È un piovoso sabato di settembre e in un’atmosfera decisamente autunnale il Garbage Live Club di Pratola Peligna (Aq) si appresta a inaugurare la nuova stagione live con il cantautore, ex leader, frontman e voce della band Rock’ n Roll TheOld School, Niccolò Maria Santilli, talento nato e cresciuto tra queste valli abruzzesi ma ormai trapiantato stabilmente nella capitale. Il clima è di quelli giusti; il caldo dell’estate lascia spazio al fresco e all’umidità di questo mese tanto malinconico; le mura del club scaldano gli animi in un tepore irreale che riesce a spezzare ogni timore terreno, preparando il campo alla performance avvolgente del songwriter. Santilli è pronto a imbracciare la chitarra e proporci alcune delle sue canzoni, ispirate tanto dalla tradizione italiana che fa capo a Lucio Battisti, quanto al Pop britannico nato con i Fab Four e cresciuto con l’ondata Brit Pop e al Folk d’oltreoceano. Il concerto inizia puntualmente alle ventitré, il grosso del pubblico arriverà puntualmente in ritardo; il fresco del pomeriggio sembra essersi attenuato e sono molti quelli che decidono di ascoltare dall’esterno del locale.
Santilli parte subito con uno dei brani contenuti nel suo ultimo Ep, “Shabalalla”, e, da quel momento in poi, sarà un crescendo continuo sia a livello d’intensità sia sul piano performativo, col cantautore che lentamente riprende la consueta familiarità con le corde vocali e quelle della sua chitarra. Gran parte dei brani che seguiranno, da “Son of a Rocker” a “High and Dry” fino alla scanzonata chiusura in una sorta di medley Rock’ & Roll, passando per qualche chicca regalata in esclusiva al pubblico della serata, mettono in luce tutta la nuova vena artistica di Santilli. Rispetto al passato, ora la chitarra viene solo leggermente accarezzata, in un’esplosione soffusa di note che vuole essere soprattutto accompagnamento alla voce. Solo in rare occasioni la mano del musicista pesta sul legno sprigionando potenza pura, nel resto dei casi è soprattutto una sorta di graffio al cuore, un continuo scavare leggero e persistente nel nostro animo.
A concerto concluso sono tanti quelli che dimostrano di aver apprezzato, con applausi e complimenti. Non era un live semplice, da eseguire e da seguire; e non lo era soprattutto per una disabitudine del pubblico a un ascolto attento, silenzioso e intimo, specie se chi si mette alla mercé della folla non è un affermato cantautore da duemila euro a serata ma un ragazzo agli esordi, con infinita passione e voglia di urlare al mondo un pezzo di se.
Dovremmo imparare a vivere nella consapevolezza che non saremo in eterno, imparare a fermarci, cogliere e goderci ogni momento di questa esistenza effimera. Dovremmo impararlo davvero e per poco più di un’ora, Santilli, non ha fatto altro che ricordarlo a noi, che abbiamo saputo ascoltarlo, con la sua voce incantevole e una manciata di parole cariche di energia e voglia di essere in eterno.
Sono le 21:30 quando le luci si accendono e Daniele Silvestri sale sul palco del Porto Turistico di Pescara cominciando il concerto sulle note di “Marzo 3039”, e via ad alternarsi canzoni che almeno due generazioni di noi conoscono benissimo.
Silvestri si dimostra in ottima forma e passa abilmente da brani eseguiti con la chitarra a canzoni più intime che lo vedono alla tastiera. “Strade di Francia”, “Ma che discorsi”, “Le cose in comune”, “Sempre di domenica” fino a “La guerra del sale”, con le immagini di Caparezza proiettate sul maxi-schermo sullo sfondo.
Poi c’è anche un momento molto serio. Tre brevi filmati vengono proiettati alle sue spalle: il tema del primo è il diritto di voto alle donne, poi compare Enrico Berlinguer che parla di giustizia sociale, infine un intervento tratto dal Gay Pride. A seguire “A bocca chiusa” e “L’uomo col megafono”.
