corposità del suono e avendo virtualmente una sorta di seconda chitarra. Inoltre la batteria elettronica permette al basso di esprimersi liberamente con riff definiti e di effetto e permette al cantante/tastierista di dedicarsi totalmente al canto. Attualmente non vediamo svantaggi nell’utilizzarla e non escludiamo neanche il ritorno di una batteria acustica in futuro quando e se necessario.

Vi ho ascoltato dal vivo durante l’esibizione a Sulmona (AQ) al Soundwave, un piccolo Festival di cui Rockambula è stato media partner (ndr I No Love Lost hanno vinto qui il premio Rockambula). Perché avete scelto di parteciparvi? È questa la strada migliore per la musica emergente? Cosa non vi è piaciuto?
Abbiamo scelto di partecipare al Soundwave Christmas Night per avere una vetrina e far sentire i nostri brani inediti a un vasto pubblico. Per i gruppi della scena Indie la via migliore per farsi conoscere è comunque soprattutto quella di partecipare a manifestazioni ad hoc come questa e ovviamente utilizzare la rete nei suoi numerosi canali e avere tanta voglia di mettersi in gioco credendo a quello che si fa. Più di quello che non ci è piaciuto, preferiremmo invece mettere in rilievo il fatto che questa manifestazione non era un concorso ma appunto una rassegna. È stata un’ottima idea in quanto nei concorsi è molto facile che a vincere sia la band raccomandata o che porta più pubblico; diverso è stato invece creare un premio per il progetto e l’idea espressa da una band come ha previsto il Soundwave con Rockambula.

Una cosa che, ad esempio, mi pare di aver notato è che, specie nelle piccole realtà cittadine, mancano vere e proprie scene e ognuno tenda a fare musica inseguendo, spesso scimmiottando, i propri idoli, senza alcuna voglia di sperimentare, osare, innovare. Uscire da questo tunnel credete sia possibile? Come?
Uscire dal tunnel delle imitazioni è possibile ma richiede apertura mentale, un discreto background culturale, creatività e voglia di mettersi in gioco. Il problema principale è che si tende, soprattutto nelle nostre realtà, a giudicare l’operato di un musicista solo ed esclusivamente dal punto di vista tecnico senza mettere in rilievo che la creatività costituisce un elemento fondamentale per chi fa musica.

Una delle soluzioni potrebbe essere una certa apertura (date, concerti, festival, contest) alle band, anche poco note, che vengano da fuori (vedi il Progetto Streetambula di cui siamo co/organizzatori). Ma il pubblico dei piccoli centri è pronto a questa sorta di “rivoluzione”? Sembra piuttosto disposto ad ascoltare solo i propri amici, di là dell’interesse ridotto verso la musica.
Finché i piccoli centri ragioneranno con la logica bigotta e culturalmente ristretta, non ci sarà alcuna rivoluzione. La rivoluzione va stimolata e secondo noi, molti in questa valle (Valle Peligna, provincia de L’Aquila ndr), a partire da chi organizza eventi musicali e si occupa di band emergenti come voi di Rockambula, stanno lavorando bene per creare un circolo virtuoso in tal senso.

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Cambiamo discorso ma non troppo. Perché i musicisti vanno con tanta fatica ad ascoltare i colleghi?
Molti musicisti (non tutti), disertano le serate dei loro colleghi, semplicemente per mancanza di umiltà, attenzione, informazione e forse anche invidia. È una costante fra colleghi, Morrisey ci ha scritto anche una canzone.

Passiamo a voi. La vostra musica è fortemente influenzata dal Post Punk dei Joy Division. Quali altre influenze vi si possono ascoltare?
La nostra musica è influenzata da diversi artisti del passato e del presente. Sicuramente i Joy Division hanno avuto un’influenza importante ma non principale. Prima di loro vorremmo citare Gary Numan, Depeche Mode, New Order, Asylum Party, Pj Harvey e Massive Attack senza dimenticare le forti influenze Punk che arrivano dalla nostra chitarrista Francesca Orsini e in particolare in brani come “Closer”, “Torture” e “The Party’s Over” che speriamo avrete presto la possibilità di ascoltare su disco.

