Valerio Vittoria, già Froben e Matildamay, oltre che chitarrista live di Colapesce e Alessandro Fiori, esordisce solista col moniker Calavera in questo colorato, agrodolce, liberatorio Funerali alle Hawaii. Il titolo è adattissimo: chitarre riverberate, tastiere, ritmi rotolanti si appoggiano ad armonie di un Pop malinconico, chiaroscurale, in un serpeggiare che è amaro e sereno insieme, come le cerimonie floreali sul Pacifico in cui si dà l’ultimo definitivo saluto alla vita sotto il sole, fra le onde, tra mosaici di petali. Il risultato di questo mix esotico e appassionato si misura in gradazioni di colore morbide, mai pastello: una vivacità sommessa, equilibrio nell’ossimoro tra una nuova libertà e la solitudine del viverla, tra il raccontarsi “senza finestre sul mondo” e un cambiamento anche esteriore: “una nuova città, un nuovo amore ed una nuova vita”. Funerali alle Hawaii è adatto alle mattine piovose ma anche ai tramonti sereni e nostalgici; suona lontano e vicino insieme, peculiare in certi toni antitetici, contraddittori, dove la luce, leggera, si mescola a ombre grigiastre, non ancora tragiche. La pasta sonora riempie ogni spazio intorno a una voce sussurrata che snocciola epifanie semplici ma taglienti, attimi di consapevolezza ritti spalla a spalla con dubbi e ripensamenti, il tutto immerso in un cangiante universo che è veramente, profondamente Pop, dove i ganci si sprecano e le canzoni si susseguono come pillole balsamiche per le orecchie grazie al talento di Calavera per il tocco giusto al momento giusto. Un disco fatto di contrari, di opposizioni, che ricorda certamente molto altro e magari non stupisce, ma che non arriva alla fine senza regalare una scintilla, un brillio di curiosità. Cullante e variopinto.
Libellula Tag Archive
Karoshi – Libellula [FREE DOWNLOAD]
I Karoshi stanno per tornare con il loro secondo EP, Antera, quattro brani tra sperimentazioni psichedeliche e post-rock, in uscita l’8 marzo prossimo.
G-Fast – Go to M.A.R.S.
Dietro il moniker di G-Fast si nasconde il One Man Band milanese Gianluca Fastini, un amante delle sonorità vintage, di quel maledetto Rock di una volta che puzzava di whiskey e suonava di Blues. Il suo nuovo disco preceduto da svariati live esce per La Fabbrica e si chiama Go to M.A.R.S., niente di elegante, niente di particolarmente eccitante. Perché questo Go to M.A.R.S. vorrebbe suonare esattamente come un disco di una volta, prendiamo tutta l’attuale scena Indie italiana e buttiamola senza timore nel cesso tirando lo sciacquone infinite volte. Tanto non ci sarebbe poi così tanto da salvare secondo alcune arroganti presunzioni. “Go to M.A.R.S.” prima traccia (e pezzo che titola l’album) parte subito massiccia e senza paura, piedone a spingere sulla cassa, chitarre Folk Rock e tanta voglia di arrivare su Marte. Ma questo dal titolo si era capito benissimo, dopo Bowie arriva G-Fast. Tanta spocchiosità nell’animo indipendente di “I Like It”, qualcosa diventa subito muro tra concetto e risonanza. Non arrivo a cogliere il senso e disordinato come un bambino eccitato dai regali di Natale vado avanti nell’aprire canzoni come fossero pacchi.