Ma la serata è ancora lunga! Daniele prende una chitarra, ci dice che suonerà qualcosa a sorpresa, inizia a muovere le dita sulle corde e i migliori romantici in un momento riconoscono un pezzo degli Otto Ohm: regalando un grande sorriso agli spettatori pescaresi appare Vincenzo Leuzzi detto ‘Bove’ sale e intona insieme a Daniele le sue “Strade inquiete” e “Fumo denso”, e poi ancora “A me ricordi il mare” e “Il mondo stretto in una mano.” Poi si congeda, e Daniele continua sulle note dei suoi grandi classici come “Gino e l’alfetta”, “Salirò”, “Testardo” e l’immancabile “Occhi da orientale”.
Sono già più di due ore che si suona a Pescara, e ormai dopo il bis pensiamo tutti che sia arrivato il momento dei saluti. E invece no! Iniziano le canzoni a richiesta! “L’autostrada”, “Samantha”, poi Silvestri lancia un tappo tra il pubblico: alla persona che lo afferra tocca scegliere ancora un pezzo, la scelta cade su “La paranza”, e via tutti a ballare.
Si chiude con “Aria” e il grande classico, “Cohiba”. Il pubblico è entusiasta. I musicisti si abbracciano, grandi sorrisi ed un inchino finale verso il pubblico.
Grazie Daniele, con le tue quasi tre ore di concerto ci hai regalato una serata strepitosa.
Richard Bona è uno dei più grandi bassisti viventi. Il suo curriculum parla da solo: polistrumentista, ha collaborato con artisti del calibro di Joe Zawinul, Michael e Randy Brecker, Mike Stern, George Benson, Branford Marsalis, Chaka Khan, Bobby McFerrin e Steve Gadd, ed è stato il direttore musicale dell’Harry Belafonte’s European Tour nel 1998 e percussionista e vocalista nel tour mondiale di Pat Metheny del 2002.
Tuttavia un talento così non nasce dal nulla. Le sue origini dicono che il nonno era un cantastorie che girava per i villaggi, un po’ come faceva Omero nell’antichità per narrare i suoi poemi e che la madre era una cantante. Al suo attivo anche diversi album solisti alle spalle, c’è chi lo chiama (giustamente) lo Sting africano (è nato infatti in Camerun) per le similitudini stilistiche ed armoniche con il fondatore e leader degli ormai disciolti Police.
E’ stato quindi un grande onore per il Sant’Elpidio Jazz Festival (manifestazione promossa dall’Amministrazione Comunale di Sant’Elpidio a Mare – Assessorato alla Cultura e Turismo in collaborazione con l’Associazione Syntonia Jazz) ospitare un suo concerto.
L’evento quest’anno prevede in cartellone nomi quali Cyrus Chestnut – Buster Williams – Lenny Withe, Rosario Giuliani – Luciano Biondini Quartet, Mirko Fait Quintet con special guests Roberto Piermartire e Antonio Zambrini, e Simona Molinari che chiuderà la rassegna il 7 agosto.
Per l’occasione il grande bassista è stato affiancato dall’ensemble Mandekan Cubano con cui ha proposto quindici brani dal suo esteso repertorio compreso l’intero Heritage, il suo ultimo album in studio.
Sul palco si presenta con un amplificatore Mark Bass ed un basso a cinque corde con un unico pickup attivo e piezo per simulare il suono di altri strumenti quali gli archi di un orchestra sinfonica. Si inizia con “Aka Lingala tè” che (curiosamente) apre anche il suddetto Heritage. Il pubblico osserva con scrupolosità ed interesse l’evolversi del brano che in realtà è una semplice introduzione vocale di appena un minuto. Il vero opening si può quindi considerare “Ekwa Mwato”, canzone tratta da Reverence, album datato 2001.
Bona non ha mai sovrastato il suo gruppo tranne quando, come in questo caso, ha proposto i suoi brani solisti. Un vero e proprio artista a 360 gradi, che ha catturato l’attenzione dei presenti nonostante il suo carattere un po’ schivo dall’inizio alla fine come pochi sanno fare con le sue doti canore eccellenti.
