Le Fate Sono Morte Tag Archive

“Niente (non Diventeremo)”, il nuovo video de Le Fate Sono Morte

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A soli tre mesi dall’uscita del loro singolo “È’ già Settembre” del 20 gennaio 2014, la band milanese decide di dare consistenza visiva all’ultima traccia del proprio album. Il concept della clip si basa su un’atmosfera buia che inghiotte i visi nascondendone le identità, rendendo dubbiose le relazioni e ostacolando il ritrovamento di sé e dell’altro. I musicisti, dai volti resi irriconoscibili nella penombra, suonano finti tamburi fatti con la plastica dei palloncini e con corde tese da mani sospese nel buio, senza produrre alcun suono tangibile. Le immagini del videoclip ricreano, quindi, l’assenza e la sensazione di vuoto e di annullamento. Un video delicato e suggestivo, significativo, pur nella sua semplicità, cromaticamente ben studiato e coerente nell’accostamento al sound del pezzo.

Qui la recensione Le Fate Sono Morte – La Nostra Piccola Rivoluzione
Qui l’intervista a Le Fate Sono Morte

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PENDING LIPS FESTIVAL 2014 – 2° serata

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Synesthesia – No.Ta – Invers – Le Fate Sono Morte – Le Oscure Armate Meccaniche – Polarbeers
Lunedì 10 Marzo 2014
ore 21.00 – Il Maglio – Via Granelli, 1 (Sesto S.G.)

Dopo l’esordio più che convincente di lunedì scorso (vedi foto e video), si replica subito lunedì 10 Marzo.

Questi i partecipanti della seconda serata:

Synesthesia
No.Ta
Invers
Le Fate sono Morte
Le Oscure Armate Meccaniche
Polarbeers

https://www.facebook.com/events/1392525117685158/

Tutte le serate del concorso si terranno nella cornice del Maglio, cuore pulsante della storica zona industriale di Sesto, a partire dalle ore 21.00.
Tutte le news, gli eventi ufficiali delle serate e il calendario completo si possono trovare sulla pagina facebook PendingLips Festival.

Vi ricordiamo che Rockambula è media partner e assegnerà un premio per ogni serata alla band scelta dalla redazione. Qui i risultati della prima serata.

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Le Fate Sono Morte

Written by Interviste

Ciao ragazzi, cominciamo dal principio: chi sono le Fate? E come sono morte?

ANDREA: ciao, Le Fate Sono Morte sono cinque ragazzi che vivono tra Milano e Varese e hanno deciso di fare musica e di creare un progetto personale che potesse esprimere al meglio i propri sentimenti e pensieri. Andrea (voce e chitarra), Giuseppe (batteria), Daniele (violino), Riccardo (basso), Federico (chitarra). Le fate, in fondo, non sono mai morte per noi; il nome sta a rappresentare la fine delle illusioni giovanili, ma allo stesso tempo l’inizio di una crescita interiore. La band si è formata nel 2008 con svariati cambi di formazione che ha portato sino a quella attuale. In realtà per noi la parola morte nel nome non deve esser presa come negativa ma un pensiero positivo che ti possa far pensare che la fine non sia una vera fine ma un nuovo inizio.

Il vostro ultimo album s’intitola La Nostra Piccola Rivoluzione. Di quale piccola rivoluzione stiamo parlando? Che cosa è realmente cambiato dopo l’uscita di questo disco?

PEP: il titolo del nostro album ha un duplice significato. Il primo inteso come rivoluzione nel senso di riuscire a registrare un disco in modo indipendente, senza l’appoggio di nessuno se non delle persone che da anni ci seguono, ci supportano e ci vogliono bene. Il secondo ha un significato più profondo. Quest’album tratta di rivoluzioni personali che, seppur piccole, possono cambiare le nostre vite. Ognuno di noi ha dei sogni e il fare di tutto per realizzarli può portare a una svolta epocale nelle nostre piccole esistenze. Dopo l’uscita del disco è cambiato l’interesse della gente nei nostri confronti, che di giorno in giorno capisce il nostro messaggio e ci supporta e di questo siamo loro sempre più grati. Speriamo di vederli sempre più numerosi ai live.

