Joy Division Tag Archive

Le Superclassifiche di Rockambula: Top Ten anni Ottanta

Written by Articoli

80

Esiste un decennio più controverso degli anni 80? Ed esiste un modo peggiore di iniziare un articolo che con due domande retoriche? Ovviamente (altrimenti non sarebbe una domanda retorica) la risposta è no in entrambi i casi.

Gli anni Ottanta per gli ultra trentenni come me sono gli anni più straordinari che ci siano, quelli vissuti nel pieno della fanciullezza ma che avremmo navigato magicamente anche nella decade seguente, per l’ovvio ritardo con il quale il nostro paese ne ripresentava le tendenze, anche cinematografiche e musicali. È stato per noi il decennio ammaliante che ci ha fatto diventare quello che siamo, straordinario e favoloso perché, pur se ben saldo nella memoria, ha un sapore di tempi antichi, passati, andati per sempre. Dieci anni in sospeso, ambigui che nella musica ma anche nel cinema, nella moda, nel costume, nella politica, in tutto insomma, hanno toccato gli estremi più lontani che si potessero immaginare.

Erano gli anni di “Video Killed the Radio Star” e quelli di “Luna”, di “Enola Gay” e di “Gioca Jouer”, di Falco e Miguel Bosè, di “Vamos a la Playa” e “Vacanze romane”, gli anni di Raf, di Madonna e i Duran Duran, di “Take on me” e Gianna Nannini, de “La Bamba” (la canzone), Nick Kamen e Jovanotti che faceva il verso ai rapper americani e poi Francesco Salvi con le sue canzoni ultratrash. Gli anni 80 sono stati per molti la decade trash per eccellenza e anche se tanta della sua spazzatura oggi è considerata oggetto di culto, fu anche un decennio colmo di musica eccezionale. La nostra classifica prova a darvene un esempio.

Al primo posto si piazza Bleach l’album che non solo ci consegnò una delle più grandi band e dei più amati, imitati e adorati cantanti di sempre, una leggenda vera ma pose anche le basi per una delle ultime rivoluzioni del Rock che esplose poi nei 90. Subito dietro i Sonic Youth, capaci di prendere l’eredità dei Velvet Underground e adattarla ai nuovi tempi (grazie anche all’esperienza con Glenn Branca e Rhys Chatam) e un’altra formazione clamorosa, The Smiths, tra le più rappresentative del suo tempo grazie anche a un frontman dal fascino indiscusso. Buon piazzamento per Curtis e il suo Closer, ponte metaforico tra due diverse epoche e ottima doppietta per gli eredi (in parte) Cure con Disintegration e Pornography. Sorprende la presenza di ben due dischi italiani i quali, se certamente non avranno avuto un ruolo primario nella storia della musica mondiale, per il nostro paese hanno suonato come uno stravolgimento incredibile della realtà. Due album profondamente diversi ma dalla potenza espressiva non dissimile, Affinità-divergenze fra il Compagno Togliatti e Noi del Conseguimento della Maggiore Età dei CCCP e Franco Battiato con La Voce del Padrone. Chiudono altre due sorprese, Tom Waits e i Dinosaur Jr mentre restano purtroppo fuori dalla top ten a malincuore e per pochissime preferenze di differenza capolavori come Zen Arcade (Hüsker Dü), The Stone Roses, The Joshua Tree (U2), Thriller (Michael Jackson), i Duran Duran che disperdono i voti tra Rio e l’omonimo e tanti altri. Peccato anche per l’assenza di Pixies, Talking Heads e Metallica ma le classifiche sono sempre difficili.

Diteci voi, chi non doveva mancare? Chi non avremmo dovuto inserire? E vi piace il primo posto?