Si prosegue quindi con “Bilongo” che risulta molto delicata e ritmata nell’esecuzione e con “Mute Sukudu” che anticipa il ritorno ad “Heritage” con in sequenza: “Jokoh Jokoh” (in cui a dire la verità sono più il piano e le percussioni a fa da padroni), “Cubaneando”, “Essèwè ya Monique”, “Santa Clara Con Montuno”, “Ngul Mekon”, “Muntula Moto”, “Eva”, “Kivu” e “Kwa Singa” rispettando fedelmente la tracklist del disco.
I ritmi africani si fondono progressivamente con le melodie cubane mescolando le anime musicali di due continenti, l’Africa e l’America, che sulla carta appaiono lontani ma che per più di un’ora sono stati vicinissimi se non addirittura confinanti abbattendo ogni distanza geografica.
Un tocco vellutato il suo, formidabile nei suoi duetti all’unisono tra basso e voce; praticamente unico al mondo.
Richard infatti suona il basso con tutte le dita della mano destra, veloce nell’esecuzione e con il groove nel sangue.
La conclusione è stata affidata a “O Sen Sen Sen”, scritto in coppia con Marc Berthoumieux e contenuto in Tiki, disco che conteneva collaborazioni con artisti quali Mike Stern e John Legend.
Richard Bona è stato anche talmente umile da fermarsi alla fine con i propri fan per foto e autografi di rito vincendo anche quella timidezza che lo ha contraddistinto un po’ per tutto lo spettacolo. Un concerto davvero unico che ha saputo abbracciare vari stili e generi musicali; in oltre venti anni di carriera infatti Bona ha tratto ispirazione da Jaco Pastorius a Tito Puente per arrivare al Jazz Caraibico di oggi. Se lo conoscete già sapete cosa voglio intendere; se non lo avete mai sentito nominare correte a comprarvi per lo meno Bona Makes You Sweat – Live e Bonafied. Scoprirete nuovi universi sonori che solo un musicista eclettico quale è Richard Bona può affrontare con la sua genialità e il suo stile davvero unici.
Riuscire a vedere nella stessa sera e sullo stesso palco Manuel Agnelli ed Emidio Clementi è sempre una bella botta… emotiva.
È la terza volta che mi capita questa fortuna, dopo la notte al Traffic Free Festival del 2008 (che segnò la reunion dei meravigliosi Massimo Volume) e quella dello spettacolo “Agnelli Clementi”, se la memoria mi assiste – dunque è probabile mi sbagli – dell’anno successivo. A tradurre in realtà uno dei più classici proverbi nostrani ci ha pensato, la sera del 15 luglio scorso, il Flowers Festival, che ha ospitato il concerto degli Afterhours, freschi di pubblicazione del loro undicesimo lavoro in studio, Folfiri o Folfox, e di Sorge, il nuovo progetto di Clementi in compagnia di Marco Caldera, coproduttore dell’ultimo disco dei Massimo Volume, posto in apertura di serata.
Sono piuttosto curioso di ascoltare in sede live la nuova proposta di Clementi già saltata dalla programmazione di Hiroshima Mon Amour, per cause di forza maggiore, due volte negli ultimi mesi. Per far spazio alle due ore abbondanti di show degli Afterhours e finire negli orari stabiliti Mimì e Marco devono iniziare molto presto, così, quando con 2 amiche ci avviciniamo al Parco della Certosa, in lontananza si sentono le note della bellissima “Bar Destino” e probabilmente è già volato via un buon quarto d’ora di concerto. Una volta entrati ad accoglierci è l’opprimente atmosfera de “Il Cerchio” ed è subito ipnosi.
Pensavo (stupidamente) che la voce di Clementi potesse avere un qualche minimo segno di cedimento a causa del contemporaneo ed inedito uso della tastiera, invece niente, il magnetismo dello spoken di Mimì non cede una virgola di un incanto che l’elettronica di Caldera sposa perfettamente.
