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La Tosse Grassa – Tg4

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La Tosse Grassa è un culto più che una one man band demenziale, cattivo e ironico come mai nessuno in terra italica; irriverente e totalmente contro tutto quello che i puristi del Rock possono considerare musica. Un culto ormai attivo dal 2011 e con quattro dischi alle spalle (Tg4 compreso) del tipo che riesce a rapire tanto quanto a disgustare, spaccando inevitabilmente gli ascoltatori tra adepti e nemici. Se non avete mai origliato null’altro di quest’omaccione marchigiano preparatevi al peggio perché la prima volta che lo farete, le vostre reazioni saranno un misto tra “che merda è questa?”, “stiamo scherzando?” e altre dichiarazioni di questo stampo. Poi potranno accadere due cose. Non vi azzarderete mai più a pigiare il tasto play oppure proverete un’imbarazzante voglia di dare ascolto ancora e poi ancora e poi ancora i brani di uno dei Tg (i suoi album).  La cosa più strana è che non riuscirete a capire il perché di questa voglia e avrete paura di quello che siete, un po’ come quando nella testa ci passano pensieri talmente cattivi, sadici e meschini da farci vergognare di noi stessi.  Dal vivo La Tosse Grassa è esperienza delirante e divertente grazie anche allo pseudo corpo di ballo Radical Macabre Tanzkommando ma per ora, in attesa della nuova stagione live, dobbiamo accontentarci di questo nuovo lavoro in studio, che poi dire “in studio” è piuttosto un’esagerazione, visto il livello Lo Fi della registrazione. Chiarito ai miscredenti quale sia la follia dietro al culto, resta da capire di che diavolo di roba si stia parlando. Autodefinitosi un incrocio tra GG Allin, Madonna ed Elvis Presley in realtà il nostro non fa altro che miscelare brani preesistenti a formare delle basi spesso di stampo danzereccio, sulle quali piazza delle liriche aggressive, sarcastiche, che affrontano temi di stampo sociale e umanistico, oppure semplicemente raccontano storie folli, senza mai eccedere con l’ostentazione biografica. A differenza degli episodi precedenti, sono meno i brani sessualmente o blasfemicamente rilevanti (“Voglio la Pensione”) e più quelli intimi.

In realtà non ci sono episodi esasperatamente eccessivi come potevano essere “Lo Vuoi nel Culo”, “Gay Porn”, “Ho Male a te” (ho male al cazzo, ho male al cazzo, ho male a te), “Robuste Dosi di Cazzo” in TG1, “Ti Apro il Culto” (più per l’uso dell’inno italiano che per le bestemmie) in TG2, “Marchigian Routine 2” (se vi danno fastidio le bestemmie, questo pezzo sarà il vostro demonio) in TG3. Satira politica estrema dunque (“Tentacoli”, “Lutto Nazionale”) e attacchi pesanti al sistema comunicativo (“Sono Io il Suffragio Universale”, “Adam Kadmon”) ma anche storie divertenti (“Me La Dai la D.I.”) o aggressioni verbali ai nuovi loser come i malati di gioco d’azzardo da bar (“Just Cavalle”) e la stupidità in genere (“Mentalità” che canta forza Juve, viva il duce, Vasco Vasco alé alé), o racconti pesanti di squilibri mentali (“NSFW”) e deliri cimiteriali (“Never Forget Cimitero”, “Afoto Patomba”). Rispetto ai Tg precedenti sono meno anche i brani veramente memorabili, a modo loro, ma in tracklist c’è forse la più bella cosa mai scritta dal genio (passatemelo, dai) di Recanati (forse al pari di “Sei Qui Solo per le Telecamere” che puntava su ritmi ballabili e potenti). “C’ho una Persona Dentro” è un pezzo introspettivo, l’unico realmente in prima persona, sia a livello musicale sia testuale in cui La Tosse Grassa (usando per la base Massimo Ranieri – “Perdere L’Amore”, Arcade Fire – “Rebellion (Lies)”, Kirlian Camera – “Ascension” e Riz Ortolani – “Cannibal Holocaust”) racconta di come, nel profondo del suo animo, viva uno spirito capace di metterlo in una condizione di accettazione anche nei confronti di tutto ciò di più fastidioso e ingiusto ci circondi nella vita di tutti i giorni (c’ho una persona dentro che mi fa stare allegro /quando vado a fa spesa e mi chiama capo un negro /c’ho una persona dentro che non dice “capo un cazzo” /ma sorride al ragazzo).

