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Elephant Brain – Canzoni da odiare
Alla sua seconda prova, la band perugina realizza una sorta di concept di formazione.
Continue ReadingFragil Vida – Papà Ha Detto che la Vostra Musica è Schifosa
Quindici anni di carriera sono tanti e i Fragil Vida lo sanno benissimo, arrivare al quinto disco in studio e sentirsi freschi come agli albori purtroppo non è roba da tutti. Provano a (ri)conquistare il pubblico con Papà Ha Detto che la Vostra Musica è Schifosa, quindici canzoni cantautorali/teatrali troppo poco convincenti con soluzioni cercate un tantino ovunque e comunque sia poca bellezza ad illuminare il disco. Il cantautorato moderno nella sua forma più classica e pessimistica, la vita quotidiana sempre musa ispiratrice dei testi e il malcontento generale raccontato in ogni salsa. Come se ancora non ci fossimo resi conto del mondo di merda che ci troviamo a vivere. Si potrebbe vivere meglio? Bene, parliamone. Disco che prende spunto dalla catastrofica situazione del terremoto emiliano del 2012, su questo sono convinto di essere dalla loro parte soprattutto perchè tre anni prima la terra è tremata in maniera devastante anche sotto il mio culo, e soltanto chi vive certe orrende situazioni è capace di percepire delicate sensazioni. La maggior parte delle volte indescrivibili. I Fragil Vida sono una band che dovrebbe esibirsi soltanto nei live e lasciare stare i dischi (è impossibile ma sarebbe il paradiso per loro), la loro fama nei live distacca di molto il lavoro in studio, nati per calcare i palcoscenici.
Papà Ha Detto che la Vostra Musica è Schifosa rimane semplicemente ben suonato ma di una fermezza emotiva impressionante, niente che possa rimanere inciso, una bella canzone di cui non ricorderai niente. “Amico Due Punto Zero” suona gitana e senza freni, irriverente e provocatoria, una realtà terrificante. Il pezzo è uscito come primo singolo dell’album. In “La Storia di Mustafa” sentori di cantautorato italiano alla Lorenzo Cherubini, molta intimità. E su questo stile prosegue il disco, tanto cantautorato come punto di forza, il culmine esotico si raggiunge in “Ci Hai Lasciati i Soldi”. Le melodie non sono affatto semplici e scontate, anzi, molto singolare e interessante l’arrangiamento della circense “Zoppo di Madre”, sembra suonata da quaranta elementi. Niente male. Simpatia da vendere nella napoletana “Siamo Sempre in Giro”. Musicalmente niente da dire, tanto Funky e frammenti di Jazz, Rock leggero e cantautorato come non ci fosse un domani. Papà Ha Detto che la Vostra Musica è Schifosa non disdegna certo le mie giornate, non esulto di gioia ma neanche mi tappo le orecchie dal peccato. I Fragil Vida sono degli artisti con la A maiuscola e su questo ho già detto mille volte che non ci piove, tecnicamente impeccabili e dalle simpatiche soluzioni musicali. Ma questo disco non riesce a cogliere nel segno, non riesco a trovare una giusta collocazione per quello che ascolto, bello ma niente di eccezionale. Rimaniamo sul fatto che le live performance hanno tutt’altro impatto per i Fragil Vida e che questo disco è solo un piccolo e misero antipasto rispetto a tutte le altre portate che prevede la cena. I Fragil Vida sono bravi ma questo lavoro non entusiasma veramente nessuno. Peccato, il quinto disco non è mai facile per nessuno.
Marco Notari, anticipazione del nuovo disco!
Marco Notari pubblica a sorpresa su youtube una versione chitarra e voce di un brano del suo nuovo disco, attualmente in lavorazione ed in uscita a fine 2014. La canzone si intitola “Le fotografie”, ed è stata registrata in presa diretta nella cascina di Dogliani in cui il cantautore registrerà il suo prossimo lavoro. Nei prossimi mesi Marco Notari sarà inoltre protagonista di alcune date in solo, in cui presenterà in anteprima alcuni dei nuovi brani.
Le prossime date del Solo Tour:
2 marzo PANTAGRUEL (Casale Monferrato – AL)
15 marzo CHUPITO (Perugia)
18 marzo FANFULLA (Roma)
19 marzo KITCHEN MON AMOUR (Genova)
12 aprile LO STANZONE (Feltre – BL)
18 aprile MASSERIA OSPITALE (Lecce)
G-Fast – Go to M.A.R.S.