Che progetti avete per scoprire il vostro peculiare sound e renderlo più moderno?
Premesso che oggi parlare di suono vecchio e nuovo risulta un po’ difficile in ambito Indie, vista la varietà e le molteplici combinazioni sonore tra i vari decenni e tra i vari generi, stiamo valutando di “svecchiare” il suono cercando, in fase di registrazione, di applicare con astuzia quelle caratteristiche sonore che possono far risultare il prodotto più moderno e muovendoci all’interno di questo impianto sonoro per mantenere il nostro suono volutamente vintage.

Oltre al limite dovuto dall’ovvia somiglianza con i padri del genere, ho notato che, dal vivo, c’è ancora qualche imprecisione soprattutto in chiave vocale e andrebbe attuata anche una più attenta ricerca melodica. Come pensate di muovervi in tal senso? Credete di dover lavorare ancora anche sulle canzoni ormai già ascoltate live?
Per ciò che riguarda la voce stiamo lavorando continuamente per perfezionare quanto già ascoltato dal vivo. Sicuramente un paio di brani richiedono una maggiore attenzione melodica e rivisitazione da parte nostra, per molti pensiamo che la soluzione attuale sia soddisfacente ma sappiamo che un gruppo deve essere sempre alla ricerca di novità’ e aperto a rivedere le soluzioni già date per stabili se necessario e se rispondono a una reale esigenza dei compositori. Pertanto anche le versioni live che avete ascoltato sono suscettibili di qualche cambiamento in fase di registrazione.

Uno dei modi migliori per superare i propri limiti è distruggere quelli mentali che ci portano ad ascoltare sempre le stesse cose. Per questo credo che per tutti, e ancor più per i musicisti, sia importante ascoltare tanta musica, vecchia e nuova, e sempre molto diversa. Qual è il vostro modo di approcciare alle nuove sonorità, alle nuove band? Chi vi piace tra le nuove proposte italiane e straniere e consigliateci un paio di dischi di questo ormai andato 2013?
È essenziale uscire dagli schemi mentali acquisiti, pertanto ci poniamo sempre con grande interesse all’ascolto di quanto di nuovo viene proposto dal mercato discografico soprattutto indipendente. Del 2013 ci sono piaciuti il nuovo dei Soviet Soviet e degli Arcade Fire senza dimenticare The National ma anche in ambito Pop ci sono molte produzioni di valore.

Sul palco si nota una certa spensieratezza alle chitarre (basso incluso) mentre Fabrizio D’Azzena (voce) mantiene un’aria seriosa, tesa, quasi preoccupata e ansiosa. Studiate attentamente le vostre performance, anche per quanto riguarda l’immagine oppure suonate cosi, come viene?
Sinceramente abbiamo ancora forse poca attenzione per l’immagine globale del gruppo ma ciò’ deriva principalmente dal fatto che per ora non è la priorità e pensiamo che sia la nostra musica a dover trasmettere sensazioni emotive a chi ci ascolta. Indubbiamente il nostro cantante è tipo ansioso ma la sua espressione seriosa è risultato di forte concentrazione e passione.

Per ora non avete nessun album pronto. Tra le varie motivazioni che ci hanno spinto a dare a voi il premio Rockambula c’è: “una delle band di cui ascolteremmo molto volentieri il prossimo disco”.  Ce n’è uno in cantiere?
Attualmente stiamo per entrare in studio per registrare il nostro primo cd; vi diamo qualche anticipazione, si chiamerà Lust e sarà composto di otto o nove brani, sette li avete già ascoltati live e due che stiamo selezionando tra il corposo materiale a nostra a disposizione.

Vi faccio il nostro “in bocca al lupo”.

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