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Philm
La notizia del concerto dei Philm a Pescara circolava già da diverso tempo nell’ambiente e per questo l’attesa era tanta come lo era pure l’hype generato. Non capita spesso che rockstar mondiali passino per il capoluogo adriatico e bisogna pertanto lodare gli sforzi effettuati dalla Skeptic Agency e dallo staff dell’Orange Rock Pub (che ringraziamo anche per la collaborazione e il supporto) , soprattutto quando eventi di tale portata vengono offerti al proprio pubblico ad un costo davvero irrisorio (soli 10 euro per il biglietto di ingresso) e bisogna anche rimarcare che ad aggiungere un valore indotto al tutto c’è stata anche l’esibizione dei Noumeno, una vera e propria furia sonora proveniente da Roma.
La band è nata nel lontano 2007 ed è attualmente costituita da Emanuele Calvelli (basso), Emiliano Cantiano (batteria), Danilo Carrabino (chitarre) e Matteo Salvarezza (chitarre). Quattro elementi che fanno della tecnica il loro punto di forza e che hanno saputo intrattenere i presenti per quasi un’ora con un perfetto mix di Prog, Death e Rock. Tante le influenze che il gruppo ama citare nella propria biografia (si va dai Cacophony a Jason Becker, dai Racer X ai Death, dai Rush ai Mr.Big, passando per Symphony X, Meshuggah, Liquid Tension Experiment, Angra, Van Halen e Greg Howe) ma dietro ci sono anche tante ore di sala prove, perché la perfezione si raggiunge sì studiando e riproducendo i propri idoli, ma anche eseguendo i propri brani per decine e decine di volte cambiandone a volte anche gli arrangiamenti.
Non voglio esagerare, ma l’impressione che si ha ascoltandoli dal vivo, è che la loro preparazione e il loro affiatamento sia pari a quello di colleghi affermati quali PorcupineTree e Toto. Pochi i brani (purtroppo) proposti, ma tanta l’energia diffusa su tutti. Del resto l’organizzazione era stata chiara: inizio dei concerti ore 21:00 e gli orari sono stati rispettati quasi al minuto. Verso le 22:00 è arrivato il tanto atteso momento: sua maestà Dave Lombardo è entrato nel locale rifugiandosi subito nell’area backstage dove a fine concerto non esiterà insieme ai suoi compagni Gerry Nestler (voce/chitarra)
e Pancho Tomaselli (basso)
a concedersi per foto e autografi ai fan accorsi per l’occasione. Nel poco tempo intercorso fra il suo arrivo e l’inizio della performance dei Philm viene anche allestito il banchetto del merchandising dove è stato possibile acquistare i prodotti ufficiali quali magliette, cd e vinile del capolavoro in studio del gruppo, Fire From the Evening Sun, uscito per la Udr nel 2014. La scaletta del concerto prevede ben quattordici canzoni così ripartite: otto estratti da quest’ultimo lavoro, cinque dal precedente Harmonic, pubblicato nel maggio 2012 dall’etichetta fondata da Greg Werckman e Mike Patton, la IpecacRecordings, e un inedito con cui si concluderà la serata.Dave Lombardo esibisce tutta la sua tecnica costruita in oltre tre decadi di carriera, fatte di centinaia di concerti in tutto il mondo e di dischi in band quali Slayer, GripInc. e Fantômas dicollaborazioni con John Zorn, Testament e Apocalyptica. Precisissimo nell’esecuzione, è talmente accurato da concedersi anche un paio di interruzioni per mettere mano al suo drum kit. Sarà infatti indispensabile persino l’intervento di un fan, che gli presterà la chiave con cui accorderà la batteria, e del suo road manager. Il pubblico entusiasta lo guarda con idolatria, ma insieme a lui ci sono anche due validi musicisti senza i quali i Philm non avrebbero natura di esistere. La musica dei Philm è anni luce diversa da quanto fatto in precedenza. Lo stesso Dave Lombardo descrive il tutto in poche parole: “zero improvvisazione, zero fronzoli. La nostra musica ti ruggisce in faccia da inizio a fine. Noi proviamo a spingerci al di fuori della nostra zona di comfort e vogliamo che i nostri fan facciano lo stesso“. Difficile la catalogazione quindi nel loro caso, ma di certo tutto è tranne che Thrash. Qualcuno si chiede inoltre come Dave riesca a produrre tanti ritmi con un drum kit che è tutto sommato nella norma in quanto a grandezza. Ma in certi casi, si sa, la differenza la fa chi sta dietro le pelli. Tuttavia (ripeto) i Philm non sono un leader e due musicisti a supporto ma una vera e propria band. Il livello di preparazione di bassista e chitarrista è infatti invidiabile, entrambi si concedono diversi virtuosismi, cercano di conquistare anche loro il pubblico con la loro carica e il loro entusiasmo; Gerry sprizza sudore da tutte le parti e Pancho non sarà certo da meno (tanto da rimanere a torso nudo nella parte finale della setlist). La fine giunge implacabile verso le 23:00 ma tutti rimarranno molto soddisfatti da entrambe le performance sicuri di aver assistito a un evento che per anni (se non decenni) rimarrà nella memoria storica della città. Pescara e l’Abruzzo intero sono una piazza spesso trascurata dai big della musica mondiale ma per fortuna poi a noi utenti pensano realtà quali la Skeptic Agency e l’Orange che appena qualche giorno dopo hanno proposto anche i Karma to Burn, vere e proprie leggende dello Stoner Rock. Ma questa poi è un’altra storia…