1. Nirvana – Bleach

2. Sonic Youth – Daydream Nation

3. The Smiths – The Queen Is Dead

4. The Cure – Disintegration

5. Joy Division – Closer

6. CCCP – Affinità-divergenze fra il Compagno Togliatti e Noi del Conseguimento della Maggiore Età

7. Franco Battiato – La Voce del Padrone

8. The Cure – Pornography

9. Dinosaur Jr – You’re Living All Over Me

10. Tom Waits – Rain Dogs

Read More

Trupa Trupa – ++

Written by Recensioni

Devo ammettere di non essere mai stato troppo attento alla scena underground polacca eppure, proprio quest’anno, finisco per imbattermi in un paio di perle veramente niente male, considerando che, vado a memoria, prima di loro per me la musica polacca era, al massimo, le colonne sonore di Franz Waxman o le composizioni di Chopin. Poi, quasi per caso, mi capita di ascoltare prima il gioiello Drone degli Stara Rzeka, Cień Chmury Nad Ukrytym Polem, tra le migliori cose ascoltate nei mesi andati e poi questo più confacente e ordinario ++ dei Trupa Trupa. La prima cosa che ho notato è una sorta di bassa fedeltà volontaria per il corpo del sound e involontaria in alcuni passaggi, evidente nell’opera degli Stara Rzeka ma che si presenterà lampante anche nella chiusura della prima traccia di questo ++ quando il pezzo è troncato bruscamente e in malo modo. Certo, due indizi non fanno una prova ma mi viene il dubbio che nell’ex Polska Rzeczpospolita Ludowa l’attenzione alla forma sia meno maniacale che in altri lidi. Eppure non è certo questo quello che resta quando l’ascolto diventa reiterato, ossessivo, maniacale. Quello che emerge è una capacità di suonare moderni, attuali, quasi innovativi, senza scomodare troppo l’estro.

Il suono dei Trupa Trupa è tutt’altro che polacco, anzi pesca a piene mani dalla tradizione britannica più o meno datata, eppure mantiene intatta un’atmosfera cupa, cruda, che odora di Post-Punk post bellico, carico di rabbia e nero come una ribellione solo formalmente soffocata. Suona come la collera e la speranza di una Berlino divisa da un muro d’odio la traccia iniziale (“I Hate”) con le sue vibrazioni stile Joy Division, le sferzate elettriche, fredde come il vento nordico che soffia il nove novembre e invaso da schizofrenici passaggi irrealmente allegri. Concedendo all’album qualche attenzione in più di quanto siete abituati a fare potrete notare anche testi tutt’altro che banali, anche se spesso incentrati sul classico e (stra)abusato tema della morte mentre musicalmente, oltre che dagli anni 80, la band pesca a piene mani dalla psichedelia britannica, dal progressive, da Canterbury passando per il Krautrock teutonico, il Garage sixties e un’infinità di altre contaminazioni occidentali (“Felicy”, “Over”, “Sunny Day”, “Dei”, “Exist”) sfruttando le ritmiche ossessive per proporle in chiave danzereccia e travolgente (“Miracle”, “See You Again” che Arctic Monkeys e Babyshambles avrebbero volentieri preso in prestito per dare carica ai loro nuovi album).

Bellissimi anche i passaggi più eterei, Pop, armonici che talvolta somigliano a vere e proprie filastrocche e che mettono in mostra un lato apparentemente più nascosto dei quattro ragazzi, quello che si rivolge con più attenzione alla melodia e al sogno (“Here and Then”, “Home”). Qualche parola a parte merita “Influence”, traccia numero dieci e penultima della tracklist, talmente straordinaria da meritare nessuna parola e un silenzio ossequioso. Le voci (nell’album sono di Kwiatkowski, Juchniewicz e Wojczal mentre Pawluczuk si limita alle sole percussioni) diventano protagoniste di una lugubre poesia malinconica, e gli strumenti, compreso il sax di Witkowski che suonerà anche in “Dei”, disegnano solo un sottile paesaggio sullo sfondo, creando un’atmosfera inquietante ma allo stesso tempo pregna di sogno.

Un disco che meriterebbe più attenzione di quella poca che probabilmente avrà in un occidente incapace di scoprire, stupirsi, innamorarsi. Un album che spero possa non passare inosservato almeno a chi mi sta leggendo proprio ora perché se è vero che il popolo d’internet ha più strumenti a disposizione dei morti viventi seduti davanti alla tv per scegliere la propria musica, è anche vero che non sempre è capace di cogliere il meglio da una proposta tanto ampia.

Read More

White Lies – Big Tv

Written by Recensioni

Ascolto: serata da divano, senza pretese.

Umore: discreto senza pretendere molto da sé stessi.

White Lies, che bella band. Vi ricordate gli anni 80? Li conoscete davvero o ne avete solo sentito parlare e quindi ne avete parlato di conseguenza, alimentandone la fama? Riformulo la domanda, vostro onore. È vero, era una domanda pretenziosa. Intendevo dire: siete abbastanza vecchi da sapere cosa davvero c’era in quelli che sono stati tramandati come i favolosi anni 80? Io sì; permettetemi di spiegare: negli anni 80 c’era l’esplosione della produttività affarista yuppie e contemporaneamente la vecchia macchina produttiva che perdeva pezzi con le fabbriche che chiudevano. C’erano le orrende spalline e le giacche colorate e la pelle nera dei primi punk. C’erano gli sfigati di nicchia e c’era Sharon Zampetti della terza C. C’erano, nella società come nella musica, degli eccessi che rendevano squilibrata la percezione di quasi tutto; tutto aveva un bianco ed un nero e quasi sempre il bianco e il nero erano in antitesi. O ascoltavi e ti incupivi a bestia con la New Wave oppure ti gasavi emettendo urletti per i Duran Duran (grande band che abbiamo cominciato a considerare tale venti anni dopo quando le adolescenti son diventate mamme e quando ci siamo sentiti più sicuri della nostra personalità per smettere di odiarli solo perché immensamente belli).