Come detto, la parte musicale è essenzialmente composta di miscele di brani di altri, quindi, superato lo sconcerto iniziale e una volta presa familiarità con i testi assurdi, potreste divertirvi a scovare da quali brani siano formate le canzoni, considerando che La Tosse Grassa ha sempre mostrato una grande conoscenza del mondo della musica, senza mai palesarsi banale nelle scelte, anzi tirando fuori perle notevoli e ostentandosi attento anche alle novità meno mainstream. Qualche suggerimento: Johnny Cash – “Ring Of Fire”, The Cramps – “Garbageman”, Frankie Knuckles – “Your Love”, Kraftwerk – “Numbers”, The Pains of Being Pure at Heart – “Simple And Sure” e tantissimi altri. Per chi avrà apprezzato le cose più movimentate dei capitoli precedenti, sicuramente degne di nota e di sicuro impatto in chiave live vanno considerate “Me La Dai la D.I.” e “Never Forget Cimitero” mentre interessanti sono anche “Mentalità” e “Afoto Patomba”. Arrivato alla fine, viene da chiedersi come si possa esprimere un giudizio reale su un disco del genere perché non esiste assolutamente nulla di paragonabile e TG4 può essere visto sotto una duplice veste. Da un lato muove il gusto per il macabro, il brutto, il rivoltante, che è parte integrante del nostro essere. Dall’altro è un’idea intelligente messa in piedi nella maniera più grezza possibile, orrida in un certo senso ma perfetta per rendere il concetto. Paragonato ai dischi precedenti, TG4 deluderà solo i più legati alla carnalità volgare degli esordi mentre non lo farà affatto con chi ha amato anche il più intelligente messo in mostra nelle ultime cose. In senso assoluto TG4 è un disco volutamente brutto, un album che dovete assolutamente ascoltare una volta, almeno per poter dire con certezza che mai più lo farete ma attenzione, c’è il forte rischio di trovarvi anche voi invischiati nella merda fino al collo, dentro il culto de La Tosse Grassa.

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Uscita 17 – Solo Buone Notizie

Written by Recensioni

Gli Uscita 17 sono una realtà ben consolidata nel panorama musicale della scena capitolina. Il nome deriva da una delle uscite del grande raccordo anulare della zona sud-est, e da li iniziano un lungo percorso artistico che, dal 2006, li porta ad esibirsi inizialmente nei migliori locali e palcoscenici di Roma e poi a partecipare alle selezioni dei più importanti contest musicali nazionali come l’Heineken Jammin’ Festival Contest e Hyundai Music Awards. A questa intensa attività live alternano anche il lavoro in studio che, dopo due EP e un full length, da vita a Solo Buone Notizie. È un album che al primo ascolto impressiona soprattutto per la qualità della registrazione e del missaggio che esalta oltremodo le già ottime capacità tecniche dei cinque membri della band.

“In Faccia a Nessuno, oltre ad essere la prima traccia, è il singolo scelto per lanciare il disco. Una scelta per nulla casuale poiché questa canzone rappresenta al meglio il sound che caratterizza l’intero progetto: una base ritmica molto potente accompagnata da riff altrettanto diretti, il tutto impreziosito dal fondamentale apporto delle tastiere e dei synth. Questi ultimi sono sicuramente  gli elementi che concretizzano la svolta degli Uscita 17 verso un’impostazione molto più elettronica rispetto ai lavori precedenti e che creano un’atmosfera  più intensa e sofisticata con  quel tocco di vintage anni 80 che fa tendenza. Ne è un esempio “Vernice”e il campionamento dell’intro degno dei Kraftwerk e di Prince di Sign O’ the Times, che da un input minimale si sviluppa in un crescendo   di effetti e di vocoder in un ambientazione molto eighties.