Thegiornalisti & Maria Antonietta + Chewingum
L’estate a Torino è uguale a quella di tutte le città dell’Italia del nord lontane dal mare: il caldo, l’afa, la riduzione delle corse degli autobus che costringe ad interminabili attese, le zanzare e, peggio del peggio, la riduzione dei concerti per dare più spazio ai festival estivi. Ma i festival si svolgono quasi sempre nel fine settimana, e durante le settimana che si fa? Ci pensa la Scuola Holden che, in collaborazione con Hiroshima Mon Amour, ha organizzato per il secondo anno consecutivo la rassegna Stand by Me – Racconti di un’Estate. Stasera tocca all’esibizione dei Thegiornalisti seguiti da Maria Antonietta + Chewingum. Il sole è già tramontato da un po’, ma la band romana non può che cominciare con “Per Lei”(il sole splende anche a Torino) per dare il proprio saluto alla città. L’atmosfera si scalda subito, tanto che il pezzo successivo ci vede ballare tutti con “Balla”, appunto. Il clima è ormai torrido in tutti i sensi e là sul palco lo è ancora di più, lo dimostra anche l’abbigliamento Moda Mare a Positano del frontman Tommaso Paradiso: costume giallo e maglietta. Si rallenta in po’ con “Proteggi Questo Tuo Ragazzo”, ma ci pensa “Fine dell’Estate” (suonata giustamente a metà concerto, è ancora troppo presto per farla diventare un finale) a riattivare il mood mani in alto ed urla al cielo. Si prosegue ancora con altri cavalli di battaglia tratti da Fuori Campo (“Mare Balotelli” e l’ “Importanza del Cielo (Miyazaki)”) ma non mancano anche brani appartenenti ad altri album come“Io Non Esisto” (Vol.1), con la quale i Thegiornalisti tentano di simulare il finale, ma si tratta di una farsa e lo sappiamo tutti, manca uno dei pezzi forti, che abbiamo già cantato in macchina o fischiettato in giro per tutto l’inverno appena trascorso; “Promiscuità” arriva puntuale a chiudere il concerto, portandosi dietro quell’atmosfera estiva che non riusciamo ancora a goderci appieno. Tommaso scende dal palco e viene a cantarla tra il pubblico che gli si stringe intorno in un unico grande abbraccio promiscuo di odori, sudori, Autan sulla pelle di uno che si mescola all’ Off sulla pelle dell’altro. Certo, gambe abbronzate ne ho viste ben poche, abbiate pazienza, ma posso garantire sulle tette sudate e le mani sul culo.
Poi è la volta di Maria Antonietta e dei Chewingum, la band con cui ha realizzato il suo ultimo Ep Maria Antonietta Loves Chewingum, una raccolta di brani tratti da Sassi e dotati di nuovi arrangiamenti in chiave electro-pop, che talvolta arrivano ad alterare perfino le linee melodiche tanto da rendere alcune canzoni a tratti irriconoscibili. Tutto questo scatenerà un vero e proprio dibattito in auto a fine concerto sulla questione: è giusto o meno alterare così tanto delle canzoni già scritte in un determinato modo, tanto da farle sembrare altre canzoni? A parte un lieve problema iniziale della voce, il concerto procede tra alti e bassi perché costretto a sormontare le montagne di scazzo cosmico di Maria Antonietta, che durante la serata raggiunge almeno tre picchi: uno nel momento in cui ci dice che questo mondo non fa per lei e non riuscirà mai a capirci niente, l’altro quando annuncia che lascerà per un po’ le scene per mettersi a fare la casalinga, e l’ultimo quando nell’annunciare la sua canzone “Con gli Occhiali da Sole” dice che la suddetta le fa schifo ma fortunatamente con i Chewingum ha trovato un modo di suonarla che le piace (e meno male!).
Verrebbe da abbracciarla forte forte Maria Antonietta. Verrebbe da dirle che noi in questo mondo non ci capiamo un cazzo da più tempo di lei, ma non è il caso di deprimersi e deprimere l’intero universo. Verrebbe da chiederle se anche lei non si stanca di questo personaggio decadente, nato probabilmente dal suo reale carattere (può saperlo solo chi la conosce di persona), ma che tiene ormai le redini di tutta la performance quando invece a cavalcare un concerto ci dovrebbero essere prima di tutto le canzoni. Il concerto si chiude con la piacevole cover di “Fotoromanza” di Gianna Nannini. Mi porto a casa una piacevole serata, qualche dubbio sparso qua e là e le prime gocce di un temporale che ha deciso di non scoppiare più
Patti Smith performs Horses 27/07/2015
Patti Smith performs Horses @ Flowers Festival Collegno (TO) – 27/07/2015
Vedere un concerto di lunedì sera è una pratica tanto inusuale quanto liberatoria. Rende più piacevole l’inizio settimana e meno noiosa la presenza pesante della domenica. Vedere poi uno dei più suggestivi concerti della tua vita dietro casa tua, in una cornice come quella del Flowers Festival, rende il tutto memorabile.
Ad aprire le danze ci pensa la giovanissima Erica Mou che da sola con la chitarra fa suonare un’orchestra mentre ci bacia, tanto per citare una delle sue dolci e soffici canzonette. Non c’è trucco e non c’è inganno, semplicemente Erica con la sua chitarra acustica crea ritmi e arpeggi, mixati egregiamente dal suo piedino sulla loop station. Coraggio e una vocina che sotto sotto ci grida in faccia tutte le sue emozioni.