Perché questo sproloquio? Vostro onore, presto detto, non sto divagando. I White Lies sono assolutamente anni 80 e lo riconosci da molte cose: dal modo di cantare di Harry McVeigh (simpatico anche da vedere con quel visetto da British polite boy un po’ paffuto stile cicciabombo dei Take That), sempre su tonalità basse e baritonali alla Jim Kerr dei Simple Minds, dai riverberi usati sul rullante o sulla stessa voce, dagli archi sintetici usati a mo’ di tappetone su cui stendere trame di chitarre rarefatte e martellanti, dagli arpeggiatori bassi e da quel modo di intendere le linee ritmiche dritte che più dritte non si può. Del resto, lo dico da quando avevo i calzoni corti, se la canzone e l’arrangiamento sono fatti come si deve la batteria non ha alcun bisogno di schiodarsi dal quattro quarti (vero Rolling Stones?). Rispetto ai primi due lavori la produzione (di Ed Buller, già a lavoro con gli Suede) è più sofisticata e il suono più mainstream, rimanendo comunque coerente con l’impostazione della band; Big Tv è più bello da sentire sull’impianto di casa, qualcuno direbbe estetizzante, per me è semplicemente più figo.

PERO’. In ogni mio processo mentale c’è sempre un’arringa difensiva o un’ipotesi accusatoria che comporta un “però”.

PERO’ i White Lies sono moderni e non sono tristi.

Però i pezzi sono ben architettati e ipnotici ma non soporiferi, ti fanno muovere la testa su e giù come se stai ascoltando i Joy Division ma pure il bacino come se fossi ad ascoltare Simon Le Bon e soci. Senza dimenticare il battito delle mani e lo scrollo alternato delle spalle con o senza spalline.  Si vostro onore, mentre ascoltavo Big Tv mi sono sorpreso a dimenarmi tra il divano e il frigo: lo confesso. Vostro onore sono un po’ coglione? Si, vostro onore. Ma è un gran disco del terzo millennio, altro che anni 80. Ho concluso vostro onore.

Read More

Dust Fear of Lover – Dust Fear of Lover

Written by Recensioni

Dalla statua in copertina capiamo subito molte cose. Pochi spazi all’immaginazione. Tutto ben prevedibile e indirizzato sin dalle prime note. Una minuziosa gestazione del dolore incanalata in vie sicure. Dust Fear of Lover da Brescia è una one-man band composta dall’enigmatico Death Boy (sulla band si trovano pochissime informazioni sul web) e ha l’atmosfera grave della New Wave tinta di nero che paga il suo pegno ai grandi santi del passato: Jesus and The Mary Chain, Bauhaus, Joy Division.

Grande frenesia e oscurità, un suono depressivo, malato che si materializza in un basso pulsante e ossessivo (lode al maestro Peter Hook) che martella tutto il disco senza tregua. Suono anche statico, claustrofobico con numerosi accenni Industrial, come nella violenta e logorante “As my Bite” che pare essere uno smusso agli spigoli dei Ramnstein. Una lunga strada buia senza fine, percorsa lentamente e priva di curve, un viaggio terrificante e doloroso tra carne e spirito. “Usher” si presenta con una chitarrina molto casalinga e il solito basso martellante (che tra i suoni del disco è sicuramente l’ingrediente più gradito e curato). La voce di Death Boy si alterna poi a quella di una caparbia fanciulla che ben bilancia innocenza e malizia in “Don’t Know Why”, uno dei pezzi più riusciti del progetto. The Cure non mancano all’appello e, anche se le loro atmosfere sono un po’ annebbiate, le loro magiche visioni appaiono come fantasmi in “The Pieces of my Soul”. Sogno sacro ma incredibilmente materiale, contraddistinto da tastiere che pare vogliano cantare la loro infernale ninna nanna. “A Stain in me” è invece una pesante cavalcata, raffazzonata con tante, troppe idee buttate nel calderone senza mescolare troppo. Tanti brani dati in pasto a bpm forsennati, in ogni caso a vincere sono sempre le semplici ma efficaci ritmiche e una produzione che riesce a essere puntigliosa nonostante la semplicità e il suo essere terribilmente casalinga. Sicuramente una iperproduzione avrebbe snaturato lo strato grezzo che sta in superficie, con questo suono il disco suona più vero, più dolorante e rimane comunque un tuffo indietro nel tempo. Un bel regalo per tutti gli affezionati del vero Dark, quello delle radici, anche se sporcato di qualche schizzo più moderno. Quella musica che senza troppi effetti tramuta i suoi incubi in realtà.