Se la prima parte del disco è particolarmente godibile, la seconda forse è un po’ meno incisiva in qualche pezzo e  vira lentamente dal Rock Elettronico al Pop; presenta  una struttura compositiva a tratti prolissa e scontata che, pur rispettando una coerenza stilistica, indebolisce il risultato complessivo e la tenuta dell’intero progetto.Comunque vale la pena sentire tutto l’album, soprattutto perché l’ultima traccia è la più intensa del disco. “Venti tredici”è una ballad malinconica e cupa, cantata quasi sottovoce, il riverbero delle chitarre la rende rarefatta e sospesa, come a voler lasciar lentamente allontanare tutte le occasioni perse e le sensazioni negative. Il titolo dell’album quindi è una presa di coscienza e un approccio per il futuro, da ora in poi Solo Buone Notizie.

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La Band della Settimana: Daiquiri Fantomas

Written by Novità

“La band (Marco Barrano / Chiara Lucchesi / Dario Sanguedolce) con base a Caltagirone è nata durante una jam session estiva, nel 2010. Sotto contratto con l’etichetta inglese Blow Up Records dal 2012, i Daiquiri Fantomas danno vita alle più disparate architetture sonore, attraverso una marcata sperimentazione con l’uso di strumenti acustici ed elettronici vintage, uniti alle nuove tecnologie. Benché l’elettronica sia molto presente, il trio non disdegna l’uso di un certo humour respingendo il cliché che la musica sperimentale debba essere noiosa. Alcune delle loro influenze musicali sono Beatles, Robert Wyatt, Kraftwerk, Air.

Il singolo di debutto, “Moon Raga”, uscito nell’aprile 2013, ha un colorato sapore Neo-Psichedelico, in cui il mijwiz, un piffero mediterraneo, richiama le cornamuse celtiche. Il primo album, MHz Invasion (12 Agosto 2013) è stato suonato, mixato e prodotto dalla band in Sicilia, con un missaggio addizionale di Nick Terry ai Malabar Studios di Oslo, e il mastering di Nick Bennett al Revolution Mastering di Londra.

La Daiquiri Fantomas Live Full Band comprende anche Alessandro Barrano (batteria, percussioni, live electronics) e Daniela Parisi (tastiere, basso, percussioni).”

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I Kraftwerk arrivano in Italia con un concerto imperdibile

Written by Senza categoria

Si chiama Kraftwerk 3D ed è il nuovo spettacolo dei Kraftwerk, completamente adattato alla tecnologia 3D: si tratta di una perfomance commista fra elettronica, arte visiva e plasticità tridimensionale. Lo show si terrà a Roma, all’Auditorium Parco della Musica, il 14 luglio. I biglietti sono già disponibili su Listicket.it.

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Fluon – Futura Resistenza

Written by Recensioni

Come se doveste aprire una medicina vi invito a leggere queste indicazioni prima di ascoltare il disco dei Fluon.


1) Questo lavoro non ha nulla in comune con i Bluvertigo se non il fatto che sotto la sigla Fluon si nasconde Andy che non ha mai smesso di darsi da fare dopo la seconda ibernazione del gruppo di Monza; se vi farà piacere al massimo consideratelo la sua naturale “evoluzione” (che è anche il titolo della opening track);
2) Se non vi piace la musica elettronica potete tranquillamente starne alla larga, ma se la adorate maniacalmente non ne potrete più fare a meno;
3) Se non amate il Kraut Rock stile Kraftwerk questo non è un articolo per voi; i Fluon possono essere considerati infatti i loro pronipoti.