Dopo il breve set della cantautrice pugliese aspettiamo appena mezz’ora e sul palco salgono quattro uomini canuti e una donna, più canuta di tutti loro. Il pubblico non è numerosissimo ma per Patti Smith e la sua band questo non è certo un buon motivo per abbassare la guardia e per non dare la giusta veste ad uno degli album fondamentali per la storia della musica popolare. I cavalli di quarant’anni fa ricominciano il loro cammino con “Gloria”: epica, teatrale, una preghiera al cielo stellato che ricopre il palco. Tutti fermi, tutti ammutoliti, a parlare ci pensa la Sacerdotessa (ora capisco perché viene comunemente chiamata così e mai appellativo fu più azzeccato). Jesus died for somebody’s sins but not mine, una sentenza di una potenza disarmante, già sentita miriadi di volte su disco, ma che dal vivo prende vita e pare fredda come una lama che trafigge la nostra pelle rilassata. Sarà un lunedì sera forte, intenso, magico, avvolgente come la tragica danza Reggae di “Redondo Beach”. I cavalli iniziano a galoppare dopo la solenne marcia di “Gloria”. Galoppano per scappare, per fuggire via dalle tenebre, per poi viaggiare in un’altra dimensione con la jazzaggiante “Birdland”. Parole e musica si fondono in un’eterna poesia che vaga tra le nostre orecchie. Il senso di smarrimento è forte, il senso di impotenza davanti a tanta bellezza è immenso. Patti ha quasi settant’anni e si dimena come una ragazzina che vive per i suoi ideali e per i suoi sogni, la sua lotta interminabile è pitturata poi da una band spaventosa. A comandare la ciurma un eccelso Lenny Kaye, da sempre insieme a Patti, capace di accarezzare e poi martoriare la chitarra che è, a seconda del mood del pezzo, il suo amore, la sua disgrazia ma anche il suo organo sessuale.
“Free Money” è violenza pura e grande Rock’n’Roll prima del lato B di Horses aperto con “Kimberly”, governata da un bel basso pulsante e di nuovo quel Reggae ossessivo . La voce di Patti è prepotente come quarant’ anni fa, una foga che ci spacca le orecchie. Sinceramente non saprei dire se ci sono state pecche tecniche, stecche, cali di voce o cazzate del genere. Quelle le posso sentire se il mio cervello è attivo e presente. Qui sono stato immerso in uno stato fuori dal razionale, la musica mi ha rapito e in questa dimensione nulla sembrava fuori posto. “Break It Up” è un inno alla libertà e la voce della signora Smith trema leggermente quando ci incoraggia ad aprire le braccia e sentire lo spirito di Jim Morrison che vaga nell’aria. La terra zozza e la polvere di stelle si amalgamano in “Land”, onirica e realista, tirata all’inverosimile. Dieci minuti di incastri ritmici, sali-scendi continui, passaggi che vanno dai richiami Soul di “Land of 1000 Dancers” alla furente parte di “La Mer(de)”, per finire nei cori disperati di “Gloria”, ripresa con enfasi da un pubblico che è vero portento questa sera (per fortuna ho visto anche meno cellulari alzati del solito!). “Land” è un capolavoro e non si discute, qui i cavalli vanno a tutta velocità per poi rallentare increduli davanti a questo fiume di parole così ribelli e così fuori dagli schemi. Joey Dee Daugherty, altro storico compagno di Patti alla batteria, inventa ritmi e suona nervoso e dolce, con una versatilità che raramente ho incontrato. Per altro Joey si improvvisa pure bassista nell’ultima perla di Horses. “Elegie” è una canzonetta a detta della Sacerdotessa, dedicata a suo tempo a Jimi Hendrix. Ora, ci dice Patti, tutti noi abbiamo perso qualcuno di caro e con questo ci rende parte attiva della canzone, che nel mezzo regala un saluto ad altri grandi amici del mondo della musica, scomparsi anche loro il questi quarant’anni. E così sono applausi a scena aperta per Lou Reed, Joe Strummer, The Ramones al completo nella loro prima formazione e tantissimi altri miti della musica americana.
Horses è concluso, i cavalli rallentano per poi fermarsi a guardare. E così l’ultima parte di concerto, che pensavo potesse avere il sapore di greatest hits, ci regala perle e non perde affatto il filo logico. “Privilege (Set Me Free)” sembra essere la continuazione di “Break It Up” con quella frase iniziale I see it all before me: the days of love and torment, the nights of rock’n’roll. Tanto Jim Morrison da farlo ricordare ancora una volta. Poi quella imprecazione: goddamn, così violenta e viscerale che gela la spina dorsale. Patti poi esce dal palco e la scena rimane sulla sua band che intona un medley dedicato ai Velvet Underground. Quarant’anni di Horses e cinquanta di Velvet Underground dice Lenny Kaye con il venticello di Collegno tra i capelli lunghi e bianchi. A cantare non solo lui ma anche Tony Shanahan e il figlio di Patti Jackson Smith, abilissimi anche nei numerosi cambi strumento durante il set. “Rock’n’Roll” è una pura sassata, la band poi si rilassa ma gli spigoli rimangono vivi in “I’m Waitin’ For The Man” cantata a squarciagola da tutto il Flowers. In “White Light, Whit Heat” Patti risale sul palco a battere le mani e ballare, le star le lasciamo a casa questa sera, solo ottima musica e tanto, ma proprio tanto, da imparare.
“Because The Night” è commovente, delicata, dedicata al marito scomparso ormai vent’anni fa. La rabbia però ritorna nell’immensa voglia di ribellione di “People Have The Power”. Alla fine Patti intona “My Generation”, inno immortale che pende dalle sue labbra. Una canzone che farebbe ridere addosso a qualsiasi musicista vecchio. Ma lei no, la fa sua, la rende viva e vegeta. Rivive così lo spirito di Keith Moon e la Sacerdotessa onora un altro highlander del Rock come Pete Townshend. Intanto la signora, con un piglio tanto divertente quanto sadico, masturba la chitarra, staccandogli tutte le corde ad una ad una con precisione chirurgica.