Leggo sul vostro sito che attingete il vostro suono dal Cantautorato, dal Rock nostrano, dal Post Grunge e dal Pop. Ci fate qualche nome in particolare? Chi sono i vostri riferimenti?

ANDREA: noi veniamo da svariate influenze essendo persone molto diverse una dall’altra e avendo anche età molto varie (18,23,24,32,35). I riferimenti a cui m’ispiro o da cui vengo influenzato posso dire siano band come: Le Luci della Centrale Elettrica, Giuliodorme, Marlene Kuntz, Afterhours, Giorgio Canali, Nadar Solo tra le band della scena underground ma non disdegno neanche i vecchi cantautori che hanno fatto la storia del nostro Paese o quelli contemporanei.

PEP: io amo tutti i gruppi sopra citati da Andrea ma al contempo sono un grande appassionato di elettronica/strumentale (Aucan o Tyng Tiffany per citare qualche band italiana, Crystal Castles, 65days of Static, ecc). Diciamo che dall’incontro di tanti generi differenti è nato questo disco.

Leggo inoltre che traete ispirazione anche dai libri letti. La cosa è molto interessante. Anche in questo caso, di che libri stiamo parlando? In che modo entrano a far parte della vostra musica?

ANDREA: esatto. Penso sia normale che ogni cosa ci possa influenzare, noi diamo molta importanza ai testi e alle parole; questo ci porta anche a leggere spesso libri e a vedere film, mostre ecc, Un po’ tutto aiuta, il cervello è una gran bella macchina che assorbe tutto, lo rielabora e crea uno stile personale. Penso sia così per tutti. Nello specifico, ho inserito il nome di Alda Merini a cui ho dedicato la prima canzone “A Parte il Freddo” in quanto per un periodo le sue composizioni sono state una specie di colonna sonora della mia vita. In un altro brano “In Ogni Mio Sorriso” mi riferivo alla poesia di Giovanni Pascoli “10 Agosto”.

Nel corso del tempo avete cambiato più volte la vostra formazione. Questo ha portato anche a un cambiamento del vostro sound? Se sì, in che modo?

ANDREA: durante gli anni le priorità delle persone e le vite chiaramente cambiano e così, a volte a malincuore, a volte per scelte differenti, abbiamo cambiato elementi della band. Il sound è cambiato perché siamo cresciuti, gli elementi che sono arrivati dopo hanno solo arricchito e reso possibile quello che era il sound a cui volevamo arrivare quando siamo partiti. In futuro cambieremo ancora ed è giusto sia così perché l’esperienza e la vita aiutano anche a migliorarsi o a seguire diverse idee.

La bonus track del vostro ultimo disco s’intitola: “La Storia Non Siamo Noi”. Si tratta per caso di una dichiarazione di guerra a De Gregori?

ANDREA: Ahahah, no direi di no. De Gregori è uno di quei cantautori a cui mi riferivo nella terza risposta. Più che altro è una presa di coscienza del fatto che in questo periodo siamo troppo presi da noi per riuscire a fare qualcosa, ognuno ha la sua storia che va troppo veloce e si fa fatica a pensare ad altro, siamo diventati tutti molto più egoisti negli ultimi anni, delusi, disillusi, si salvi chi può insomma. Il titolo dell’album poi riprende anche questo messaggio. Se ognuno di noi facesse qualcosa di buono nel proprio piccolo per questa società, sarebbe un altro mondo. Spero non sia solo utopia.

PEP: come dice Andrea il messaggio di questo disco è racchiuso soprattutto nei due pezzi finali “La Storia Non Siamo Noi” e “Niente”, al quale sono particolarmente legato. Dire “La Storia Non Siamo Noi”, non significa “non possiamo fare nulla per migliorare il futuro”, ma anzi “la storia non sta nell’individualità e nell’egoismo dei NOI intesi come singoli, ma nella collaborazione, bellissima parola ormai in disuso”.