Detto ciò, possiamo proseguire che troverete tante influenze in questo lavoro, in primis i Depeche Mode, per cui Andy è in fissa da sempre, pur mancando forse quel dualismo Gahan / Gore che  contraddistingue il sound e la musica dei tre di Basildon. Tuttavia lo spettro dei suoi tre ex compagni di avventura (Morgan, Livio e Sergio) si fa abbastanza evidente in pezzi quali “In Verità vi Dico” e “Dove si Comincia” e l’interrogativo più frequente che ci si pone è come avrebbero suonato tali canzoni se i quattro di Monza vi avessero lavorato assieme… Spezzo però una lancia a favore dei suoi tre nuovi compagni di avventura, Faber (synth, programmazione), Fabio Mittino (chitarre) e Luca Urbani (voce, synth) i quali svolgono il loro compito egregiamente. I Fluon hanno comunque un talento smisurato, soprattutto se confrontato ai tanti surrogati che ci propongono i vari Talent Show e manifestazioni canore quali il Festival di Sanremo. Qualcuno di voi probabilmente se ne era già accorto quando parteciparono al tributo a Enrico Ruggeri, “Le Canzoni ai Testimoni” con cui lasciarono già un segno della loro bravura riproponendo la sua hit “Polvere” persino in coppia in un videoclip col noto cantautore / scrittore / presentatore milanese. Dieci tracce insomma in totale che potrebbero impressionarvi facilmente, soprattutto per il contrasto che si crea fra apertura elettronica e chiusura in grande stile con un lento quale “Buio”, che permettetemi il paragone, mi emoziona tanto quanto quella “Somebody” dei Depeche Mode soprattutto nel finale dove il sax e la chitarra si incastrano perfettamente tra loro. Davvero un esordio all’insegna della classe e della raffinatezza!

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Gustoforte – La Prima Volta (Ristampa 1985)

Written by Recensioni

Nei primi anni Ottanta, nella capitale poteva capitare di incappare, in qualche negozio di vinili o chissà dove, in uno strampalato lp con copertina di lamiera piegata in due parti, agganciata grazie a un bullone e con una scritta di vernice nera: GustoForte. Niente di più era risaputo di quello che significasse o racchiudesse ma la curiosità doveva essere tanta in chi incrociava quell’epigrafe. In verità non molti perché quel vinile fu pubblicato da un editore francese di musica anticonvenzionale (RatRace Records) in sole duecento esemplari.  A metà degli anni Ottanta, girovagando per Roma, nei suoi parchi, nei suoi spazi sociali, seduti a una panchina o entrando in una vecchia cabina telefonica poteva accadere di trovarsi tra le mani piccole opere d’arte che a prima vista non lo sembravano affatto e che parevano essere state abbandonate da persone sbadate o bramose di disfarsi dell’arma del delitto con la voglia di essere beccate.

Alcuni musicisti dai nomi anonimi per i più (Roberto Giannotti: vocals, drum machine, simmons drums, emulator, tapes; Francesco Verdinelli: electric guitar, casiotone, obx a, tapes; Stefano Galderisi: bass, farfisa, tapes) e provenienti da realtà molto distanti (chi dalle prime esperienze di field recordings, chi dal Punk e chi dalle soundtrack) decidono di capovolgere ogni schema precostituito e iniziano a registrare opere magmatiche, complesse e amorfe, nel più estremo stile Noise e Lo-Fi e lasciano queste incisioni, spesso insieme a opere figurative di diverso tipo, nei luoghi più svariati, aspettando di vedere “l’effetto che fa”. In realtà la cosa non fa alcun effetto apparente, Roma continua per la sua strada e quello che si trasforma è celato solo nelle piccole vite di quei pochi, miseri uomini che hanno avuto la fortuna di dissotterrare una di queste gemme (tra cui il loro secondo lavoro, Souvenir of Italy / La Merda che Fuma ri-stampato, proprio un paio di anni fa) o di partecipare a una delle uniche due performance live tenute in quegli anni dai GustoForte.