Nonostante il ritardo ci si può ritenere piuttosto fortunati sarà infatti nella seconda parte dello spettacolo che arriveranno alcuni dei pezzi migliori dell’esordio del duo tra i quali spiccheranno “Accetto Tutto”, l’inconsueto fare Hip-Hop della mirabile “Noi Facciamo Ciò Che Siamo” e soprattutto l’ispiratissima “In Famiglia”, intima catarsi capace con i suoi beat ed i suoi versi magistrali di avvolgere e rapire completamente. Il duo chiuderà l’esibizione con un’inedita perla rimasta fuori da La Guerra di Domani. Mimì è sempre Mimì ed anche con questo nuovo progetto e con questa raccolta di canzoni, che come da lui dichiarato spaziano tra ciò che si è e ciò che la vita porta ad essere, non fa che confermarlo. La sua poetica ed il suo immaginario così legati e capaci di svilupparsi attraverso l’esistente e il concreto non danno scampo, ti entrano dentro, le sue parole ed il suo modo di declamarle sono tra le cose più belle che l’Italia, non solo musicale, abbia conosciuto negli ultimi 25 anni.
Qualche minuto di attesa per la preparazione del palco e sarà la volta degli Afterhours che per la prima volta in vent’anni mi coglieranno impreparato, ad oggi non ho dato che due ascolti al loro ultimo lavoro, la situazione però mi fan sperare riportandomi alla mente uno dei loro live ai quali resto in assoluto più legato, la differenza è che all’epoca impreparati lo eravamo tutti poiché con un breve tour che toccò anche Torino la band presentò Ballate per Piccole Iene qualche giorno prima dell’uscita ufficiale, come si usava fare negli anni 70.
In perfetto orario Manuel Agnelli fa il suo ingresso sul palco con la sua chitarra acustica sulle note fuori campo di “Ophryx” attaccando con l’opener del nuovo disco, la toccante e viscerale “Grande”, e viene raggiunto dal resto della band, che ne fa ulteriormente salire la tensione emotiva, a metà brano. La mia prima impressione è che ci siamo, ci siamo proprio “alla grande”. Arrivano poi in serie altri 3 brani del nuovo disco tra i quali i due singoli, la potentissima e distorta (ma a mio modo di vedere non così centrata) “Il Mio Popolo Si Fa” e l’instant classic “Non Voglio Ritrovare il Tuo Nome”.
Da qui in avanti i brani di Folfiri o Folfox si alterneranno a buona parte dei classiconi pescati dalla lunga e importante discografia della band, insomma partirà quel terapeutico rito di liberazione collettivo e personalissimo che è parte integrante di ogni concerto degli Afterhours. Avremo così modo di ascoltare e cantare (in alcuni casi urlare), tra le tante, l’immortale “Male di Miele” (sempre una gran botta d’energia), o quei brani che sono un affondo di coltello, ora brutale ora lento e passionale, nella carne più sensibile (“La Vedova Bianca”, “Il Sangue di Giuda”, “La Sottile Linea Bianca”, “Varanasi Baby”). Verrò colpito da una “Padania” mai così bella, e dalla doppietta “Bungee Jumping” / ”Costruire per Distruggere”, pezzi che vedranno crescere la loro componente Noise, nel caso della seconda, con Iriondo e D’Erasmo ai fiati (quest’ultimo anche al classico violino), Jazz Noise, che darà ai brani una vitalità nuova pur senza stravolgerli, tutto molto bello, tutto eseguito meravigliosamente. Chapeau.
In questo frangente i brani pescati dal nuovo disco che più mi appagheranno saranno la ballata per piano con accenni di violino “L’Odore Della Giacca Di Mio Padre”, il Rock macchiato di Blues e Americana di “Né Pani Né Pesci” e la bella coralità perfettamente incastrata tra Pop e Rock di “Se Io Fossi il Giudice” con la quale si chiuderà la parte di set che precede i bis.
