Leonard Cohen Tag Archive
Leonard Cohen, guarda il video di “Thanks for the Dance”
Online il videoclip del brano estratto dall’omonimo disco uscito postumo lo scorso anno.
Continue ReadingLeonard Cohen, fuori il singolo che anticipa l’album postumo
Thanks for the Dance esce il 22 novembre: ad annunciarlo è il figlio Adam.
Continue ReadingRecensioni #01.2017
Brian Eno // Jumping the Shark // Tiger! Shit! Tiger! Tiger! // Il Diluvio // Duke Garwood
Continue ReadingTindersticks – The Waiting Room
Nei quattro anni che separano questo nuovo lavoro da The Something Rain, i Tindersticks non si sono mai fermati avendo prodotto la sonorizzazione per Ypres, mostra sulla prima guerra mondiale dell’omonima città belga, la colonna sonora Les Salauds per il film Bastards dell’amica Claire Denis, ed il gradito dono Across Six Leap Years, a dimostrazione di una vena creativa che forse supera persino quella di inizio carriera. The Waiting Room è un lavoro ancora più cinematografico di quanto un disco del francofilo gruppo di Nottingham possa già essere di per sé, infatti ogni canzone presente è accompagnata da un cortometraggio che propone un contro punto di vista più aperto rispetto a quanto proposto su disco dalla band, gli undici lavori raggruppati insieme (faccio comunque notare che non si tratta di un concept album e che di conseguenza i video non hanno nessuna connessione tra loro) formano The Waiting Room Film Project, progetto prodotto in collaborazione con il festival del cortometraggio di Clermont-Ferrand sul quale al lavoro troviamo diversi registi indipendenti tra i quali, ovviamente, Claire Denis, oltre che il vincitore del César, Pierre Vinour, il fotografo Richard Dumas (sua la malinconica immagine in copertina), e lo stesso leader del gruppo Stuart Staples. Dopo tale premessa l’apertura con l’ottimo strumentale “Follow Me”, rilettura di uno dei temi del film Gli Ammutinati del Bounty del 1962, può risultare pressoché perfetta, anche perché il brano che segue, “Second Chance Man”, parte subito con la voce di Staples senza un’introduzione musicale, il che forse sarebbe stato troppo d’impatto in apertura di disco, in questo brano il cantato è accompagnato da una batteria spazzolata e da note d’organo che per quanto appena accennate sono capaci di scaldare molto, ad accrescerne ancora il sapore l’ottimo lavoro degli ottoni del collaboratore Julian Siegel che si comporta anche meglio in “Help Yourself”, un fosco Funk Swing in cui troviamo anche una splendida linea di basso oltre che uno Staples in gran spolvero. Tra questi due brani dimora il terzo singolo fin qui estratto, “Were We Once Lovers?”, che ha preceduto di pochi giorni l’uscita del disco, brano tra i più trascinanti del lotto, anche qui troviamo un gran lavoro di Dan McKinna al basso, una chitarra ben più vistosa che altrove, e, tanto per cambiare, un’altra ottima orchestrazione, drammatica e claustrofobica. Come spesso capita nei lavori della band non mancano ospiti, in questa occasione ne troveremo due, la prima che incontreremo sarà Lhasa de Sala (già ospitata per “Sometimes it Hurts” in Waiting for the Moon) in una registrazione del 2009, pochi mesi prima della sua prematura scomparsa, con un brano fin qui segretamente custodito, “Hey Lucinda”, dove da un invito ad uscire per bere qualcosa da parte della voce maschile nasce una riflessione che va ben oltre il rapporto uomo-donna, and these dirty little cigarettes we smoke/and the liquor it just throws/a plug where the feelings we should show dichiara la voce femminile, per poi offrirci un I only dance to remember how dancing used to feel nel momento, a livello strumentale, più spensierato. A questa piccola perla resa pubblica dopo sette anni segue un altro ottimo strumentale (gran lavoro del tastierista Dave Boulter, sempre, ma soprattutto in queste occasioni) , “Fear of Emptiness” col suo abbraccio ovattato ed avvolgente; e spetta ad un altro strumentale, il quasi meditativo “Planting Holes”, il compito di separare due dei momenti più tesi del disco: la title-track e “We Are Dreamers!”, il primo è un brano quasi a cappella dove il corposo baritono di Staples è accompagnato solo dalle poche note funeree di un organo che vanno a creare un’atmosfera decadente e dall’altissima emotività, nel secondo troviamo l’altra ospite del disco, Jehnny Beth delle Savages presta infatti la sua potenza e le sue sfumature alla feroce “We Are Dreamers!”, brano dall’altissima intensità, scuro, angosciante, minaccioso, che rappresenta indubbiamente un altro punto di altissimo livello di questo nuovo lavoro della band. Il disco va a terminare con la successiva “Like Only Lovers Can”, ballata romantica nel più classico stile del gruppo. The Waiting Room è un disco che cresce ascolto dopo ascolto e seppur meno audace del suo predecessore è un disco dei Tindersticks in tutto e per tutto, anzi, di più, forse siamo di fronte al perfetto autoritratto di una band che per l’ennesima volta si conferma, con un lavoro che trasuda dolore e romanticismo (come d’abitudine siamo dalle parti di Nick Cave e Leonard Cohen), ed è capace di trasmettere impeccabilmente e con forza e raffinatezza passionali tutto quel che ha da dire e da dare, incertezze (esistenziali) comprese.
Benjamin Clementine – At Least for Now
Come non innamorarsi di questo ragazzo, partito dalla periferia di Londra alla volta di Parigi, dove ha vissuto senza casa, suonando per strada, nei bar, negli hotel? Benjamin Clementine si siede al pianoforte e si scoperchia l’anima. Arriva dal Soul di Nina Simone, dal songwriting di Leonard Cohen, ma anche da Erik Satie, Antony Hegarty, Jimi Hendrix. C’è nella sua musica, piena di parole e gonfia di una voce calda, ritmica come un martello o liscia come velluto, tutto un mondo, leggermente sfalsato rispetto al nostro. Dalla dolcezza appuntita e struggente di “Gone”, perla che chiude il disco e che ha lo spessore di un classico d’altri tempi, alle ritmiche salterine di “Adios” che accompagnano linee melodiche spezzate o rapidissime, ironiche, fino ad arrivare al parlato e a momenti quasi lirici: At Least For Now è un esordio complesso ma profondo, che porta dentro dei semi preziosissimi, che, coltivati bene, sotto il sole, possono portare alla nascita di una personalità importante, un folle che si muove tra Pop, Jazz, Soul, Spoken Word e musica classica come se non avesse un passaporto: i confini solo linee tracciate nel niente, unica stella polare una musica piena, intensa, vibrante. Come non farsi rapire dall’intensità di “Cornerstone”, dall’effetto straniante da musical di “Winston Churchill’s Boy”, dalla malinconia folle, quasi animale, di “Quiver A Little”, dal Pop stiloso e radiofonico di “London”? Arrangiamenti scarni, molto pianoforte, una voce dalla personalità imponente, qualche percussione, archi che appaiono e scompaiono: tutto costruito ad arte intorno a Benjamin Clementine, gradita nuova scoperta di questo 2015. Ci metterà qualche ascolto a conquistarvi, ma se avete un cuore non vi deluderà.