A distanza di tanti anni e con uno schieramento rinnovato, la band (autodefinita italian antipop group) si ritrova senza un movente inequivocabile se non quello di “rompere i cojoni” e per suggellare questa riacquistata verve creativa, l’Editore in Modo Moderno (Plastica Marella) recupera le tracce di quel full length denominato sobriamente La Prima Volta e crea una riedizione che non ha più il fascino della lamiera e della vernice nera, ma mantiene intatto il sex appeal di una musica che suonava sperimentale trent’anni fa, tanto quanto suona avanguardistica oggi. Il vinile trasparente 180 grammi che gira ora nel mio impianto si compone di sette tracce (ben definite a differenza del successivo Souvenir of Italy / La Merda che Fuma in cui i brani suonano deformi e liquefatti, adatti maggiormente a essere riprodotti in luoghi inusuali come teatri o gallerie d’arte che non a vibrare nelle casse di casa), quattro pezzi nel primo lato detto maschio, “S. Antony Chain”, “Steel Walk”, “Assembly Line” e “Evry Courcouronnes” e tre nel lato femmina “Factory Ab Absurdo”, “Ask Me a Dream” e “In Memory of Maurizio Bianchi”. Ospiti per l’occasione La Donna (vocals, tapes), Marie Journò (Apple 2E programming in “S. Antony Chain”) e “Alì Mahhmud El Quaharr” (vocals).

L’opera, registrata trent’anni fa presso gli studi di Roma Pink Music Studio e rimasterizzata da Filippo Bussi negli studi Tweedle Music, è un tripudio di sperimentazione oscura che vi sorprenderà per la sua capacità di anticipare la Dub Techno berlinese di Basic Channel, la Dark Ambient di Demdike Stare e l’Electronic Noise dei Black Dice; il Post Rock attraverso l’analisi della New Wave, dell’Industrial figlia dei Throbbing Gristle, tutto condito con reminiscenze del Krautrock di Faust e Neu! oltre che con inflessioni elettroniche di kraftwerkiana memoria, psichedelia cosmica e tutta una serie di “provocazioni” rumoristiche che, all’epoca dovevano stupire per sfrontatezza ma che oggi hanno la capacità di suonare avanguardistiche e vintage al tempo stesso, senza dare alcuna minima idea di vecchio. Ascoltare sul finire del 2013 l’opera prima dei GustoForte lascia un sapore impossibile da trovare in opere attuali e conserva nelle orecchie lo stesso stupore che potreste immaginarvi balenare nella mente alla vista della più grande opera d’arte di un qualsiasi grande artista del passato, scoperta tra le cianfrusaglie della vostra cantina. E per questa sensazione c’è da dire grazie a Plastica Marella, una delle non tantissime etichette coraggiose che resistono in questa penisola dalla memoria corta.

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Rivoluzioni musicali in mostra alle OGR di Torino

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Quando si parla di musica, ognuno ha senza dubbio i propri riferimenti, i propri miti, le stelle polari che lo guideranno lungo il corso della propria esistenza ,in lungo e in largo, a destra e manca, forever and ever, “finché morte non vi separi”. Alcuni di questi miti, però, non fanno solo parte del nostro universo musicale, ma sono delle vere e proprie pietre miliari della storia della musica, simbolo di un’ epoca, esempio per le generazioni future ed esponenti di rivoluzioni che hanno deviato il corso della storia stesso.  Ed è proprio a questi Dei dell’Olimpo musicale che fa riferimento Alberto Campo, curatore della mostra fotografica Transformers – Ritratti di Musicisti Rivoluzionari, allestita presso i Cantieri OGR di Torino e visitabile dal 28 settembre al 3 novembre 2013. Il filo conduttore che la caratterizza è quello della “Trasformazione”, tema tanto caro alle ex Officine Grandi Riparazioni Ferroviarie (una delle ultime testimonianze della storia industriale della città), oggetto di un recente restauro che le ha restituite alla popolazione torinese sottoforma di “Cantieri Culturali”, sede di eventi musicali, teatrali, mostre, fiere ecc.