La musica di Patti Smith è ancora bella e dannata, proprio come la sua New York, come i suoi vestiti eleganti ma in qualche modo Punk, come i suoi sputi sul palco, come i sorsi di thè e gli occhiali da vista indossati per leggere poesie sul palco, come i suoi occhi vecchi ma per niente stanchi e come il suo sorriso rassicurante. Fonte di gioia, di vita, di saggezza e di una voglia indescrivibile di libertà.
Jovanotti 26/07/2015
Jovanotti @ Stadio San Paolo (NA) – 26/07/2015
Domenica 26 Luglio per amor della mia ragazza mi trovo ad accompagnarla allo Stadio San Paolo di Napoli per assistere ad un concerto veramente emozionante: quello di Lorenzo Jovanotti. Non sono mai stato un grande stimatore del Rapper, questo perché da un lato il genere non è tra i miei gusti dall’altro ero attratto solo da qualche canzone del primo periodo dell’ artista ma comunque senza nessuna escandescenza. Arrivo allo stadio intorno le 19:30, l’ organizzazione è ottima e l’ attesa tra le file brevissima, c’è voluto circa mezz’ ora per andare nel prato. Sono circa 36 mila le persone che sono andate ad assistere Jovanotti e pare che il numero cresce ogni volta che l’ artista calca il palco del San Paolo. Lo show di Jovanotti comincia in orario, le 21:00, ed è anticipato da un breve video che lo vede in una dimensione futura che lo porterà poi a Napoli. In questo video compaiono anche Ornella Muti nella figura di una bellissima donna che gli spiega come tornare indietro nel tempo e Fiorello nei panni di un presentatore che introduce il grintoso artista. Lo show parte gasato con l’ eccezionale “Penso Positivo”, il pubblico è in delirio e si scatena da subito insieme a Lorenzo. Dopo questa la canzone che ha fatto battere i cuori è stata l’ “Alba” e un altro momento di grandi cori è avvenuto con il suo nuovo singolo: “Sabato”. Ma il vero inferno si è scatenato con i suoi grandi classici, in primis, “L’Ombellico Del Mondo” a seguire: “Bella”, “L’ Estate Addosso”, “Serenata Rap” e “Un Ragazzo Fortunato”. Ci si stringe in un grande abbraccio sulle note di “L’ Astronauta” e “Le Tasche Piene Di Sassi”, quest’ ultima, una canzone che Jovanotti dedica alla madre, non a caso la sua espressione quando la cantava la diceva veramente lunga. Verso la metà del concerto arriviamo ad un altro momento commovente: sul palco salgono James Senese ed Eros Ramazzotti. I tre si uniscono per un grande tributo ad una stella di Napoli che si è spenta di recente: Pino Daniele. L’ artista ripete spesso dell’ eredità che ha lasciato Pino alla bella Napoli. Brividi sulla pelle ed occhi pieni di lacrime, questo è ciò che si vede nel pubblico Partenopeo sulle note di: “Yes I Konow My Way”, “Napule è”, “Quanno Chiove” e “A Me M’ Piac O Blues”. Tre canzoni cantate da Jova ed Eros con Mr. Senese che li accompagnava con il suo Sax perchè soltanto nella prima Eros era assente. Un omaggio dalle mille emozioni per ricordare anche quella fantastica tappa del 13 Giugno 1994 nello stesso stadio che vedeva appunto nel Tour Pino Daniele, Lorenzo Jovanotti, ed Eros Ramazzotti. Strepitoso è stato il mini video proiettato nel maxischermo, in cui alla fine delle canzoni dedicate all’artista Napoletano, si vede proprio Pino Daniele ringraziare tutti. Ramazzotti e Senese vanno via, lo spettacolo si dirige verso la conclusione e si vedono le prime facce tristi, nonostante si cominciassero a sentire gli altri grandi successoni di Jovanotti, si concepiva che questa notte magica stava volgendo al termine. Dunque pian piano con: “Tutto L’ Amore che Ho”, “La notte Dei Desideri” e “A Te” si arriva alla conclusione, chiaramente anche in queste canzoni il nostro Rapper è riuscito a far sognare e ad inviare messaggi d’amore e di fratellanza. Si chiude lo show al San Paolo con un grande boato grazie alla canzone “Ti Porto Via Con Me”: tutti a ballare e a rendere indimenticabili questi ultimi minuti di Jovanotti. In questa serata ho visto esibirsi sul palco un artista pieno di grinta e ideali, un ragazzo umile, onesto e con la gioia negli occhi. Non si fermava un attimo, saltellava, correva e ballava in tutte le direzioni del palco per tre ore di fila, un vero uragano insomma. Posso concludere dicendo di esser stato felice di aver assistito a questa sua magnifica data.
We Are Waves 20/06/2015
We Are Waves @ Blah Blah, Torino, 20/06/2015
Breve e doverosa premessa: il mio primissimo incontro con i We Are Waves non avviene durante un live con tutta la band al completo, ma durante una festa di quartiere (quartiere Vanchiglia, Torino), in un negozio di dischi (Gravity Records) dedicato alle etichette indipendenti, dove la band ha suonato in formazione di electro-set che vedeva rispettivamente il cantante Fabio Viassone e Cesare Corso, alle prese con chitarra e sintetizzatori. Da quel primo casuale incontro, intuisco che la musica che stavo ascoltando era qualcosa di speciale; lo capisco dal fatto che mi ritrovo improvvisamente a sorridere, e comincio a sentire dentro una sensazione rassicurante, del tipo “Eccoti qua finalmente, ti stavo cercando”. La questione andava comunque approfondita, mica ci si può fermare alle prime impressioni. Compro Promises, quando torno a casa me lo sparo nelle orecchie, ed è stato come averli là, tutti: The Cure, Joy Division e tanti, tanti altri, tutti a dare il proprio contributo a quel disco dai toni così decadenti ed attaccati alla tradizione New Wave, ma che allo stesso tempo suonava moderno, influenzato di certo dalla tradizione elettronica torinese, e non un disco-fantoccio dalle finalità esclusivamente evocative. Il mio desiderio è quello di poterli riascoltare a breve, e l’occasione si presenta in fretta per il release party di Promises al Blah Blah di Torino. Fine della premessa.