Al primo rientro la band proporrà “Le Verità Che Ricordavo”, tipo quella di un Agnelli circense pazzo che rotea con foga il microfono, cosa che non gli vedevo fare da un po’ e che, sarò stupido, a me fa sempre un gran piacere vedergli fare, seguita da “Riprendere Berlino” (non c’è niente da fare, de I Milanesi Ammazzano il Sabato non ho nulla nel cuore), dalla graditissima sorpresa di “Strategie” che live mancava da qualche tempo, fino a giungere a “Pop (Una Canzone Pop)” eseguita in acustico dal solo Manuel ed alla sempreverde “Non è Per Sempre”. Secondo encore: “Quello che non c’è”, sempre gustosissima anche se tagliata del finale strumentale, ed a concludere un brano introdotto dal ricordo di Manuel di un viaggio in India risalente a 15 anni fa in compagnia di quell’Emidio Clementi che lo aveva da poco preceduto sul palco, un viaggio che ha marcato a fuoco un’amicizia e che ha partorito gioielli come questa conclusiva, e stasera veramente monumentale, “Bye Bye Bombay”.
L’impressione che il nuovo Folfiri o Folfox mi lascia suonato dal vivo è che si tratti di un disco che rimarrà, magari non come i dischi migliori della band, che non vi sto ad elencare tanto lo sappiamo tutti quali sono, ma rimarrà, sicuramente più degli ultimi due lavori, e nei live che verranno negli anni a seguire alcuni brani di questo lavoro li aspetteremo e gli Afterhours, nel limite del possibile e se ancora esisteranno, ce li daranno. La nuova formazione che osservo dal vivo per la prima volta (la febbre mi lasciò a casa durante il loro primo tour nei teatri dello scorso anno) è veramente tosta, sicuramente per i fans di lunga data non vedere sul palco in particolar modo un certo Giorgio Prette può dare un certo effetto, ma mettendo da parte il cuore ed ascoltando, credo si possa affermare che oggi si abbiano di fronte quelli che probabilmente sono i migliori Afterhours di sempre, per lo meno in ottica live. Probabilmente i Nostri un disco capolavoro non lo incideranno più (mai dire mai, ok), ma se consideriamo che il gruppo è in piazza da trent’anni e solitamente ne bastano molti ma molti meno per esser bolliti (cosa che questi Afterhours non sono nemmeno lontanamente) possiamo sfregarci le mani per quello che ancora oggi questi ragazzacci si dimostrano capaci di sfornare. Ma appunto, l’ottica live, stasera ho visto gli After più maturi di sempre, a tratti perfetti, ma che la parola non vi faccia pensare ai King Crimson, perfetti come una rockband viscerale con la loro esperienza deve essere, l’attitudine non è cambiata ma tutto suona meglio, come se ci fossero una consapevolezza e probabilmente anche una concentrazione maggiori in tutti i suoi componenti. Forse questa sofferenza (l’ultimo disco, come ormai tutti sapranno, nasce dal dolore della perdita per cancro del padre da parte di Manuel, sfociando in vita) ha regalato alla band coscienza, anche quella di essere dei 40/50enni, per quanto ancora capacissimi di fare il culo a chi ha la metà dei loro anni, senza però più bisogno ad esempio di dover sfanculare il fonico durante i primi pezzi dell’esibizione o di robette simili molto Rock, ma in fin dei conti solo sulla carta (attenzione, quel roteare il microfono di cui parlavo sopra è sotto il mio punto di vista un segno distintivo, dunque cosa assai diversa) e, mi ripeterò fino alla nausea, senza perdere nulla in impatto, anzi.
Poi magari il prossimo disco degli Afterhours virerà verso qualcosa di più leggero, giovanile e alla moda, poi magari su quel disco non suoneranno gli stessi musicisti che hanno suonato sull’ultimo e che stasera ci hanno regalato questo gran bel concerto, poi magari il prossimo disco degli Afterhours nemmeno esisterà.