Ed eccoli allora sfilare uno per uno i Grandi della musica, in una serie di scatti che li ritrae durante la loro vita di artisti (con una predilezione per quelli realizzati durante gli eventi live) e di comuni mortali; un richiamo all’idea della “Trasformazione” come trapasso dalla dimensione pubblica a quella privata. Le fotografie sono attinte dal vasto bacino messo a disposizione da Getty Images, ed abbracciano sessant’anni di musica (dall’avvento del Pop negli anni ’50 all’era del web e delle tecnologie digitali odierne); il sottofondo musicale è una lunga colonna sonora composta da canzoni-simbolo degli artisti considerati. Campo fa cominciare tutto con Elvis (e come dargli torto!), opportunamente inserito nella sezione “Origini della Specie” e fotografato durante una delle sue celebri mosse di bacino. La seconda tappa porta il titolo de “l’Invasione Britannica” ed i protagonisti non potevano che essere Beatles e Rolling Stones, considerati perennemente in antitesi. Gli anni ‘60 si tingono anche di Folk e dei ritratti di un giovanissimo Bob Dylan, che con la sua “Blowin’ in the Wind”, cantata come inno di chiusura dei comizi di Martin Luther King, diviene il rappresentante della “Canzoni di protesta”, mentre Miles Davis e James Brown lo sono del Jazz e del Soul-Funky nella sezione “Black Power”. Si conclude un decennio e ne comincia uno nuovo, segnato dall’ “Utopia Hippie” che vede i suoi massimi esponenti nei Doors e in Jimi Hendrix (immortalato mentre dà fuoco alla chitarra elettrica durante il festival di Monterey), mentre il Transformer per eccellenza, David Bowie (nelle vesti di Ziggy Stardust) trova posto nella sezione “Rock a Teatro” insieme alla primissima formazione dei  Velvet Underground (fotografati con l’immancabile Andy Warhol ), quella di cui faceva parte anche la splendida Femme Fatale Nico, immortalata in un primo piano stupendo, mentre indossa una maglietta riportante la scritta Fragile. Nella sezione “gli Outsider” si piazzano Tom Waits e Frank Zappa, mentre l’unico artista italiano preso in considerazione, Ennio Morricone, non poteva che collocarsi nella sezione “la Musica Come in un Film”. Passano gli anni, cambia il modo di far musica, che diventa “definitivamente prodotto dal vivo su larga scala”: Led Zeppelin e Pink Floyd sono esempio dell’ avvento dei grandi concerti che riempiono gli stadi. Dall’altro capo del mondo, sempre in quegli anni, “One Love”, Bob Marley si faceva portavoce di un nuovo genere musicale: il  Reggae. Altra rivoluzione musicale degna di nota in quegli anni è il Punk, rappresentato nella sua forma più grezza dai Sex Pistols (lo scatto che ritrae Johnny Rotten nel tentativo di armeggiare un paio di forbici enorme parla da sé) e nella sua forma più colta da Patti Smith, la sacerdotessa del Rock che sembra non aver alterato con gli anni l’espressione che ha in volto mentre canta. Gli anni ‘80 sono quelli dell’ Hip Hop dei Beastie Boys, del re e della regina del Pop: Michael Jackson e Madonna. Gli anni ’90 segnano una frattura col decennio precedente grazie all’avvento del Grunge e dei Nirvana: il primo piano di Kurt Kobain troneggia in sala (forse è una delle immagini più belle della mostra), mentre ha in mano la chitarra che riporta la scritta “Vandalism: beautiful as a rock in a cop’s face”. La mostra arriva fino ai giorni nostri, e si conclude con l’ “Evoluzione della Rockstar” verso una musica sperimentale e ricercata, i cui esponenti sono rappresentati da Björk e Radiohead (riconoscere una foto scattata durante il loro ultimo tour del 2012 ti fa sentire fiero di esserci stato) per chiudersi definitivamente con l’avvento della musica elettronica dei Kraftwerk e dei Daft Punk nella sezione “Technologia”.

I grandi assenti? Tanti, ognuno sicuramente troverà qualche suo “mito” mancante all’appello. In ogni caso, non è un buon motivo per privarsi di questa mostra, che non è una semplice esposizione fotografica, ma un viaggio visivo e sonoro indietro nel tempo, verso tappe della storia e rivoluzioni musicali compiute dai musicisti che tanto amiamo. Allacciate le cinture, si parte.