Dietro il moniker di G-Fast si nasconde il One Man Band milanese Gianluca Fastini, un amante delle sonorità vintage, di quel maledetto Rock di una volta che puzzava di whiskey e suonava di Blues. Il suo nuovo disco preceduto da svariati live esce per La Fabbrica e si chiama Go to M.A.R.S., niente di elegante, niente di particolarmente eccitante. Perché questo Go to M.A.R.S. vorrebbe suonare esattamente come un disco di una volta, prendiamo tutta l’attuale scena Indie italiana e buttiamola senza timore nel cesso tirando lo sciacquone infinite volte. Tanto non ci sarebbe poi così tanto da salvare secondo alcune arroganti presunzioni. “Go to M.A.R.S.” prima traccia (e pezzo che titola l’album) parte subito massiccia e senza paura, piedone a spingere sulla cassa, chitarre Folk Rock e tanta voglia di arrivare su Marte. Ma questo dal titolo si era capito benissimo, dopo Bowie arriva G-Fast. Tanta spocchiosità nell’animo indipendente di “I Like It”, qualcosa diventa subito muro tra concetto e risonanza. Non arrivo a cogliere il senso e disordinato come un bambino eccitato dai regali di Natale vado avanti nell’aprire canzoni come fossero pacchi.
Nel brano successivo “Mystical Man” G-Fast usa chitarroni pesanti ma quella insistente sensazione di “vecchio polveroso” proprio non vuole lasciarmi stare. Capisco benissimo l’intenzionale ricerca di suoni del passato ma in questo caso il prodotto finale è stancante, è come mettere volontariamente la testa dentro una ghigliottina francese. Tralascio volentieri “On My Own”, non riesco a contemplare certe cose in nessun momento della mia giornata. Tengo a precisare che questo disco sono riuscito a metabolizzarlo (diciamo pure così) almeno dopo dieci ascolti durante i quali mi promettevo di trovare il lato positivo che puntualmente non arrivava mai. E nessuno mai potrebbe capire quanto aspettavo che ciò accadesse. “Morning Star” prosegue senza provocare troppo scompenso, alta orecchiabilità e sound arrugginito come non ci fosse un domani. In questo caso apprezzo molto la tecnica Old School. Andando avanti troviamo “Like an Angel” e “Toy Soldier”ma entrambe vivono di luce riflessa, un qualcosa già speculato negli anni novanta quando tutto era più facile e non ci giravano i coglioni a causa della crisi economica, quando potevi sentirti il padrone del mondo non sapendo che la fine era alle porte.
Ci vuole un fegato marcio per suonare Rock Blues senza contaminazioni. “Crazy” è finalmente un pezzo diverso dal resto, poco omologabile con quello ascoltato in precedenza, un mix di atmosfere tarantiniane e sole bollente sulla nuca. Ma possibile? Ho già ascoltato da qualche altra parte? Sento delle familiarità impressionanti. I diritti umani mangiati voracemente da un corvo nero in “The Crow Is Back”, ancora non riesco ad afferrare niente di buono, sconsolato cerco riparo nell’ultima traccia “What I Think of You”. E’ una ballata ma a me non piace affatto. G-Fast non rientra nella schiera di musicisti che salveranno la musica, almeno da quello espresso in Go to M.A.R.S. non riesco a vedere neanche uno spiraglio di positività. Inutile nascondersi dietro musicalità testate migliaia di volte e tecnica audace, la musica è soprattutto sentimento e questo disco purtroppo non trasmette niente. Consideriamola una brutta esperienza.
Madaus – La Macchina del Tempo (Disco del Mese)
Il nuovo anno è sempre un rischio, o meglio, una roulette russa senza precedenti. Vero che lasciamo dietro le spalle tanta merda ma con gli anni ho imparato che al peggio non c’è mai fine. Il nuovo anno in musica arriva alle mie orecchie tramite l’esordio discografico dei Madaus che propongono un concept dedicato alle tante sfaccettature dello scorrere del tempo chiamato (appunto) La Macchina del Tempo. Il disco parte subito in maniera eccelsa con “100 Cani”, la voce di Aurora Pacchi impazzisce il mio stato d’animo regalando perle di vocalità classica con una tecnica spaventosa. Il disco avanza come non ci fosse un domani e la musica dei Madaus concede intrecci Funky Blues dai ritmi incalzanti. “La Macchina del Tempo”, pezzo che titola l’album, è liberamente ispirato ai graffiti lasciati dal degente Oreste Nannetti sulle mura del manicomio di Volterra (la città di Volterra gioca un ruolo fondamentale sulla creazione del disco, tutto sembra girarle attorno, il nucleo imprescindibile dell’intera opera prima). Questo brano minaccia volontariamente il mio stato mentale attualmente fresco e tranquillo, il pianoforte marca solchi leggiadri cavalcati dalla voce ancora una volta impeccabile di Aurora (con la voce riesce a simulare strumenti che nel disco non esistono fisicamente). Pianole a ventola anni sessanta e tanta malinconia in “In Nero e Bianco”, brano molto classico e personale guidato sul finale da una batteria impertinente. Da lasciarsi accarezzare con cura nelle canzoni che seguono “Invitago” e “Temp0”, il tempo che passa inesorabile lascia segni indelebili sul volto e sulla coscienza, Aurora cerca di fermare il tempo, a volte ci riesce e a volte no. A volte parla seriamente, a volte inizia a giocare. Ballata delicata e sofferente quella chiamata “Pre-Potente”, rabbia raccontata da riff risolutamente più duri rispetto alle precedenti composizioni, la tempesta e poi subito la quiete. Emozionale come non mi capitava da tempo, penso a qualcosa degli anni novanta ma è solo una non credibile supposizione. “Io Non so” invece rappresenta la parte sperimentale de La Macchina del Tempo, in questa fase i Madaus riescono a dare un senso diverso all’intero album sterzando bruscamente verso altre strade. Il risultato non inganna quando la tecnica e le idee vanno maledettamente di pari passo. “Ombre Cinesi” chiude il disco in maniera elegante e sincera, un compito importante assegnato ad una canzone diversa e stranamente strumentale dagli accenni curiosamente Post Rock. I Madaus sono la bella provocazione di questo fresco duemilaquattordici appena iniziato, un disco d’esordio che non lascia spazio a brutte considerazioni, mantenere questi livelli in futuro significherebbe posizionarsi tra i grandi artisti. La voce di Aurora è perfetta e senza togliere merito al resto della band potrebbe adirittura cantare senza base per quello che mi riguarda, ma l’unione quasi sempre sviluppa forza e i Madaus attualmente sono una forza.