La verità in fondo é che con un tipino come Manuel non si sa mai, ed è anche per questo che gli voglio un gran bene e non lo giudico, tanto mal che vada, domani, saremo liberi di non piacerci più.
Parafrasando impunemente gli LCD Soundsystem, tra i protagonisti indiscussi di quest’anno, confesso senza troppi preamboli i miei pensieri a caldo, quando l’edizione 2016 del Primavera Sound Festival si era conclusa da appena poche ore.
Il circolo Magnolia di Segrate (MI) ha ospitato martedì 31 Maggio sul suo palco esterno i texani Explosions in the Sky.
I ragazzi di Austin hanno pubblicato il 1° Aprile scorso la loro ultima fatica The Wilderness, disco che personalmente, per quanto ben suonato e per quanto al suo interno si trovino pregevoli trame, trovo un po’ piatto ma che eseguito dal vivo riesce a trovare maggiore visceralità (inevitabilmente considerando che on stage i ragazzi, come noto, non si risparmiano).
I picchi emotivi più elevati sono comunque giunti coi brani più datati del repertorio del quintetto tra i quali “Greet Death”, “The Birth and Death of the Day”, “Your Hand in Mine” ed il travolgente finale di “The Only Moment We Were Alone”.
Insomma, anche questa volta le esplosioni, nel cielo e nel cuore, non sono mancate.
Il piccolo ed accogliente centro regionale per la danza Lavanderia a Vapore di Collegno ha ospitato il 6 Maggio Teho Teardo e Blixa Bargeld in tour per promuovere Nerissimo, loro ultimo disco uscito lo scorso 8 Aprile per Specula Records a tre anni da Still Smiling. Il duo ha portato con sé, come nel precedente tour, la violoncellista MartinaBertoni, ma questa volta sul palco si sono visti anche un altro violoncello, tre violini ed un clarinetto basso.
Il live, seppur con qualche inconveniente tecnico (che ha dato vita ad alcuni siparietti tra i protagonisti sul palco seppur non senza un minimo d’irritazione, soprattutto da parte dell’artista tedesco), è risultato piacevolissimo.
Teardo si è mosso appassionatamente tra chitarra ed elettronica mentre Bargeld ha offerto la solita grande performance ricca d’intensità (poetica, romantica, ironica, teatrale) esaltata dall’ottima prestazione della bravissima Bertoni e delle sue colleghe.
Live intenso (ma personalmente meno emozionante del precedente), che ha visto il duo italo-tedesco pescare a piene mani dai due full length fin qui pubblicati come dall’Ep Spring, riuscendo spesso a far salire la temperatura della graziosa sala di Collegno come a portarla a vivere attimi di attentissimo e religioso silenzio.
Sabato 30 Aprile è stata una serata all’insegna dello Stoner al Cellar Theory di Napoli. Possiamo dire che è stato quasi tutto perfetto, dalle band all’atmosfera. Prima di parlare dell’evento, delle fantastiche band e della magnifica atmosfera, è doveroso spendere due parole per l’organizzazione che ha avuto il coraggio di mettere su uno show del genere, i Cattivi Guagliuni, che già da un po’ di tempo punta su diversi locali partenopei, proponendo ciò che molti non si azzarderebbero a fare.