Nel brano successivo “Mystical Man” G-Fast usa chitarroni pesanti ma quella insistente sensazione di “vecchio polveroso” proprio non vuole lasciarmi stare. Capisco benissimo l’intenzionale ricerca di suoni del passato ma in questo caso il prodotto finale è stancante, è come mettere volontariamente la testa dentro una ghigliottina francese. Tralascio volentieri “On My Own”, non riesco a contemplare certe cose in nessun momento della mia giornata. Tengo a precisare che questo disco sono riuscito a metabolizzarlo (diciamo pure così) almeno dopo dieci ascolti durante i quali mi promettevo di trovare il lato positivo che puntualmente non arrivava mai. E nessuno mai potrebbe capire quanto aspettavo che ciò accadesse. “Morning Star” prosegue senza provocare troppo scompenso, alta orecchiabilità e sound arrugginito come non ci fosse un domani. In questo caso apprezzo molto la tecnica Old School. Andando avanti troviamo “Like an Angel” e “Toy Soldier”ma entrambe vivono di luce riflessa, un qualcosa già speculato negli anni novanta quando tutto era più facile e non ci giravano i coglioni a causa della crisi economica, quando potevi sentirti il padrone del mondo non sapendo che la fine era alle porte.
Ci vuole un fegato marcio per suonare Rock Blues senza contaminazioni. “Crazy” è finalmente un pezzo diverso dal resto, poco omologabile con quello ascoltato in precedenza, un mix di atmosfere tarantiniane e sole bollente sulla nuca. Ma possibile? Ho già ascoltato da qualche altra parte? Sento delle familiarità impressionanti. I diritti umani mangiati voracemente da un corvo nero in “The Crow Is Back”, ancora non riesco ad afferrare niente di buono, sconsolato cerco riparo nell’ultima traccia “What I Think of You”. E’ una ballata ma a me non piace affatto. G-Fast non rientra nella schiera di musicisti che salveranno la musica, almeno da quello espresso in Go to M.A.R.S. non riesco a vedere neanche uno spiraglio di positività. Inutile nascondersi dietro musicalità testate migliaia di volte e tecnica audace, la musica è soprattutto sentimento e questo disco purtroppo non trasmette niente. Consideriamola una brutta esperienza.
Neko at Stella – Neko at Stella
Il Rock deve suonare sporco e duro, altrimenti non stiamo parlando di Rock. Ma di maledette influenze senza voce concreta. L’omonimo esordio discografico dei Neko at Stella impone le classiche regole del Desert Noise Rock nel miglior modo possibile, un lavoro mixato in analogico per rendere vive e bagnate le radici americane del sound. Un lavoro che suona datato di una ventina di anni ma in grado di mettere in evidenza la straordinaria potenza psichedelica della band, non è roba facilmente ascoltabile in Italia se proprio vogliamo dare un punto di originalità al disco, qui di made in Italy non troviamo assolutamente niente esclusa la nazionalità di Glauco Boato (voce e chitarra) e Jacopo Massangioli (batteria). Pezzi interminabili che sembrano tirare fino all’infinito, la chiusura che non vuole mai arrivare butta l’attenzione a capofitto nella pesantezza Stoner dei pezzi a loro volta carichi di passione. Quella passione scritta in maniera dura ma comunque sinonimo di amore e vita vissuta, le batterie spaccano i timpani come è giusto che sia. Fucilata in pieno volto e poca voglia di discutere.