Spicca tra i tanti grigiori del disco “I Wish it Would Never End”. Sembra essere un addio voluto, come uno sguardo fisso verso la nave che parte, con il dolore dentro e la faccia impassibile di un uomo che vede le sue speranze partire. Il grigio si tramuta in nero pece e lascia la traccia di un sound che sembra antico, polveroso, lacerato ma ancora solido e pulsante. Pronto a confezionare ancora la sua buona dose di agonia.

Read More

I 10 peggiori personaggi incontrati ai live estivi! Ci sei anche tu?

Written by Articoli

Ed è finita un’altra stagione di concerti e festival, nonostante i tagli siano stati numerosi e abbiano ridotto di molto i live “delle grandi occasioni”. Non resta che programmare i concerti al chiuso che vorremmo andare a vedere nell’interminabile autunno-inverno e, nel frattempo, ricordarci la spensieratezza dell’estate. I pantaloni corti, le tipe in bikini e stivali anche a luglio perché gli stivali fanno Rock, le zanzare, la birra sempre sciacqua e sempre cara, il sudore del barbuto metallaro di fronte a noi, perché c’è sempre un metallaro a qualsiasi concerto, di qualsiasi genere e i rompicoglioni. E già… perché sì sì, che bello il live come momento di condivisione di una passione, sì sì che bello ritrovarsi lì, nello stesso posto, noi e centinaia di altre persone comenoi. Cazzate. Non ce la meniamo. A ogni concerto che si rispetti c’è sempre qualcuno con cui ciascuno di noi pensa di non avere proprio niente a che spartire. Esattamente come quando siete nella vostra spiaggia libera a leggere l’ultimo saggio che vi appassiona e di fianco a voi c’è quella che legge i romanzi Harmony o Novella 2000. O proprio come quando al mare siete lì a cercare relax e pace al largo, pensando a quanto sia bello farsi accarezzare dalle onde leggere e dal sole ma sentite dal bagnasciuga gente che impreca, starnazza o semplicemente passeggia con musica improponibile, a un volume improponibile che esce dal proprio smartphone, rigorosamente senza cuffie, così che tutti gli astanti possano compartecipare al cattivo gusto artistico del soggetto in questione.  Ai concerti è uguale. L’inopportuno, il rompicoglioni, quello che crede d’essere nel posto giusto e che magari si atteggia anche a grande frequentatore, grande appassionato, grande cultore e non ha mai imparato un minimo di etichetta. O quanto meno il vivere civile. Vogliamo ricordarli con voi, stilando un breve elenco che non vuole essere una classifica, ma solo una carrellata di macchiette da live con cui sicuramente vi sarete imbattuti anche voi. Così il quadro dei ricordi della nostra estate musicale può essere veramente completo. Eccoli:

1)      Il fotografo o cameraman raffazzonato che invece di guardare il concerto passa tutto il tempo con la macchina fotografica o il cellulare alzato impedendo anche a te di godere dello spettacolo. Nelle situazioni di scarso pubblico, alcuni s’improvvisano fotografi ufficiali piazzandosi nei posti più improbabili sul e vicino al palco.

2)      L’organizzatore di eventi che a fine concerto, palesemente ubriaco, blocca il cantante e ufficializza con contratto verbale una data a costo zero nel suo paesino, il prossimo anno, per la festa del patrono.

3)      Il fan che le sa tutte, le canta tutte, le canta male e, nelle pause, urla come una groupie di Justin Bieber in preda a crisi d’overdose. A fine concerto si lamenterà perché non hanno fatto il suo pezzo preferito nonostante per tutta la durata del live avesse suggerito la scaletta alla band, urlando il nome delle canzoni.

4)      L’indifferente e/o infastidito che dà le spalle al gruppo, rompe i coglioni chiedendo come possiamo apprezzare certa “roba”, sbuffa, si annoia ma dentro sta male perché vorrebbe scatenarsi anche lui. Non lo fa perché distruggerebbe la sua immagine di indie snob. Tende a sviare quando gli si chiede che cazzo ci sia andato a fare al concerto. Al limite risponde di aver avuto un accredito o di aver accompagnato qualcuno.

5)      Il giornalista. Ha avuto l’accredito stampa. Sta lì impassibile, passando il tempo a guardare ogni minimo movimento delle dita del bassista e giudicando ogni nota. Scatta al massimo un paio di foto che allegherà a un articolo, non balla, non ride, non può divertirsi. Lui sta lavorando. Ovviamente gratis.

6)      L’ubriaco che non ha neanche idea di chi stia suonando. Urla a caso, canta a caso, balla e poga a caso, litiga con quelli vicino, inveisce contro la band, sputa, suda (rigorosamente in canotta o a petto nudo) e ogni tanto vomita. Qualche volta è portato via dai buttafuori o da un’ambulanza.