Anche questa volta ci propongono un delizioso show degno di nota: il King Of Stoned Fest Vol.2. I gruppi protagonisti sono cinque: Lee Van Cleff, Tuna De Tierra, Teverts, Diana Spencer Grave Explosion e i possenti Kayleth. Mio malgrado, a causa di diversi intoppi non sono riuscito ad ascoltare i Lee Van Cleff e i Tuna De Tierra, sono arrivato al locale intorno la mezzanotte, giusto due minuti prima che cominciassero a suonare i Teverts. Premetto che mi ritrovo in un ambiente carico, con un pubblico colmo di adrenalina e voglioso di divertirsi. La band di Phil e soci si presta a suonare, in questo show, tutto il loro ultimo disco, intitolato Towards The Red Skies. I Teverts sono un gruppo con la testa sulle spalle, sanno ciò che fanno, dunque sanno come divertire, e con “Control” e “The Sanctuary” mettono in ginocchio un locale. “Charles Dexter Ward” ti teletrasporta in un mondo che probabilmente solo uno fatto di allucinogeni può comprendere, mentre con “Shine” ci si scuote e si tira avanti a ritmo di riff. Finisce lo show, passano circa dieci minuti, il tempo di una sigaretta e si sentono le sinistre atmosfere create dai Diana Spencer Grave Explosion. La band proveniente da Bari propone uno Stoner che si mescola ad atmosfere elettroniche e sinistre. Anche loro, come la band che li ha preceduti, suonano per intero il loro EP d’ esordio, 0. La band dimostra di saper tenere il palco, sulle note di “Space Cake” si percepisce la bravura tecnica dei ragazzi, sia per l’ uso delle chitarre che degli effetti. Con “Long Death To The Horizon” ci sono momenti calmi ed altri più aggressivi, anche qui c’è uno strepitoso uso delle chitarre che in sede live fa un grande effetto. “Avalanche” invece, rispetto alle altre due tracce, ha delle atmosfere più marcate. Ascoltata ad occhi chiusi in compagnia di una birra ed una sigaretta riesce ad essere magica. Ci dirigiamo verso la fine del mini festival, si prepara il palco per l’ultimo gruppo: gli attesissimi Kayleth. La band è carica, pregna di grinta e desiderosa di scatenare il Cellar Theory. Tutti i pezzi suonati dal gruppo hanno suscitato forti emozioni, per ragioni di tempo si è scelto di suonare pezzi di Space Muffin e The Survivor ed onestamente ci sono un po rimasto nel non essermi trovato qualche traccia di Rusty Gold. Ad ogni modo i Kayleth non si smentiscono affatto, presentano uno show degno di nota che avrebbe fatto gola perfino agli Orange Goblin. “Mountains” definisce un po lo stile attuale del gruppo, questa canzone dal vivo fa venire la pelle d’ oca con i suoi possenti giri di chitarra. “The Survivor” è un’ altra traccia che ti fa scuotere, il gioco di luci ha aggiunto un tocco di classe non indifferente. Su “Swamp Lovers” il pubblico comincia a spintonarsi e a proporre la sua danza rabbiosa a base di spintoni e spallate. L’apice si è raggiunto con la fantastica “Secret Place”, una traccia possente dall’atmosfera baritonale. Insomma, questo secondo King Of Stoned Fest è stato un grande successo, un evento coi fiocchi che ha accontentato molti fan del genere.
Il compositore sperimentale statunitense William Basinski sta in questi giorni presentando in Italia la sua nuova composizione A Shadow In Time, requiem in memoria di David Bowie. Il Superbudda di Torino ha avuto l’onore di ospitare la prima data di questo breve tour il 12 Aprile.
La serata Ambient Drone è stata aperta dal set del bravissimo Paul Beauchamp che ha preparato il pubblico presente in sala al live dell’artista texano. L’autore delle celebri Disntegration Loops ha poi avvolto la gremita sala con la sua ultima composizione, un’elegia che si evolve lentamente e col passare del tempo si fa sempre più magnetica fino al doloroso, ma estremamente dolce, finale.
Una contemplativa composizione di cinquanta minuti per descrivere l’ombra lasciata nel tempo da una stella già di per sé nera. Basinski sarà nel nostro paese ancora per qualche giorno, chi può non se lo perda.