Dalla vostra musica, dai vostri testi, dai vostri video, emerge un pessimismo denso, una nebbia fitta nella quale è avvolta tutta una generazione, quella che voi e qualcuno prima di voi ha collocato negli “anni zero”. Oltre a constatare questa dura realtà, c’è un modo in cui pensate di combatterla?

ANDREA: più che pessimismo cerco di esser realista. Con gli anni e crescendo sono diventato molto più positivo e credo in un possibile miglioramento di questa situazione, ma su larga scala non saprei in che modo poter migliorare questo mondo, quindi mi limito a cercar di fare il mio ed esser sempre il meglio di quello che posso essere. Cerchiamo di trasmettere, per noi è fondamentale arrivare alle persone e riuscire a far provare qualcosa.

PEP: diciamo che ci limitiamo a descrivere una situazione, quella nella quale noi e tanti altri giovani vivono oggi. Non è un pessimismo fine a se stesso, come detto prima. C’è sempre un soffio di speranza in ogni canzone, una luce alla fine di questa fitta nebbia.

Il vostro logo rappresenta una fata trafitta da una penna che, immagino, le tolga la vita. Il messaggio che ne traggo è che date molta importanza alle parole; per voi possono avere anche un significato mortale. Qual è il messaggio che invece volete trasmettere?

PEP: come dici tu, per noi le parole hanno una potenza incredibile. Sono più forti di un pugno, più violente di qualsiasi gesto, quindi possono fare male. Ma questa potenza può essere usata anche per aprire gli occhi alle persone. Trafiggere la fata vuol dire uccidere le illusioni giovanili. Ma penso che anche dalla disillusione non debba automaticamente nascere un pensiero pessimista (anche se può sembrare quello più scontato). Questo però è un discorso ampissimo, se volete andiamo a prenderci una birra e ne parliamo per ore!

Siamo giunti alla fine. Per concludere, quale domanda importante non vi ho fatto, alla quale avreste voluto rispondere?

PEP: “Siete davvero convinti che non diventerete niente?” Forse, ma noi ce la stiamo mettendo tutta per diventare grandi e forti insieme, alla faccia di chi continua a lanciarci fango addosso.

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Le Fate Sono Morte – La Nostra Piccola Rivoluzione

Written by Recensioni

Non saprei se farne un problema generazionale. Ma sicuramente il decennio 90 ha lasciato qualche suo residuo anche sulla mia pelle. Il suono della decadenza e dei muri sgretolati, delle incertezze, delle grida di rabbia, di oppressione. Un suono da cui difficilmente si scappa se sparavi Alice In Chains nelle cuffie del walkman, a testa bassa e sulla via del liceo. Questo scenario è infatti ritratto alla perfezione nel primo LP dei milanesi Le Fate Sono Morte. Combo Rock dal 2008, capitanato dalla attraente e dimessa voce di Andrea Di Lago. La setlist è proprio un esemplare preciso dei pezzi scritti in solitaria seduti per terra nella stanza da letto a macinare arpeggi, ritmiche nervose e testi di confusione e sorda ribellione. La musica è avvolta da una fitta nebbia già nei primi versi della ballata “A Parte il Freddo” dove il violino deciso di Daniele Pezzoni rimanda senza mezze misure agli Afterhours più melodici e diretti. “Ipnotica” e “Arriva la Neve” danno invece una sferzata più americana, con un Grunge classico e grintoso dove però la sezione ritmica (colpa forse di alcune timide scelte in fase di registrazione) non spinge abbastanza, non dando il giusto groove a due pezzi che meritano comunque di essere considerati un buon esemplare di Rock all’italiana. La voce di Di Lago è espressiva, graffiante, sofferta ma poco dinamica e pecca in monotonia. In ogni caso rimane una splendida timbrica, di quelle che riconosci alla primo verso che esce dall’ugola.

