I The Replacement sono il riassuntivo sonoro degli anni Ottanta indipendenti in quel di Minneapolis, da sempre indicati come la controproposta è meglio la controparte degli Husker Du per via di quella bizzosa movimentazione che caratterizza le loro performances, un mix di nevrotico punk slegato dal genere madre che singulta e sfuma in intellettualismi garage colmi di esistenzialismo e scatti ossessivi sfocianti a volte nell’hardcore.
Giovanissimi al limiti della legalità, la band capitanata da Paul Westerberg, mette in conto di confinare all’angolo tutte quelle band del circondario e non solo che ancora si ostinano a forgiare suoni e terremoti elettrici di vecchia fattura, e dopo due album e un pugno di project slim arrivano a questo stupendo lavoro Let it be autentico inno dell’angst ribelle giovanile che dal loro Mid West diffonderà una onda d’urto che durerà per molto ancora; undici tracce effervescenti, un compendio musicale che sembrano riverberi trascinanti di urgenze e storie da raccontare subito, traguardi che la giovane band immette nell’ascolto sottoforma di ritmi e liriche da angry young man, quelle sensazioni che non si nascondono dietro – e solo – la potenza delle chitarre, ma anche nella poesia immedesimata, nella tenerezza sverginata di tanti pensieri prepotentemente venuti a galla all’improvviso.
Ottimo concentrato di stili e forze impulsive, piccola enciclopedia nella quale gira di tutto, e come tutto si imprime nel gusto primario delle belle cose in un battibaleno, e anche un album che risente delle esperienze e delle ventate cha arrivano dalla lontana Inghilterra, quelle vertigo coloratissime della swinging town che allungano i tentacoli verso una grigia Europa di sotto, già traballante di suo; ed in quel 1984 questa tracklist fece un successo sonoro oltre ogni limite, i rigurgiti Hardcore che sbranano in “We’re Coming Out” che vanno a contrastare la stesura pianistica di “Androgynous”, lo scazzo strumentale che urla in “Seen Your Video” che puntella il Power-Pop scalmanato di “Black Diamond” o l’ottimo gioco elettrico di Fender in “Answering Machine” che da un pugno nell’occhio alla stradaiola e Springsteeniana poetica di “Sixteen Blue” forse l’unica traccia dell’intero lotto a dare di stanca.
E’ una giovane band che durò poco, ma il loro testamento – insieme al futuro album Tim – rimane in circolazione nella storia di poco fa, una mercuriale postura che li farà ricordare tra l’Olimpo delle comete, di quelle che passano una sola volta ma graffiano il cielo ad aeternun. Seminale!