Fonti: http://www.ogr-crt.it/events/transformers-ritratti-musicisti-rivoluzionari/

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Live Footage – Doyers

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Un album imponente. Questo è più di ogni altra cosa il secondo lavoro del duo di Brooklyn Topu Lyo (cello, sampler) e Mike Thies (drums, keyboards). A distanza di tre anni dal buonissimo esordio di Willow Be, tirano fuori un’opera costruita su ben diciassette tracce, rigorosamente strumentali, per la durata limite di quasi settanta minuti. Un disco che vi permetterà di godere pienamente del loro estro e vi giustificherà le parole di una certa critica che li pone tra i migliori compositori di colonne sonore surreali in circolazione. Corde ed elettronica, batteria e tastiere, realtà e sogno si mescolano alla perfezione per creare una suggestione sonica indimenticabile, resa ancor più umana dall’aspetto dell’improvvisazione esecutiva.

“L’assenza di limitazioni è nemica dell’arte”. Parte da quest’aforisma di Orson Welles il duo statunitense per mettersi a realizzare Doyers. Sono queste parole del genio della regia (ma non esclusivamente) che fanno da mantra al lavoro dei Live Footage, durante le registrazioni e la creazione delle diciassette (numero che in terra di Obama non genera gli stessi gesti scaramantici) gemme in questione.
Le limitazioni amiche dell’arte, in questo caso, possono essere tante e riferite a una miriade di diverse questioni tecniche, creative e non solo, ma quelle che saltano più all’orecchio, sono quelle dirette delle note, che sembrano spaziare e volteggiare nell’infinità del cosmo ma in realtà, alla fine dell’ascolto, vi renderete conto essere parte di una precisa galassia, uniforme e delimitata, pur se enorme. Tutto ha limite, anche se nella sua apparente illimitatezza e sta solo nel punto di vista dell’osservatore che tali limiti si rendono in parte visibili.

La musica dei Live Footage passa con disinvoltura da eteree e riverberate atmosfere lisergiche e Psych Rock (“Broklyn Bridge”, “Asian Crane”, “Lucien”) a un sognante Dream Pop più stile Beach House che Sigur Ròs utilizzando spesso le stesse forme del Post Rock mogwaiano, fatto di crescendo continui e muri di chitarre, o dello Slowcore Glitch (“Purgatory (The Storm Has Passed)”, “Broklyn Bridge”). L’ossessione ritmica dell’inizio di “Foresight” anticipa altri punti di vista, tendenti al Jazz e non mancano divagazioni addirittura nei territori della Dub Music (“Mortality”), della Drum’n Bass (“Going Somewhere”, “New Breed”), della musica sudamericana (“Caipirinha”), dell’elettronica di chiara matrice Kraftwerk (“Korean Tea Shoppe”, “Computer is Free”) o anche il Rock alternativo contaminato da ritmiche Funky, ovviamente sempre in combutta con un liquefatto e caldo Ambient (“Secret Cricket Meeting”) o il più fumoso e oscuro Trip Hop (“Ant Colony”). Eccezionali i passaggi più spiccatamente Film Score/Soundtrack (“Just Moving Parts”, “Airport Farewell”) nei quali si rende ancor più palese e chiaro il concetto di surreale applicato all’opera dei Live Footage.
Ovviamente, se ancora non avete ascoltato Doyers, vi starete chiedendo come possa io parlare di limiti ma poi tirare in ballo una quantità di generi musicali sconfinata. Come già vi ho detto, dovete ascoltare per capire. Ogni influenza sembra schizzare qua e là, apparentemente senza controllo ma in realtà, se provate ad allontanare per un secondo l’anima dalle note, noterete che la musica dei Live Footage, si ammorbidisce, quando deve suonare più forte e s’indurisce quando invece mira alla leggiadria. In questo modo, si crea una linea imprecisa che, come il volo d’un uccello, apparirà più armonica, con l’allontanarsi dello sguardo.

Per chiudere, non posso che rinnovarvi le mie promesse. Ascoltate e poi ditemi, basta leggere le mie parole, o impazzire dietro ad esse. Citando Welles, le promesse sono molto più divertenti delle spiegazioni. Quindi, buon divertimento.

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