Neko at Stella – Neko at Stella
Il Rock deve suonare sporco e duro, altrimenti non stiamo parlando di Rock. Ma di maledette influenze senza voce concreta. L’omonimo esordio discografico dei Neko at Stella impone le classiche regole del Desert Noise Rock nel miglior modo possibile, un lavoro mixato in analogico per rendere vive e bagnate le radici americane del sound. Un lavoro che suona datato di una ventina di anni ma in grado di mettere in evidenza la straordinaria potenza psichedelica della band, non è roba facilmente ascoltabile in Italia se proprio vogliamo dare un punto di originalità al disco, qui di made in Italy non troviamo assolutamente niente esclusa la nazionalità di Glauco Boato (voce e chitarra) e Jacopo Massangioli (batteria). Pezzi interminabili che sembrano tirare fino all’infinito, la chiusura che non vuole mai arrivare butta l’attenzione a capofitto nella pesantezza Stoner dei pezzi a loro volta carichi di passione. Quella passione scritta in maniera dura ma comunque sinonimo di amore e vita vissuta, le batterie spaccano i timpani come è giusto che sia. Fucilata in pieno volto e poca voglia di discutere.
Si parte subito forte con l’opener “As Loud as Hell” (primo singolo e video del disco), le intenzioni poco delicate dei Neko at Stella vengono subito fuori facendo capire di che pasta sarà composto l’intero disco che sicuramente non è adatto ad un pubblico di spelacchiati amanti del Rock dolce (sempre se possiamo definirlo Rock), questa cosa inizia a piacermi veramente e sono ancora alla prima traccia. Poi si continua a picchiare e quasi provo dissolvenza mentale quando mi ritrovo negli intermezzi di chitarra appartenuti ai più tenebrosi Sonic Youth di Daydream Nation, sensazioni pure che passano per la testa, magari associo ma non centro il bersaglio. L’immaginazione gioca brutti scherzi, a me piace giocare con le mie emozioni e Neko at Stella ne produce a dismisura e fottutamente contrastanti. Anche gli oltre otto minuti e trenta di “Like Flowers” non sono proprio una soluzione semplice da affrontare per il mio cervello che s’impone di seguire un percorso Blues e vagamente Shoegaze senza azzardare bruschi movimenti, il pezzo che forse nasce per caso ipnotizza e piace tanto. Poi la tempesta riprende piede nell’improvvisazione strumentale di Intermission. Graffi infetti sulla schiena. Poi continuo a farmelo scivolare sulla pelle in maniera delicata, il piacere inizia ad aumentare anche perché il disco assume forme lievemente più leggere anche se in “Drop The Bomb, Exterminate Them All” trovo parecchie cosette scontate Grunge anni novanta alle quali siamo ormai troppo abituati. “The Flow” dichiara che il disco ha cambiato decisamente stile a favore di chitarre ritmate Blues. Poi motoseghe psichiatriche in Psycho Blues e tanta voglia di muovere il culo. Altre due canzoni dall’interiorità emotiva alle stelle e il disco finisce. I Neko at Stella hanno dimostrato la durezza della loro corazza ma anche la voglia di portare avanti un progetto musicale fuori dal coro, il loro omonimo esordio esce fuori dalla quotidiana routine, idee chiare e tecnica da incorniciare. Speriamo sia il piacevole assaggio di una band ancora tutta da scoprire, noi e la musica italiana abbiamo tanto bisogno di band e dischi di questo calibro.