Mentre Torino si prepara alla visita del Papa a botta di maxischermi e transenne lungo tutta via Po, il Blah Blah si prepara al live della serata sfoderando i propri santi protettori; ecco comparire sull’amplificatore l’effige di un altro famoso papa, “Papa Morrisey”, giusto per rendere chiara a tutti la religione che si segue in certi luogo di culto. Dopo più di un anno i We Are Waves tornano a suonare nella propria città con un concerto questa volta che vede la band al completo, nella formazione di Fabio Viassone alla voce e chitarra, Cesare Corso ai sintetizzatori, Fabio Menegatti al basso e Francesco Pezzali alla batteria.
Il pubblico è di certo quello bello ed affettuoso di chi gioca in casa, ricco degli amici di una vita che vengono a festeggiare un nuovo traguardo, ma non solo; sono tanti i curiosi ed amanti della musica accorsi per sentire dal vivo quello che in digitale li ha tanto entusiasmati. Il risultato? Il Blah Blah è stracolmo di gente. E Promises è un album che merita tutto questo affetto. Lo percepiscono maggiormente le anime inquiete, per le quali questo disco è come una goccia nel mare sconfinato delle proprie solitudini, e che nella sua versione live, grazie ai suoni ed alla voce intrisi di malinconia, riesce ancora di più ad arrivare in quei luoghi carichi di ferite, ed alleviare quel dolore che solo nella musica, certa musica, può trovare ristoro. Promises viene suonato quasi per intero, mentre gli ultimi pezzi sono quelli di Labile, disco del 2014.
A concerto finito la sensazione è bellissima, e se qualcuno venisse oggi a chiedermi: “Fanno musica New Wave, un genere che ha visto i suoi anni migliori all’incirca 30 anni fa. C’era davvero bisogno di un gruppo così?”. La mia risposta sarebbe: “Si. Ce n’era un disperato bisogno”.
Ash Code 08/05/2015
Quella dell’otto maggio è stata una serata davvero memorabile. Ancora una volta ho avuto la conferma che basta guardarsi bene intorno per riuscire ad assistere ad uno show degno di nota. Gli Ash Code sono i protagonisti assoluti della serata e a fine concerto, l’ unica pecca che sono riuscito a notare è il caldo infernale. Il connubio tra birra e musica degli Ash Code è perfetto e mi trasporta immediatamente in un piccolo paradiso oscuro. Lo show comincia con leggero ritardo a causa di problemi relativi agli scarsi posteggi ma intorno a mezzanotte quando i tre ragazzi salgono finalmente sul palco del Cellar Theory, una meraviglia di locale che ha l’ulteriore pregio di servire dell’ ottima birra ad alta gradazione; un posto degno di tutti i rocker o i gothster della città. C’è un bel pubblico, il locale è pieno e tutti non vedono l’ ora di farsi trasportare dalle note degli Ash Code. Subito dopo l’ intro la band apre con “Self Destruction”, ideale per cominciare a scaldarsi. La seconda traccia è la mia preferita, quella che mi fa viaggiare e mi fa scuotere: “Waves with no Shorers”. Speravo la suonassero quasi alla fine, essendo la mia canzone preferita degli Ash Code; volevo conservarmela come boom finale ma evidentemente i tre ragazzi non la pensavano come me. E’ il momento di “Empty Room”, un altro cavallo di battaglia del loro nuovo disco; con questa il pubblico comincia a scatenarsi e a ballare e molti la canticchiano. Con “Unnecessary Song” gli Ash Code danno ancora una sana lezione di come si usano le oscure atmosfere. E’ il momento di “Drama” che ti riporta indietro nel tempo, rammentando i primi Ministry e qualcosa dei Sisters of Mercy. Con “I Can’t Escape Myself” i tre ragazzi omaggiano i The Sound con una cover riuscitissima e in questa veste ancora più oscura il pezzo rende benissimo. Si sentono le note della titletrack del loro nuovo disco, l’ adrenalina sale (insieme alla birra), il pubblico si muove sul posto, qualcuno improvvisa una danza personale, gli Ash Code hanno fatto di nuovo breccia. Si chiude lo show con la quiete “North of Bahnhof” e l’ immancabile e frenetica “Dry your Eyes”. Insomma non c’è da lamentarsi di questo evento degli Ash Code; sono stati bravi, hanno emozionato il pubblico ed hanno fatto passare una serata davvero piacevole. Credo che sia un gruppo da tener seriamente in considerazione; hanno voglia e passione e il loro genere lo conoscono bene.
Tony Hadley 17/07/2014
Chi pensava di trovarsi davanti a un viaggio malinconico negli anni Ottanta si è dovuto ricredere dopo aver assistito ad oltre novanta minuti di puro spettacolo. Tony Hadley e la sua band hanno dato il meglio, senza sbagliare un solo colpo e la cosa era già evidente dal pomeriggio, dal soundcheck (aperto al pubblico essendosi svolto in piazza, la stessa del concerto serale ovviamente) , da quando hanno provato estratti da dieci canzoni di cui ben nove degli Spandau Ballet. L’aspettativa in città per l’evento era davvero tantissima, perché tutti i teatini erano consci di essere forse davanti al più grande esperimento di marketing territoriale da quando alla Civitella si esibì Patti Smith con la sua band nelle cui file svettava un certo Tom Verlaine alla chitarra. Un esperimento riuscito certamente a pieni voti visto che c’erano molte persone venute da fuori regione (Puglia e Marche prevalentemente) e qualcuna persino dall’estero (ho conosciuto due coppie russe che sono venute a Chieti solo ed esclusivamente per l’evento).