Grande pecca il singolo “È già Settembre”. Non rende proprio giustizia all’intero album, ritmica di chitarra e testo banalotti. Sicuramente non un’ottima scelta per rappresentare un disco che ha perle di maggior splendore, sebbene un grosso nuvolone sembra sempre contornare il suono delle Fate. Ben più ispirata “Anime Artificiali”, con una bella lirica di sentimenti ammaccati: semplice ma d’effetto la frase “a Milano l’amore è un’illusione, tu non scordarmi mai. Sei il fiore nel mio burrone, quando non ci sei”. Nel finale troviamo ancora spazio per una stanca e depressiva “Senza Pace”, dove spicca solamente il bel suono di basso distorto, costante e presente, poi per ultima arriva “Niente (nondiventeremoniente)”, finalmente un pezzo sui generis dove la voce quasi parlata dona intensità e spessore a un dinamico tappeto Post Rock degno dei migliori Massimo Volume. Non saprei dire se la nebbia si alzi o si abbassi, ma almeno si muove e non rimane anonima a mezz’aria. Ed è di movimento che questo gruppo ha bisogno. Attendiamo la prossima prova speranzosi di vederci qualcosa di più. O di meno.

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Filmare i concerti coi cellulari? È da cazzoni!

Written by Articoli

In una piccola video-inchiesta di NME, alcuni musicisti sono stati intervistati circa la loro opinione sulla moda vigente di filmare o fotografare concerti per la loro intera durata. Tra gli altri (Miles Kane, Foals, Alt-J), Johnny Marr è quello che c’è andato più pesante, definendolo «un atteggiamento da cazzoni» e «una perdita di tempo», che distoglie completamente l’attenzione dal momento che è la vera essenza del live. Come dargli torto. Non importa, infatti, quale sia l’artista sul palco, non importa la location, non importa che l’uomo con lo smartphone sia in prima, seconda, ennesima fila o gradinata che tenga. Non importa che si stia seduti, in piedi, larghi, stretti tanto da avere addosso il dna di tot persone sconosciute sotto forma di sudore, impronte digitali, capelli. Non importa che sia un concerto meditabondo o da pogo. Non importa che si abbia in mano un telefono con una fotocamera da 2 megapixel (la stragrande maggioranza) o una compatta che passa i controlli ma ha uno zoom digitale coi controcoglioni che anche se sei dietro il mixer riesci a riprendere persino i punti neri del tuo beniamino (roba per pochi eletti, nerd patologici del caricamento del dayafter su YouTube).

La situazione si ripete sempre. Tu vai a un concerto, paghi un biglietto, sei di un’altezza media e non basta che puntualmente tu davanti abbia lo spilungone due metri di altezza per due metri di spalle con ragazza al seguito che comunque si erige quei dieci centimetri buoni più di te. No. Da quando siamo entrati nell’era smart, social o semplicemente in quella dell’esistenza attestata non dall’ontologia ma dal post, ai concerti non si alzano le mani con le corna, con l’indice dritto, con il pugno. Non si ondeggia, non si poga, non si salta (se non per sovrastare l’uomo col prolungamento telefonico). Ai concerti si filma. O si fanno centomila foto tutte uguali perché il raggio d’azione di gente pressata tra la folla di un live non permette certo varietà di tagli e inquadrature. Il risultato poi è, nelle migliori occasioni, una registrazione di qualità bassina, o per immagine o per audio, che il giorno dopo – se non addirittura dopo poche ore – si può rintracciare su YouTube. Oppure un bell’album fotografico pieno di pixel tra i quali dovresti intuire che il tuo amico di social network è stato a un concerto della madonna che tu ti sei perso. Ah, bella roba. Additato come uno dei comportamenti più noiosi che si possano tenere durante un live dalla rivista Rollingstone (insieme all’urlare per tutto il tempo il titolo del pezzo che si vuole sentire, ubriacarsi come se non ci fosse un domani e a fine concerto lamentarsi perché il brano per cui si era andati non è stato suonato), abbiamo pensato di chiedere un’opinione a chi sta anche davanti e non solo dietro le macchine fotografiche in questione, ovvero ad alcuni musicisti del panorama indie ed emergente nostrano.

 

Danilo De Nicola (The Incredulous Eyes): “Liberi di farlo, anche se le emozioni devono essere sonore, quelle che ti rimangono dall’ascolto; quelle sono insostituibili. Se stai tutto il tempo a riprendere non so che ti rimane veramente della musica che ascolti. Forse e’ anche un modo del pubblico di essere protagonisti.”