Si parte subito forte con l’opener “As Loud as Hell” (primo singolo e video del disco), le intenzioni poco delicate dei Neko at Stella vengono subito fuori facendo capire di che pasta sarà composto l’intero disco che sicuramente non è adatto ad un pubblico di spelacchiati amanti del Rock dolce (sempre se possiamo definirlo Rock), questa cosa inizia a piacermi veramente e sono ancora alla prima traccia. Poi si continua a picchiare e quasi provo dissolvenza mentale quando mi ritrovo negli intermezzi di chitarra appartenuti ai più tenebrosi Sonic Youth di Daydream Nation, sensazioni pure che passano per la testa, magari associo ma non centro il bersaglio. L’immaginazione gioca brutti scherzi, a me piace giocare con le mie emozioni e Neko at Stella ne produce a dismisura e fottutamente contrastanti. Anche gli oltre otto minuti e trenta di “Like Flowers” non sono proprio una soluzione semplice da affrontare per il mio cervello che s’impone di seguire un percorso Blues e vagamente Shoegaze senza azzardare bruschi movimenti, il pezzo che forse nasce per caso ipnotizza e piace tanto. Poi la tempesta riprende piede nell’improvvisazione strumentale di Intermission. Graffi infetti sulla schiena. Poi continuo a farmelo scivolare sulla pelle in maniera delicata, il piacere inizia ad aumentare anche perché il disco assume forme lievemente più leggere anche se in “Drop The Bomb, Exterminate Them All” trovo parecchie cosette scontate Grunge anni novanta alle quali siamo ormai troppo abituati. “The Flow” dichiara che il disco ha cambiato decisamente stile a favore di chitarre ritmate Blues. Poi motoseghe psichiatriche in Psycho Blues e tanta voglia di muovere il culo. Altre due canzoni dall’interiorità emotiva alle stelle e il disco finisce. I Neko at Stella hanno dimostrato la durezza della loro corazza ma anche la voglia di portare avanti un progetto musicale fuori dal coro, il loro omonimo esordio esce fuori dalla quotidiana routine, idee chiare e tecnica da incorniciare. Speriamo sia il piacevole assaggio di una band ancora tutta da scoprire, noi e la musica italiana abbiamo tanto bisogno di band e dischi di questo calibro.
Misachenevica – Come Pecore in Mezzo ai Lupi
Misachenevica è un nome veramente figo per una rock band, un nome talmente bello da influenzare tutto l’ascolto del cd (davvero!). Ti piacciono subito senza una reale motivazione, hanno un nome grandioso e nessuno può farci niente, sono quelle cose che ti rendono grande o sfigato dall’inizio. Arrivano dal nord est e ci sparano in presa diretta l’album Come Pecore in Mezzo ai Lupi sotto etichetta Dischi Soviet Studio. Il rock italiano più classico degli anni novanta come linea da seguire per orientarsi dentro questo lavoro non sempre coerente con le proprie potenzialità, nel senso che assaporo dei pezzi grandiosi e dei pezzi sinceramente superflui, come presenze indesiderate durante la migliore festa dell’anno. Una festa mesta per evocare i Marlene Kuntz del primo periodo catartico, una potenza meno sviluppata ma comunque sempre dietro l’angolo quella sprigionata dalle chitarre dei Misachenevica, meno graffianti ma molto emozionali. Misachenevica, devo sempre ripetere questo nome fino allo svenimento, ne sono rimasto troppo attratto. Misachenevica. Come Pecore in Mezzo ai Lupi in qualche maniera mantiene viva quella schiera di adoranti sognatori del primo indie (italiano) che vedevano perse le proprie speranze e non riuscivano più a riconoscersi in nessuna manifestazione musicale attuale, le pecorelle smarrite che ritrovano la retta via per rimanere nell’argomento lasciato percepire dal titolo del disco (anch’esso di una bellezza fuori dal comune).
Il pezzo “Figlio illegittimo di Kurt Cobain” lanciato come singolo impressionabile del disco (e qui sotto potete spararvi il video) tira da subito fuori una cattiva essenza di rock duro, primordiale e con una struttura melodica pop orecchiabilissima, si impara subito la strofa di un ritornello studiato alla perfezione e canticchiarla non è poi così male. Indubbiamente non parliamo del disco dell’anno, per quello bisogna guardare altrove ma non tutto è da prendere alla leggera, la band appartiene sicuramente alla fascia buona della musica italiana, quella che sovrasta la cattiva di molte migliaia di distanze. Ebbene il nome della band gioca a loro favore e incuriosisce un vago ascoltatore, se mi trovassi a scegliere un disco alla cieca sopra uno scaffale di un vecchio negozio di dischi la mia scelta cadrebbe senza esitazioni sopra di loro. I Misachenevica hanno già il potenziale commerciale nel sangue, una produzione più attenta e mirata li renderebbe competitivi sotto ogni punto di vista. Come Pecore in Mezzo ai Lupi al momento rimane un bel ricordo con tantissimo bisogno di conferme future, il vero rock si vede alla distanza.