Carica, grinta ed emozione. I Negrita tornano a Napoli dopo quattro anni e questa volta salgono sul palco della Casa della Musica. Le sensazioni sono tante sia da parte della band che da parte del pubblico che l’ ha accolta. Il 17 Marzo è stato un giorno memorabile per i fan napoletani di Pau e soci. Il concerto dei Negrita comincia in tempo, la scaletta è vasta, si va dai grandi pezzi che hanno visto nascere il gruppo, alle loro hit del momento. Alle 21:30 Pau e soci sono pronti per scatenare l’ inferno, “Ehi Negrita” apre le danze, e il pubblico è già caldo e desideroso di scatenarsi con la musica della band. Le danze continuano con “War” e “Negativo”, anche queste cariche e movimentate. La terza canzone dello show è la suprema “In Ogni Atomo”, amata da tutti e dunque cantata da tutti. “Poser” è la canzone che divide chi appare da chi invece è; anche questa cantata con la gioia nel cuore. E’ il momento di “Fuori Controllo”, una delle canzoni più riuscite del concerto, la traccia che ha riempito di carica e adrenalina i fan della band. Subito dopo parte, “Il Gioco”, uno degli ultimi singoli dei Negrita, che, a modo suo, è riuscito a divertire. Arriviamo a “Bambole”, altro grande pezzo, che, detto onestamente, nella versione live suscita davvero emozioni indescrivibili. Con “Hollywood” si chiude la prima parte del concerto, Pau e soci si recano dietro le quinte per ricaricarsi un po’, dopodiché si riparte nuovamente alla grande con un’ altra bellissima canzone: “Radio Conga”, anche questa cantata da tutti. E’ il momento di danzare e pensare a città calde, pensare al sole, al mare, alla spiaggia con “Rotolando Verso Sud” e lasciarsi trasportare dalle note dei ragazzi. Con “Alzati Teresa” i Negrita dedicano la canzone ad una loro amica che fortunatamente si è ripresa; le possenti chitarre di questa canzone, ad ogni modo, hanno fatto vibrare la Casa Della Musica. Altra grande canzone che fa scuotere il pubblico di Pau e soci è “A Modo Mio”, con questa si vedono ragazzi saltare, ballare e scatenarsi, un vero inno alla baldoria. Lo show si chiude con tre pezzi che hanno fatto la storia: “Cambio”, “Transalcolico” e la grintosa “Mama Maè”, quest’ ultima quella che saluta Napoli. Questo concerto dei Negrita è stato impeccabile, c’è stato di tutto: divertimento, emozioni e riflessioni. Chi non era presente si è perso un fantastico show.
We’re the Battles and we’re from NYC. David Konopka sale sul palco per primo ed è l’unico a scambiare due parole con il pubblico, ricordando il Brancaleone dell’ultima volta in cui i Battles si erano esibiti in città. Poche chiacchiere e tonnellate di energia tonificante: questo è stata la performance di mercoledì scorso al Teatro Quirinetta, gradevole location a due passi da Via del Corso.
Lo Spring Attitude Festival 2016 è iniziato così, con l’Elettronica della miglior specie, quella a servizio dell’estro Math Rock di una formazione nata come supergruppo ma che viaggia ormai spedita per la sua strada, con ben tre dischi all’attivo nel roster Warp Records, l’ultimo dei quali (La Di Da Di) uscito appena lo scorso anno.
Quella dei Battles è stata una performance a dir poco sorprendente. Che i tre newyorkesi avessero le carte in regola per stupirci c’era da immaginarselo, ma la resa in versione live è stata al di sopra di ogni aspettativa.
Al centro dello stage la batteria di John Stanier sovrasta il pubblico dall’alto di un piatto a mo’ di stendardo, che lui gode nel picchiare senza tregua, grondante di sudore eppure senza perdere in eleganza. A sinistra, le Stan Smith bianche di Ian Williams si producono in un contagiosi tip tap elettrici, impossibile resistere alla silhouette del polistrumentista che si contorce spasmodica mentre si destreggia con una disinvoltura sconcertante tra chitarra, tastiere e campionatori. Dal lato opposto Konopka scandisce i tempi col suo basso che si moltiplica e lavora per accumulo, in un climax ascendente senza soluzione di continuità tra un brano e l’altro, per quasi un’ora e mezza di performance totalizzante.
Per le prossime puntate dello Spring Attitude ci si rivede a maggio. Intanto gustatevi qualche scatto di questa preview pazzesca.