L’auspicio è quindi che non sia stato un caso unico e che l’anno prossimo la Settimana Mozartiana porti (almeno) un altro grande artista dello stesso calibro. Tony Hadley ovviamente non ha più vent’anni come quando uscì il primo singolo degli Spandau Ballet, “To Cut a Long Story Short”, riproposto anche a Chieti dopo l’iniziale “Feeling Good” (inedita), ma la voce ha la stessa potenza di un tempo. Del resto c’era persino chi lo considerava il miglior cantante degli anni Ottanta, forse erroneamente, perché a mio parere c’erano Jim Kerr dei Simple Minds, Bono degli U2, Mike Peters degli Alarm, Stuart Adamson dei Big Country che in quegli stessi anni dimostravano al mondo intero di cosa erano capaci ma preferisco non andare oltre in questo discorso anche per non incappare nelle ire di qualche fan sfegatata. Il concerto prosegue con un grazie, grazie in perfetto italiano (del resto Tony ha sempre avuto un grande feeling col nostro paese) e con quella “Higly Strung” che conquistò la posizione numero quindici nel Regno Unito. “Somebody Told Me”dei Killers e “My Imagination” (estratte dal suo ultimo lavoro Live from Metropolis Studios) seguono a ruota ma solo per fare da introduzione a quella “I’ll Fly for You” che decretò il successo dei “rivali dei Duran Duran” in Italia.
“Only When You Leave”, per chi lo ricorderà, era la canzone che apriva “Parade”, da molti considerato il capolavoro degli Spandau Ballet. “Take Back Everything” è invece un brano tuttora inedito ma di cui Tony ha già parlato in alcune interviste essendo uno dei pochi già ultimati in vista di un prossimo nuovo album in studio. “Round and Round” uscì al tempo anche in una speciale edizione solo per noi italiani in vinile 12” che includeva cinque foto, un poster e due cartoline e risentirla live fa un certo effetto. Oggi tale disco ha un valore commerciale bassissimo ma nonostante ciò rimane uno degli oggetti più amato a livello mondiale dai collezionisti di musica degli anni Ottanta peril suo prezioso contenuto. Con “With or Without You” (A fantastic song, the best from U2) si giunge alla seconda metà del concerto, quella parte forse più affascinante che comincerà altri grandi classici quali “True”, “Through the Barricades” e “Lifeline”.
Tutti singoli di grande appeal nei confronti dei presenti che però sono consci che lo spettacolo si stia avvicinando alla fine. “Every Time” e “Somebody to Love” dei Queen mettono in risalto la voce di Tony, sempre al top, anche se il confronto con Freddie Mercury non reggerebbe per nessuno. Lui rimarrà per tutti il più grande entertainer che il Rock abbia mai avuto e difficilmente potrà essere superato in futuro. Del resto lo stesso Hadley lo chiama one of the best best best singer ever, a lovely man, a good friend…
La scaletta prosegue con una cover che spiazza un po’ tutti… “Rio” degli amici / rivali Duran Duran! Peccato solo che Simon Willescroft (attuale sassofonista del gruppo) non fosse presente sul palco per eseguire il classico assolo insieme al basso. Chiuderanno la serata “Gold” e la cover degli Stereophonics “Dakota” (che potrete ascoltare sempre sul Live from Metropolis Studios). Peccato per l’assenza di John Keeble, la sua presenza avrebbe dato quel qualcosa in più allo spettacolo, ma per fortuna è stato egregiamente sostituito da Simon Merry che tra l’altro era per la prima volta dietro le pelli con Tony Hadley & co!!! Per un giorno Chieti è stata un po’ la capitale della musica ma la Settimana Mozartiana è un evento che quest’anno offre anche tanti altri eventi di grande livello quali i concerti di Richard Galliano e Uri Caine per una sette giorni davvero intensa in cui vale la pena immergersi a pieno ritmo.
A Night Like This Festival
Metti un paesino di duemila anime vicino a Ivrea nel Canavese, magari con vicino un rilassante lago; mettici degli instancabili organizzatori e aggiungici tutti i volontari che riesci ad immaginare, tre palchi, quasi tremila persone, una buona dose di cibo e litri di birra e soprattutto, the last but not the least, una line up notevole composta da quasi venti band. Bene, ora immagina tutto questo calderone fotonico concentrato in un unico giorno. Sembra impensabile ed invece questo è successo veramente il 19 Luglio a Chiaverano, dove si è tenuto per il terzo anno consecutivo A Night Like This Festival. Un’edizione partita con grandi aspettative, che non ha deluso le migliaia di persone che hanno affollato il borgo piemontese, grazie ad una formula vincente basata principalmente sul binomio locale/internazionale. Il risultato è stata una line up varia ed equilibrata che ha miscelato i talenti del territorio come gli Yellow Traffic Light, gli Invers, i Niagara e i più conosciuti Nadàr Solo, a gruppi di respiro e peso internazionale con Austra, Slow Magic e The Soft Moon, senza ovviamente dimenticare nomi ormai affermati del panorama italiano come Soviet Soviet e His Clancyness. Un grande flusso musicale ininterrotto, un super tetris di gruppi e palchi, con incastri studiati per evitare eccessive sovrapposizioni, e non lasciare mai a digiuno lo spettatore. I live si sono avvicendati dalle 19.00 fino a notte inoltrata, seguiti da diversi dj set. Un vero tour de force per instancabili ascoltatori. Sul palco principale, chiamato il palco delle Colline, l’inizio è stato tutto rock e schitarrate con gli Wemen di Carlo Pastore e i Nadàr Solo. Conclusa l’esperienza Rock and Roll è stato il momento per l’attitudine Post Punk di prendere il sopravvento con l’energia diretta dei Soviet Soviet, una garanzia, e quindi la potente chiusura dei fratelloni americani, The Soft Moon, con il loro Post Punk dalle forti sfumature New Wave. Il tutto perfettamente alternanato con le sonorità Pop psichedeliche degli Hys Clancyness, non in formissima in questa occasione, e quindi con le atmosfere sintetico-siderali degli Austra, con la strabiliante voce di Katie Stelmanis, che all’improvviso ci catapulta nel bel mezzo di un rito ancestrale, con una perfomance impeccabile.
