Lisa Hannigan Tag Archive

‘Chi suona stasera?’ – Guida alla musica live di aprile 2017

Written by Eventi

The Notwist, Steve Gunn, Ofeliadorme, One Dimensional Man… Tutti i live da non perdere questo mese secondo Rockambula.

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Tornano Glen Hansard e Lisa Hannigan

Written by Senza categoria

Dopo il fortunato breve tour invernale nella nostra penisola, l’irlandese Glen Hansard torna in Italia con la sua fedelissima opener Lisa Hannigan, al Carroponte di Milano il 6 luglio.
L’inizio dello spettacolo è previsto per le ore 21. Biglietti in vendita sul circuito TicketOne, al costo di 15€ più diritti di prevendita.

 

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Glen Hansard

Written by Live Report

Onestamente la lunga coda per Glen Hansard in un freddissimo 20 febbraio milanese, non me l’aspettavo proprio. E invece in molti si sono presentati più che puntuali, in tempo per vedere anche l’opener, Lisa Hannigan. E qui la seconda sorpresa. Perché la Hannigan è fondamentalmente la talentuosa corista di Damien Rice che ha intrapreso una carriera da cantautrice e non ci si aspetta certo che il pubblico sia lì anche per lei. Non fraintendetemi, la Hannigan è bravissima, con il suo uso della voce a cavallo tra Emiliana Torrini e Julia Stone, un personaggio delicato che al tempo stesso trasmette determinazione, capace di stare sul palco da sola e incantare solo con le sue melodie e un ukulele. Ma mi aspettavo il solito semivuoto sotto il palco e una platea caciarona in attesa dell’headliner. E invece tutto il pubblico era già piazzato, col naso all’insù, in un silenzio attentissimo interrotto solo da qualche “Brava Lisa” e dal brusio di qualcuno che cantava Little Bird o Passenger.

Hansard si presenta sul palco con dieci strumentisti: basso, chitarra, batteria e uno dei violini sono  i componenti dei The Frames, a cui si devono aggiungere trombone e sax, tastiere, altri due violini e un violoncello. Il concerto si apre con You will become a cui seguono Maybe not tonight e Talking with the wolves, tutt’e tre -per altro in quest’ordine- presenti nell’ultimo disco Rhythm and Repose: in un attimo l’atmosfera si fa intima e famigliare. Hansard ama raccontare aneddoti e parlare di se stesso, così intervalla i brani con la storia della gita al faro finita male o con la sua personale opinione della generazione X-factor (“Voler diventare celebri per la celebrità in sé è roba da fottuti ignoranti!”). La gente gli urla “Bravo” e “Grazie” e lui risponde “Grazie” e “Grazie” in un siparietto ilare che andrà avanti per tutto il concerto, quando finalmente Glen avrà imparato a dire “Prego”. L’irlandese è una cantautore serio ma che non veste i panni dell’intellettuale, è un frontman con un grande carisma ma anche molta modestia: il palco è gestito con professionalità, ma anche con leggerezza e disimpegno, con la consapevolezza implicita che uno show debba prima di tutto intrattenere, anche e soprattutto per catturare l’attenzione del pubblico e far passare meglio i propri messaggi. La scaletta prosegue con alcune sorprese: Love don’t leave me waiting finisce con una citazione improvvisata di Respect di Aretha Franklin, vengono eseguite alcune cover de The Swell Season, il progetto di Hansard con la pianista e cantante Marketa Irglovà, fra cui spicca la dolce In these arms, ma è l’accenno in palm muting di Wishlist dei Pearl Jam che scalda la platea: è una richiesta, il cantautore si lamenta anche perché non riesce a leggere testo e accordi per colpa del luciaio del Limelight che gli ha cambiato le luci (e ironizza: “Gli avevo detto di non farlo e lui l’ha fatto lo stesso! Che poi questo posto è una discoteca, avrà sì e no cinque colori…”). Fedele all’originale ed eseguita con molta delicatezza con il solo accompagnamento della chitarra, il brano richiama i musicisti sul palco per Fitzcarraldo, Santa Maria e Song of good hope, un momento serissimo in una serata leggera e divertente: la canzone viene dedicata a un amico malato di cancro che dopo anni di inutili cure si è messo in giro per il mondo a vivere il tempo che gli resta.