7)      Lo spaesato. Ce l’hanno portato. Non voleva venire. Spesso è la ragazza o il ragazzo del fan. Non sa chi stia suonando e non sa nulla di musica che vada oltre Tv Sorrisi e Canzoni. Di solito ascolta la Pausini, Emma o Malika Ayane ma gli amici o il/la fidanzato/a non volevano lasciarlo/a solo/a di sabato.

8)      Quello che ci deve stare. Mocassino firmato viola, calzino leggero, pantaloncino lungo bianco, cinta a riporto, camicia di lino slacciata, petto abbronzato e depilato in bella vista, barba finto incolta e sorriso da piacione con cocktail in mano, per tutta la sera. Poteva suonare Gg Allin o i Pooh, lui sarebbe stato col gomito appoggiato a quel bancone.

9)      Il reduce degli anni 80 (anche 70). È sempre il più vecchio della serata, leggermente in sovrappeso; indossa una t-shirt di una vecchia band abbastanza nota ma senza esagerare. Ramones, Dinosaur Jr, Joy Division. Di solito è solo perché i suoi amici hanno famiglia, non beve troppo, non balla troppo, non si diverte troppo.

10)   Il commentatore. Ce ne sono di due tipi. Uno che parla bene di tutto e uno il contrario. Ti si piazzano di fianco e ti raccontano tutto sulla band, sulla serata, sul gruppo spalla, sulla loro vita, sulle loro passioni. Intervallano i momenti di semplice cronaca a considerazioni su quanto sia figo l’ultimo disco del gruppo, su quanto siano stati innovativi i riff del chitarrista o al contrario, si lamenta per il costo della birra, per l’assenza di parcheggi. Comunque, non sta mai zitto.

Sono anche loro che rendono speciale l’esperienza di un live che sia di un supergruppo o di una sconosciuta band Indie di Pavia. Ma inutile fare tanto i superiori, se leggi tra le righe, uno di questi dieci sei tu. Che numero sei? Io un misto tra cinque e nove.

Read More

Le Superclassifiche di Rockambula: Top Ten anni Settanta

Written by Articoli

Nella mente di ogni buon italiano medio, poveretto, gli anni 70 sono stati quelli che per i paesi occidentali anglosassoni erano i sessanta. Si sa che da noi le mode, le tendenze e gli stili musicali sono inclini ad attecchire con un certo ritardo e figuriamoci cosa poteva essere avere vent’anni nel decennio di cui stiamo parlando. Poca la stampa italiana che chiacchierava decentemente di musica estera. Non c’erano certo canali televisivi come Mtv (quella degli esordi, intendo) e, ovviamente, non c’era Internet. C’era solo da sperare in qualche perla regalata dal cinema e dalle sue colonne sonore, dalla radio, oppure aspettare che il fratello maggiore emigrato qualche anno prima facesse ritorno con un disco sconvolgente.

Gran parte delle cose straordinarie accadute in musica nei 70 finirono quindi per entrare nell’immaginario collettivo degli italiani solo qualche anno dopo. Pensate ai Beatles, ai Led Zeppelin oppure a Hendrix o Janis Joplin (entrambi morti nel 1970, mentre Jim Morrison morirà l’anno seguente).

Sarà il tempo a restituirci una straordinaria foto dei seventies, gli anni delle sit-com, del Pop e del Rhythm & Blues, della Disco-Music e delle discoteche, dell’Elettronica e del Punk. Dei polizziotteschi e della commedia sexy; de Lo Squalo, Rocky e Il Padrino. Anni fantastici, pur nelle sue ambiguità,per chi li ha vissuti e malinconici per chi ne ha solo subito il colpo di coda, come me del resto.

Di seguito la classifica stilata dalla redazione di Rockambula dei migliori album dal 1970 al 1979. Grande assente la Disco Music e l’Elettronica, presente con i Kraftwerk ma ben oltre la decima posizione e un primo posto che conferma una certa ruvidezza di gusti da parte nostra, già mostrata nella classifica dei sixties.

1) The Clash – London Calling

2) Pink Floyd – The Dark Side of the Moon

3) David Bowie – The Rise And Fall of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars

4) Black Sabbath – Paranoid

5) Sex Pistols – Never Mind The Bollocks Here’s The Sex Pistols

6) Joy Division – Unknown Pleasures

7) Bob Marley – Exodus

8) The Rolling Stones – Sticky Fingers

9) Queen – A Night at The Opera

10) Television – Marquee Moon

Read More

Albedo Una Sonora Lezione di Anatomia

Written by Interviste

Gli Albedo sono certamente una delle band più seguite e ben recensite di questo ultimo periodo, il loro disco Lezioni di Anatomia sembra essere davvero una figata. A questo punto abbiamo deciso di interpellare il frontman della band Raniero per vedere quanta verità ci fosse dietro questo fenomeno, il risultato è una bella chiacchierata tra Dente che incarna Battisti, ri(e)verberi esageratamente abusati, promoter sbagliati e osterie romane… buona lettura.

