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Thot – The City that Disappears
No, non sono totalmente impazzito e neanche vivo di una presunzione tale da spingermi a inventare una definizione, per un genere musicale, tanto strampalata e azzardata. È lo stesso Grégoire Fray, il cui moniker è proprio Thot, che indica la propria musica con le parole Vegetal Noise Music e, sinceramente, tolte le suggestioni create dai termini, faccio una certa fatica a comprendere questa scelta. Del resto, come lui stesso spiega, tanta follia cela la voglia di prendere un po’ in giro questa necessità di apporre sempre un’etichetta a ogni nuovo prodotto e la cosa mi rompe un po’ il cazzo giacché ormai gli artisti che “non si ritrovano in nessun genere” o “non amano i generi” sono più noiosi di noi stessi giornalisti, opinionisti, critici, cialtroni che usiamo le definizioni per questioni pratiche, ma, talvolta, affondiamo dentro sabbie mobili linguistiche create proprio da noi. Mettiamo da parte queste digressioni sugli aspetti formali della critica e parliamo di Thot e quindi di Grégoire Fray, nome importante dentro la scena Industrial, noto anche per alcuni remix di Nine Inch Nails, Carina Round, Justice, Depeche Mode, Amenra e, per i seguaci incalliti, per due album solisti (The Huffed Hue del 2005 e Obscured by the Wind del 2011) e due Ep (Ortie del 2009 e The Fall of the Water Towers del 2012). Lo stile di questo The City that Disappears è profondamente intriso di Industrial ma molto presenti sono anche gli aspetti Synth Pop e Rock tanto che l’album è da considerarsi il più variegato della sua discografia. Eppure non tutto è oro quello che è musica. Gran parte dei brani manca di mordente, suonano potenti nella forma quanto morbidi nella sostanza, con una vocalità a tratti imbarazzante nel suo cantato e soprattutto nella timbrica, suoni ai limiti della decenza, melodie banali, arrangiamenti che sfiorano il cacofonico involontario e un’originalità stilistica difficile da trovare anche a spulciare ogni singola nota. Dico tutto questo con profondo dispiacere perché pare (non ho mai avuto la fortuna) che dal vivo i suoi spettacoli siano eccezionali e poderose miscele di performance musicali e visive, grazie all’apporto di diversi collaboratori tra cui Arielle Moens alle proiezioni e grazie anche all’interazione col suo pubblico (The Vegetal Noise Lovers) chiamato a partecipare attivamente con progetti quali video e remix. Che cosa posso farci io, però, se del disco dobbiamo parlare e il disco è tutto tranne che qualcosa che vi consiglierei di ascoltare, salvo che non siate psicopatici da Synth Pop a tutti i costi?
L’unica cosa che posso fare è dirvi che i tempi di Depeche Mode e NIN sono finiti ma se proprio volete fare un tuffo in questo mondo sintetico e volete farlo con un disco freschissimo, lasciate stare The City that Disappears e le contaminazioni industriali e provate con cose tipo Singles dei Future Islands.
Phoenix – Bankrupt!
Ci si aspettava dal nuovo disco dei francesi Phoenix, “Bankrupt!” – come del resto aveva accennato Thomas Mars in un rotocalco inglese – uno sfolgorante gioco di prestigio programmatico, grandi rivelazioni sperimentali se non addirittura tecnicismi d’alta ingegneria sonora, quando poi, una volta scartato dalla confezione, è sì un bel disco ma della consueta cotta, leggermente votato su territori sintetici e con la smorfia gentile della wave e delle sensibilità kraut, ma nessuna trascendentale svolta da annotare sull’almanacco degli immensi capogiri.
Sostanzialmente un pop-tune dalle infinite possibilità di scavare palinsesti radio, ma se ci vogliamo proprio attenere al mero brivido d’ascolto, il nuovo disco è lineare alle loro produzioni che lo hanno preceduto, composizioni aerobiche che passano come brume autunnali, qualche seduzione ad arrembare atmosfere clubbing e delicatezze dal sapore decisamente europeo, e se vogliamo lanciarsi in azzardati commenti, pure somigliante al predecessore Wolfgang Amadeus Phoenix quasi in maniera imbarazzante, ma che comunque – potremmo parlare per ore e ore – funziona benissimo specialmodo quando si associa la musica dei Phoenix con i groove pubblicitari urbani; membri della compagine francese che ha portato nel mondo le convulsioni di Daft Punk, Air, Justice, la formazione di Versailles ha sempre saputo giocare la carta del velluto sonoro, quella felice derivazione a metà strada tra equilibrio e ristagno, l’additivo preciso per non cadere mai nel pop terragnolo, quello attaccato alle facilonerie da classifica, ma si è sempre mantenuto candido e alto sulla media, poi non sempre ci si è riusciti, ma senza dubbio una band che- per quanto riguarda il passato prossimo ha irretito abbastanza – poi da qui al dopo chissà.
Disco di contrasti e confronti, come nelle circonferenze oriental oriented “Entertainment”, nei radenti ventilati “S.O.S. in Bel Air”, al centro dello strumentale nordico della titletrack, l’R’N’B che tinge la bella “Chloroform” o – se ci si vuole sentire leggeri come una piuma – aggrappati alla sintonia poppyes di “Oblique City”, poi tutto quello che può alimentare le suggestioni di un ascolto tutto sommato piacevole – ripeto senza nessuna rivoluzione interna – lo si trova nel resto della list, che se anche aggiunge poco valore alla storia della band, perlomeno la mantiene.