È l’encore, però, il vero apice di una serata piacevole e piena di sorprese: Hansard torna sul palco con la sua sola acustica (tra l’altro con la tavola armonica bucata – il ragazzo pesta come un dannato e credo si diverta anche a non usare i battipenna) e canta Say it to me now, senza microfono e senza amplificazione. Il pubblico si stringe sotto il palco, tutti fanno silenzio e ascoltano incantati. Con la Hannigan, poi, intona O sleep (brano composto dalla ragazza) e Falling Slowly dei The swell season. I musicisti tornano sul palco e c’è un momento veramente grottesco: un ragazzino dal pubblico aveva richiesto un brano dei Nirvana, perché il 20 febbraio sarebbe stato il compleanno di Cobain. Hansard lo accontenta, ma a condizione che salga sul palco per cantare. Il ragazzino è tutto imbarazzato, non sa che dire. La band attacca Breed e lui sta lì, microfono in mano, ad ammettere di non sapere le parole, poi prende coraggio e si limita a saltare e a fare le corna, secondo il migliore stereotipo. I musicisti sul palco sono divertitissimi (e per altro fanno una versione davvero bella del brano, energica e raffinata al tempo stesso), il pubblico anche. Con una splendida e caldissima This Gift (dal vivo davvero molto molto più potente che da disco – c’erano schegge di bacchette di Hopkins ovunque) finisce il concerto. Hansard e soci decidono di congedarsi dal pubblico in un modo meraviglioso: abbandonano tutti l’amplificazione, si dispongono sul palco come una compagnia teatrale per i saluti e gli inchini e intonano Passin’ through di Leonard Cohen: danno istruzioni agli spettatori sulle parole da cantare e scendono in mezzo a noi come una marchin’ band. Si fermano un po’ in mezzo alla platea e poi, continuando a suonare e cantare, salgono la scala che porta su una balconata di fronte al palco.

Davvero meraviglioso!

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Lisa Hannigan – Passenger

Written by Recensioni

Amata artisticamente e non senza mezzi termini da Damien Rice con il quale ha condiviso progetti musicali, session e amore, Lisa Hanningan, la rossa cantautrice irlandese, torna a camminare con le proprie gambe sui sentieri folk della sua infanzia e della sua vita attuale, viaggia e tutto quello che riesce a condensare delle emozioni vissute, le raccoglie in questo bel tenero album “Passenger”, undici fiori sbocciati tra gli occhi e giornate impegnate a fare chilometri in giro nel mondo senza mai abbandonare le rotonde convinzioni che nutre per la sua Inghilterra, terra anche di pop e melodie rinfrescanti.

Un disco che vive il proprio tempo o forse di più, che fa stare bene con la testa nei sogni, comodi e con buona pace di spirito, suite e atmosferici field che convincono subito, senza pensarci un secondo, modelli di fantasie sognanti che fungono ad atto d’amore consenziente, pallido e timido, ma consenziente; delicatezze vocali che si accostano a quelle di una leggiadra Vashti Bunyan alle prese con filigrane jazzly e ballate sospese, abbandonate su di una scrittura morbida e soave, un flute di note e poesia da bere tutto d’un fiato.

Di dischi come questo quello che colpisce sempre è l’evanescenza, quel vaporoso sistema comunicativo che sa di pulito e allentato che si fa respirare come ossigeno raffinato; prosaiche come voli radenti di rondini spensierate arrivano le cablate spaziose di “Passenger”, la march-stompin’ “Knots”, il pop radiofonico color arancio “What’ll I do”, stupendo il duetto mozzafiato con Ray LaMontagneO sleep”, l’andatura da ronzino stanco “Flowers” o il pensiero fugace e  solingo di un violino suonato da Lucy Wilkins che accompagna come un sole giunto al declino di una giornata “ Paper house”, ed è un ascolto che  si equilibria tra classico ed indie-folk, ma poi ogni definizione si fa benedire tanto vive di un volo di fantasia di un tot di minuti.

Della serie quello che “non passa il convento”, un bel disco da ascoltare chiudendo il mondo fuori e conservarne intatto il suo analgesico poetame a lungo nel tempo.

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