Gli Albedo pubblicano Lezioni di Anatomia, il terzo lavoro ufficiale, è quello giusto?

E’ solo un disco. Quando scrivi i dischi pensi che sia sempre quello giusto. La cosa migliore che tu abbia mai fatto. Poi magari te lo risenti ad un anno di distanza e non ti piace più. Sicuramente qua abbiamo dato un taglio piuttosto preciso e cercato di dare un colore uniforme.

Un disco molto intimo, le parti del corpo che cercano di farsi sentire dall’uomo, geniale l’effetto della voce per dare una sensazione di interiorità a chi ascolta, come nascono queste diavolerie?

Il fatto di scegliere a priori un argomento su cui lavorare ci stimola nello svolgere il tema, e non facendo i musicisti di professione e avendo sempre meno tempo da dedicare, credo che ci aiuti a restare concentrati e a trovare ancora delle cose belle in quello che facciamo al di fuori della routine. Anche la scelta dei suoni in fase di mixaggio soprattutto sulla voce l’avevamo già ampiamente discussa tra di noi proprio con quella idea di volerla in un qualche modo renderla innaturale, impersonale, lontana con l’aiuto del reverbero, effetto di cui molto probabilmente abbiamo abusato. Per fortuna abbiamo trovato Adel (il fonico) che si è prestato a quello che per molti potrebbe suonare come un errore.

Testi bellissimi e importanti, colonna vertebrale del disco, la loro creazione segue delle linee precise?

Grazie, non per questo disco. Abbiamo negli anni trovato le nostre formule per scrivere ma oggi come oggi per fortuna trovo delle linee vocali su quasi tutto quello che scrivo, forse perché ascolto tante cose e rubo un po da tutte le parti senza farmi troppi problemi.
Il testo è comunque condizione fondamentale nello sviluppo del brano. Suoniamo gli arrangiamenti in funzione di quello, oppure esattamente al contrario ma non cerchiamo mai di adattare forzatamente l’uno all’altra.

Io vi ho trovato molto post rock con attitudine pop, un genere direi innovativo, molti avrebbero scelto la lingua inglese, voi perché avete scelto l’italiano rischiando e non poco sul risultato finale?

Direi che ci hai preso in pieno. Il pop, inteso come forma canzone e comprensibilità dell’insieme fa parte di noi tutti da sempre. Non abbiamo velleità di sperimentazione alcuna e poi non ne abbiamo le capacità tecniche. Non ci interessa stupire con parti complesse. Ci piace cercare di suonare bene e rendere le parti strumentali interessanti ma non necessariamente prolisse o fini a se stesse. Nella fase di scrittura ho ascoltato molto quello che viene definito post rock ma adattarlo ad una tradizionale forma canzone sarebbe una bestemmia per il genere in sé ed il risultato è quello che c’è in questo disco. Se ci pensi bene i nostri brani potrebbero reggere tranquillamente con una chitarra e voce e così vogliamo che sia. Però non fateci fare più date in acustico perché siamo già abbastanza depressi di natura.

C’è anche un evidente omaggio ai Beatles (A Day in The Life) nel pezzo Stomaco, un legame speciale con le loro canzoni o soltanto una questione di gusto del sound?

Chiunque suoni ha un legame con loro. Al di la di tutto quello che si può dire e che è stato già sicuramente detto, credo che l’attualità del testamento che hanno lasciato alle generazioni future sia soprattutto l’idea di cui parlavamo prima, cioè dell’accessibilità. Quell’incredibile dono per cui quello che scrivi è universalmente riconosciuto straordinariamente bello da tutti. Donne, uomini di qualsiasi età. Non ci piace l’idea che ci si debba chiudere in un genere e cercare di essere riconosciuti in “questo” o “quello”. Per questo aspetto mi sento molto più legato a loro che a tanti gruppi a cui musicalmente siamo più simili. Naturalmente parlo di attitudine e non di risultati artistici. Sapevamo di farla fuori con questa citazione pesante ma noi abbiamo sempre scritto senza il dover pensare al dopo.

Cosa è cambiato dalle precedenti produzioni? Vi sentite artisticamente diversi?

Ci piace pensare di essere maturati,almeno un pochino. Ci piace anche cercare di fare qualcosa di diverso probabilmente perché le cose che facciamo ci stufano presto. A dire la verità, e lo penso sul serio, non crediamo di essere un gruppo fico. Non risento quasi mai i nostri dischi. Non mi piacciono. Semplicemente penso che non siamo tanto peggio di tanti altri. Quando leggi ovunque che Dente è il nuovo Battisti, everything is possible. Albedo i nuovi Bee Hive? Ci sta tutta.