Francesco Capacchione (The Last Project): “Parto dal presupposto che ero uno di quelli che voleva il ricordo del concerto, quindi filmavo di tutto, fino a che mi son detto “tanto c’è qualcuno che lo metterà su youtube” e da li non filmo più nulla, penso a godermela e me la salto, me la canto, me la ballo. Se ti metti a filmare non ti godi nulla.”

Andrea Di Lago (Le Fate Sono Morte): “Da una parte per noi emergenti può esser un modo per darci più visibilità dall’ altra parte si fa meno casino rispetto ad anni fa; per ora rimango un po’ a favore, è pur sempre un modo nuovo col quale lo spettatore dimostra il proprio gradimento. Io per primo non riprenderei mai qualche artista che non stimo.”

Luca Brombal (Lazy Deazy): “Penso la stessa cosa delle persone che passano la propria vacanza a fotografare qualsiasi cosa: con la smania di documentare e di poter rivivere quei momenti non li vivono nemmeno!”

Fabrizio Giampietro (Christine Plays Viola): “Mi sembra la moda del momento. Una volta nei concerti la gente era totalmente rapita dalle emozioni, pogava, ballava si lasciava trasportare dalla musica. Ora invece sono diventati tutti registi. Nessuna telecamera o cellulare ti darà mai la possibilità di catturare quei momenti e riviverli con la stessa intensità a casa tua o altrove. Secondo me in questo modo si perde l’essenza del live e a casa ti riporti solo una sbiadita testimonianza digitale.”

Eugenio Rodondi: “Probabilmente ci troviamo in un momento in cui consideriamo una cosa esistente e reale solo se possiamo dimostrarla agli altri. Dunque solamente se viene filtrata e catturata da un video o da una fotografia, e tendenzialmente pubblicata su social network. La concezione del ricordo di un emozione sta prendendo una deriva insolita. Direi che si tocca il paradosso quando si riprende un concerto puntando il cellulare sul megaschermo. Se un concerto te lo godi immergendoti nella serata e utilizzando una buona dose di concentrazione, quel ricordo sarà sicuramente più valido di una riproduzione figurativa.”

Giacomo Ficorilli (Remains in a View): “Io sono uno di quelli della vecchia generazione , che vanno ai concerti solo per ascoltare buona musica e pogare quando ne capita l’occasione. Purtroppo i tempi sono cambiati e i ragazzi di oggi, ossessionati dalla tecnologia e dai social network che ti permettono di far sapere cosa stai facendo e dove, non sanno più apprezzare il fascino di un concerto e tutte le emozioni che ti può trasmettere una band dal vivo; io consiglio alle nuove generazioni di fare una bella foto e poi godersi il concerto a pieno piuttosto che passare la serata con il cellulare in mano!”

Alessio Premoli: “Prenderei la cosa da due punti di vista. Chi riprende e chi è ripreso. Nel primo caso è un fatto tutto personale. Se qualcuno ha il desiderio di passare tutto il concerto a registrarsi un video, ben venga: personalmente preferisco godermi lo show interamente, lasciarmi travolgere e coinvolgere dallo spettacolo. Questa attività può avere una sua utilità: documentare un live per chi non ci è andato, dare un assaggio dello show a chi vorrebbe andarci, ma è ancora indeciso. Questo atteggiamento ha una sua utilità “sociale”. Nel secondo caso ci sono un migliaio di sfaccettature diverse. So di molti artisti che non tollerano sapere di essere registrati. E molti li capisco. Mi riferisco a personaggi come Brad Mehldau (che prima di ogni live chiede di non fare video nè fotografie) o come Keith Jarret. Il jazz è una musica improvvisata, volubile e temporanea per natura. La sua anima è l’improvvisazione e, specie quella live, tale vuole rimanere: una conversazione senza schema, su strutture minime e con possibilità infinite. Per altri non voglio pronunciarmi: ogni artista ha il diritto di chiedere determinate condizioni quando suona dal vivo, il punto di incontro sta sempre a metà tra la ragionevolezza di quest’ultimo e il rispetto del pubblico.”

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