Il secondo palco, quello dell’esploratore, è stato fin dall’inizio, ad eccezione degli oscuri rockettari, nonché ottimi, Invers, un crescendo di synth giocosi e psichedelie, dalle elettro sperimentazioni dei Niagara, al Pop fresco e giovane dei Love The Unicorn, fino al momento dell’esibizione di Slow Magic che, indossata la usuale mascherona, nonostante si stesse sciogliendo, ha presentato un set immaginifico fatto di suoni, emozioni e accostamenti inusuali. Probabilmente lo spazio allestito e la mancanza di un’ambientazione hanno reso il tutto meno impattante ed esperienziale, ma il pubblico si è comunque dimostrato caldo e partecipe. Il terzo palco, quello del quieto vivere, lo spazio dedicato a emergenti e nuove proposte, è stato l’unico ad avere alcuni spiacevoli problemi tecnici dovuti a cali di corrente, che però non hanno fermato le band che si sono susseguite. La proposta in questo piccolo angolo ha spaziato molto; per citarne alcuni, dal Rock New Wave dei MasCara in set semi acustico, ai suoni più Folk e Blues dei Pocket Chestnut e al cantautorato di Johnny Fishborn. Dopo dodici ore di musica, e qualche zanzara di troppo, non si può che essere soddisfatti di aver partecipato a un festival così. A voler tirare le somme credo che l’anima di questo evento si possa facilmente riassumere nel vedere sullo stesso prato a pochi metri di distanza la tipica coppia residente, lei ben vestita e truccata, lui un po’ meno, con mini cagnolino annesso e dei giovani ragazzi svizzeri muniti di zainoni e bicchieroni di birra, godersi lo stesso spettacolo, sotto lo stesso cielo e davanti allo stesso palco. Speriamo che festival così continuino a essere presenti e portare grande musica. nel nostro paese.
The Rolling Stones – Roma – Circo Massimo 22/06/2014 Il Reportage
The Rolling Stones – Roma – Circo Massimo 22/06/2014 La Photo Gallery
Normalmente, quando si fa un live report ci si astiene dall’analizzare anche alcuni fattori logistici legati all’organizzazione, ma quando il nome del gruppo che si esibisce in concerto è The Rolling Stones allora bisogna proprio cambiare incipit analizzando i pro e i contro relativi a un evento di tale portata internazionale.
Sicurezza: purtroppo tocca dire che ha lasciato molto a desiderare in quanto all’interno dell’area sono stati introdotti diversi oggetti “proibiti” tipo ombrelli, bottiglie in vetro (mentre a me è stato possibile introdurre appena una bottiglia di acqua ma senza tappo!), reflex digitali gigantesche (se lo sapevo…), telecamere e chi più ne ha più ne metta. Se davvero erano 1000 gli steward presenti (si vocifera anche di 300 forze dell’ordine, ma probabilmente queste erano di più),cosa facevano durante i controlli agli ingressi e perché all’interno dell’area scarseggiavano in quanto a presenza?
Disposizione degli spazi all’interno dell’area concerto: ancora ci si chiede il perché decine di gazebo con stand che ostruivano la visuale disposti a caso all’interno del prato. Normalmente, in manifestazioni simili, tali strutture vengono messe solo ai lati del palco mentre qui, vi assicuriamo, erano disposte in maniera casuale e tale da non far vedere nulla a chiunque capitasse dietro di loro anche a decine di metri di distanza. Non sono mancate quindi le polemiche all’uscita dei fan che hanno fatto notare che gli unici che hanno potuto usufruire di una visuale perfetta sono stati i pochi e fortunati possessori dei biglietti del Parterre Gold (che ovviamente avevano un costo nettamente maggiore rispetto a quello del posto unico).
Bagni: in quanto a numero erano davvero tanti e per fortuna sono stati sufficienti a reggere l’impatto di oltre 70000 presenti che ne avrebbero avuto bisogno nel corso della giornata. Peccato però che per raggiungerli ci voleva davvero molto tempo.
Trasporti: giustissima la scelta di chiudere la fermata locale della metropolitana, perché così gli spettatori sono defluiti in maniera più veloce, per la felicità di tutti, divisi fra le fermate di Piramide e Colosseo.
Audio: suono perfetto percepibile ovunque (merito anche di un gran lavoro fatto dai tecnici nel primo pomeriggio durante il sound check, che ovviamente abbiamo potuto ascoltare solo da fuori dell’area, tra l’altro coperta interamente da teli alti circa due metri).
Affitto dell’area: l’organizzazione pare abbia pagato circa 8000 euro al Comune di Roma, ma, come giustamente ha fatto notare il sindaco della città in un’intervista a RaiNews24, l’evento ha fruttato ben 25 milioni di indotto economico in alberghi, taxi, ristoranti, bar ed ha anche ovviamente assicurato un ottimo ritorno d’immagine a Roma. Una perfetta operazione di marketing territoriale quindi.