Tutte le recensioni parlano bene di Lezioni di Anatomia, siete consapevoli di aver fatto un ottimo lavoro? Considerando il post di Miro Sassolini che definisce il vostro disco il migliore in circolazione in questo periodo?

Ai gruppi come noi rimangono solo tre cose: le pacche sulle spalle alla fine dei concerti accompagnate da un fragrante “Bravi, cazzo”, i messaggi e i post su facebook dove per fortuna ci insultano ancora pocome le parole di persone che ascoltano tantissimi dischi e che rimangono entusiasti dal nostro e ci danno le 5 stelle Michelin. Certo quando poi ne arrivano di belle da chi ha scritto una parte di musica alternativa italiana allora è tanta roba, perché è interessante scoprire che interessi anche a generazioni musicali differenti in tutto e per tutto,persino e soprattutto in termini fruizione. Questo ovviamente fa onore a lui e non a noi, che come generazione facciamo poco parlando tanto.

Adesso è il tempo di montarsi la testa?

Adesso è il tempo delle mele.

Sono a conoscenza della prossima uscita del video “ufficiale” di Cuore (l’opener di Lezioni di Anatomia), volete parlarci del video?

Un giorno mi ha chiamato Fabio Valesini, mi ha detto che non aveva mai fatto un videoclip musicale, che aveva uno storyboard dove succedevano cose che non si capivano, che era girato tutto al contrario ma montato dritto ma che poi alla fine il risultato sarebbe stato metà e metà, che c’era una scena con delle radiografie che si animavano, e che avremmo dovuto procurarci un carrello della spesa perché con il budget che gli era stato dato non ci prendevamo nemmeno una sedia di legno.
Come potevamo dirgli di no?
Ed in effetti il risultato è sopra ogni nostra aspettativa,come ogni idea malsana che si rispetti.

Gli Albedo quale ruolo potrebbero ricoprire all’interno della musica italiana?

Ci siamo abituati all’idea di essere marginali. Uno di quei gruppi che fa 34 dischi ma li scopri al 33. Quello che facciamo ha bisogno di maturare nel tempo. Il fatto è che non siamo abbastanza originali per spiccare e non siamo abbastanza stronzi per farci odiare… Non ci tingiamo i capelli, non siamo omosessuali, non siamo intellettuali, non ci vestiamo con gli stracci e non viviamo nei furgoni. Non fingiamo di essere quello che non siamo. Menchemeno ci dichiariamo artisti quando tra 4 o 5 anni nessuno si ricorderà più di noi. E nemmeno di tutti gli altri. I tempi sono cambiati. Ci sono troppi dischi e troppi gruppi per cui alla fine non emerge nessuno davvero. E se lo fa, lo fa per un tempo assai breve. Non possiamo essere tutti i Joy Division, dai,siamo seri. Noi  abbiamo una casa, una famiglia un lavoro. Le nostre scelte le abbiamo già fatte. Per questo forse nei nostri dischi c’è una buona dose di realismo. Certo un’ampia cassa di risonanza ci aprirebbe ad un pubblico più grande, ma poi perderemmo il fascino degli eterni incompresi e non sarebbe più divertente per noi lamentarci e parlare male di tutti gli altri.

Avete un disco da promuovere quindi presumo un tour da onorare, c’è qualcos’altro che bolle in pentola?

La verità è che a suonare in giro ti diverti molto solo quando la situazione è perlomeno decente. Quando trovi realtà assurde a 700 km da casa la prima volta ci ridi, la seconda spacchi un disco de I CANI, la terza ti chiedi se ne vale la pena di fare tutta quella strada. Proprio perché abbiamo scelto di suonare solo per divertirci se andiamo a suonare ed è tutto una merda non ci andiamo più. Quindi faremo meno date ma meglio organizzate. Non perché pensiamo di meritare chissà cosa ma è perfettamente inutile per noi andare fino a Bari in un locale che di solito fa suonare cover band al cui pubblico non interessa nulla di noi, perché il promoter non sa fare il suo lavoro. O suonare con la chitarra acustica mentre la gente mangia manco fossimo nelle osterie romane.
Onoro e rispetto chi fa quello ma non è quello che vogliamo fare noi.

La scelta di affidare il disco ad una nuova e freschissima etichetta (V4V Records) è stata una buona idea?

Potrei trollare quei deficienti qui ed ora per diciassette minuti di applausi ma ti dico in verità che trovare persone che investono cosi tanto in un progetto come il nostro facendolo bene, è ad oggi in pratica impossibile.
Ci perdono soldi ma soprattutto tempo. Lo sanno e lo fanno consapevolmente. Se ci pensi è assurdo. Allora quello che ci lega davvero sono le stronzate che ci scriviamo in chat e l’idea di condividere insieme qualcosa di tanto nostro quanto loro. Va oltre le aspettative di vendita o di successo mediatico. Posso solo dire che se avessero i mezzi e fossero persone come loro a capo di importanti case discografiche non staremmo adesso nella situazione in cui siamo. La competenza in questo settore sembra essere una chimera.

Adesso che siete ricchi e famosi e scopate da Dio potete dire tutto quello che vi passa per la testa, questo è il vostro spazio…

Se questo fosse il mio spazio direi a tutti i lettori di non drogarsi e di avere rispetto per gli alberi e di non farli pisciare dai cani. Comunque come tu sappia certe cose rimane per noi un mistero.

 

Read More

Kill Your Boyfriend – Kill Your Boyfriend

Written by Recensioni

Benvenuti nei deliri onirici dei veneti Kill Your Boyfriend, trio elasticizzato, che nel loro omonimo debutto garantiscono l’effetto straniante e accentuato di un bellissimo elettro-post rock e filamenti punk-wave, una digressione o meglio una imponente estensione di suoni, larsen, nenie e cosmique thing che desta attenzione nonché una buona e stralunata vertigine che si innesca sin dalla prima delle otto tracce in scaletta.

Dunque una prorompente onda color pece che si affaccia nella consapevolezza e tra le divagazioni della musica indipendente, un progetto sonico che vede in Marco Fontolan, Matteo Scarpa e Roberto Durante e nelle manipolazioni in fase di missaggio di Nicola Manzan (Bologna Violenta) la tiratura emozionale di un disco buio ma illuminato da accecanti ed impenetrabili flash di lontani anni Ottanta – ma di quelli svegli – sui quali si possono rileggere i sospiri malati di  Joy Division, Jesus & Mary Chain, Velvet Underground, quel fustigato senso maledetto che – nonostante gli anni di mezzo – esponenzialmente seguita a crescere incredibilmente, diaboliche fitte nel cuore che questa formazione contribuisce a riprodurne i fasti e le convinzioni dentro un viaggio sonoro, notturno,  a cinque stelle.

Con l’annaspo filettato di certi Sigue Sigue Sputnik che agitano la robotica di “Chester”, il disco comincia a macinare pazzie amplificate, nichilismi avanzati e coma vigili che si diffondono immediatamente nelle angolarità sintetiche di “Jacques” come negli inneschi ad ingranaggio cosmico che si fanno mantrici nelle volte di “Xavier”; è  un esordio teso, stupendamente teso che attacca togliendo il fiato fino ad incantarti del tutto, togliendoti momentaneamente un pizzico di ragione mentale in una gemma ipnotica dai sapori orientali “Tetsuo”, traccia col numero sette del lotto che su fusioni psichedeliche e tratteggi etnici-elettronici ti domina e ti fa suo al pari di un amore sacrificale.

Già sapevano di avere tra le mani un piccolo capolavoro, ed ora è inutile dire che ci avevamo visto, pardon, sentito bene!

Read More

New Order – Lost Sirens

Written by Recensioni

Pur  nell’evidenza clamorosa di molteplici riferimenti caratteriali, nell’indolenza nevrotico/lunatica che li ha sempre contraddistinti, i “nuovi” New Order di “Lost Sirens”, al di fuori delle contorte code giudiziarie, rimangono sempre sulla linea della sicurezza, ripercorrendo quasi per intero le gittate sonore di ieri, magari con un po’ meno di sgambettamenti dancers, ma da quel versante non ci si muove.
Il casinista e adorabile bassista  Hooky se ne è andato sbattendo le porte ma in questo Ep comprensivo di otto brani per un circa quaranta minuti di musica nebbiosa, Ottantiana con tutti i crismi, il suo basso risuona e fa tonfo ancora in maniera impareggiabile, con intatta la fascinazione wave che ha segnato una generazione al completo; tracce estrapolate da sessioni discografiche del 2005, tirate fuori da quel bel “Waiting for the sirens” messo a congelare per vicissitudini e relazioni increspate e che solo ora vengono messe all’aria per la goduria di massa. Dunque una band riformulata nel fisico ma identica nella memoria, un sound totale che ritrova l’equilibrio e l’ostinazione intatta per piacere ancora.
Alcune tracce già sono note, rivisitate con noise “Hellbent”, con l’impronta noir dei Velvet Underground “I Told You So”, un ottimo sculettamento dance “Sugarcane” e qualche lascivia sdolcinata che tra “Californian Glass” e “Recoil” stende una bava amara di nostalgia appassionata, e le atmosfere di contorno? Tecnicismi soffici di elettronica e belle fiammate di chitarra (spesso anche computerizzata) che già sono patrimonio insostituibile per memorabili bridge radio-friendly.
E la storia va, prosegue il suo viatico sommersa da distorsori  e foto ingiallite di Joy Division verso un futuro al contrario.

Read More