Biglietti: venduti sul circuito Ticketone, su Point Service S.r.l. (Greenticket) su Postepayfun e su qualche altro canale in limitatissima quantità (ad esempio sito del Corriere della Sera), sono stati i più economici del tour europeo nonostante venissero 78 euro + diritti di prevendita. Evento subito esauritissimo, tanto che alcuni hanno cercato di accaparrarsi il prezioso tagliando di ingresso usando circuiti alternativi, nonostante la Di and GiSrl., organizzatrice dell’evento insieme al Comune di Roma e al Postepay Rock In Rom, avesse comunicato nei giorni scorsi che alcuni biglietti erano stati falsificati. Ovviamente la ditta si era anche attivata presso la competente Autorità giudiziaria per far luce sulla vicenda.
Servizi extra: è stata lanciata la App gratuita per Android e Iphone“Room on fire” con le notizie, aggiornate in tempo reale sul traffico, il meteo, eventuali variazioni di programma ed altre informazioni utili, coi percorsi per raggiungere il Circo Massimo e la mappa per orientarsi nell’area, con l’indicazione dei punti notevoli, dalle fermate dell’autobus, ai parcheggi, alle uscite di sicurezza, e tanti extra, con approfondimenti sui Rolling Stones, sul supportact John Mayer, sul Circo Massimo e la photo-gallery del concerto.
Eventi in contemporanea: qualche polemica pure per lo svolgimento in contemporanea di una delle due date italiane dei Pearl Jam (a Trieste), ma chi voleva assistere allo show del gruppo di Seattle in fondo poteva anche optare per la data del 20 giugno allo stadio San Siro di Milano. Inutile quindi quest’ultima diatriba!
Potremmo dilungarci su questi e mille altri aspetti, ma il nostro compito è quello di dedicarci prettamente all’aspetto musicale e quindi inizieremo col sottolineare che il cosiddetto supporter John Mayer, vestito con una shirt bianca, in realtà ha dato vita a un acceso miniconcerto di enorme qualità in cui hanno trovato spazio molte canzoni vecchie (tra cui “Gravity”, famosa hit del 2006, che ha chiuso l’esibizione) e le sole “Wild Fire” e “Dear Marie” dall’ultimo disco del cantautore statunitense, Paradise Valley del 2013. Da sottolineare che la sua è stata l’unica esibizione in suolo italico e che per ora non sono previste ulteriori date nella nostra penisola. Qualche minuto prima delle dieci è poi il turno degli attesissimi The Rolling Stones, trainati dal solito Mick Jagger che si presenta inizialmente con una giacchetta color oro e che saluta la folla dicendo “Che bello tornare a Roma!”. Durante l’intero concerto continuerà a ridere e scherzare col pubblico in italiano, soprattutto durante la presentazione della band, in cui si rivolge al suo amico Ron Wood dicendo “Ronnie non mangia abbastanza pasta…” e a Charlie Watts con un simpatico”alla batteria Charlie Roberto Watts“.
Nella scaletta romana pesanti sono state le assenze di hit quali “Angie”, “Harlem Shuffle”, “Lady Jane”, “Let It Bleed” e “Paint it Black” ma ciò era inevitabile considerato che gli Stones hanno “solamente” 50 anni di carriera alle spalle da coprire. Comunque sia andata, questo è stato sicuramente l’evento Rock dell’anno (c’è chi azzarda persino del secolo!) essendo stata l’unica tappa italiana del tour mondiale “14 On Fire”. C’è stato persino chi ha dormito davanti agli ingressi del Circo Massimo per accaparrarsi la migliore location possibile, mentre centinaia di fan hanno preferito presentarsi davanti all’hotel dove alloggiava il gruppo, essendoci stata una fuga di notizie nei giorni scorsi su tutti i mass media nazionali. Le grandi sorprese della giornata sono state l’esecuzione perfetta di “Respectable” (brano scelto tramite referendum online dai fans) con John Mayer ospite e “Miss You” dove uno straordinario Darryl Jones (ormai da anni a fianco della band) ha dato il meglio di sé stesso al basso con uno stupendo assolo introdotto da Mick con un “Darryl, come on…Come on, do it!”. Peccato solo per l’assenza di Bruce Springsteen, di cui si era vociferato da giorni un cameo sul palco dopo la sua apparizione sul palco a Lisbona dove ha cantato “Tumbling Dice”. Per ora però preferiamo ricordare la bandana giamaicana di Keith Richards, l’entusiasmo con cui Charlie Watts ha picchiato per tutto il concerto sulle pelli e sui piatti della sua batteria e la chitarra graffiante di Ron Wood e “ci si accontenta” di aver rivisto un Mick Taylor (nella band dal 1969 al 1974) sempre in ottima forma nonostante qualche chilo ed anno in più.
Tra il pubblico accorso diversi vip quali Livio Magnini dei Bluvertigo, Zucchero, Edoardo Bennato, Alex Britti, Beppe Grillo (leader del Movimento 5 Stelle), il giornalista Gianni Minà, Roberto D’Agostino, Lucrezia Lante Della Rovere, l’attrice e conduttrice televisiva Giorgia Surina, Emanuele Filiberto, Giorgia, Paola Cortellesi, Sabina Guzzanti e il premio oscar Paolo Sorrentino. E c’è già chi ha incoronato Mick Jagger, che ha salutato con un semplice “Grazie. Ciao Roma, ciao Italia”, ottavo re di Roma giurando che gli Stones siano eterni come la Caput Mundi perché senella valle del Circo Massimo fosse avvenuto il mitico episodio del ratto delle Sabine, in occasione dei giochi indetti da Romolo in onore del dio Consus, oggi è stato tempo di un altro avvenimento che rimarrà per sempre nella storia. Poco importa alla fine se gli Stones non erano dei gladiatori, in fondo hanno acceso l’arena lo stesso. Alla fine anche un piccolo spettacolo pirotecnico dal palco.
Un ultimo aneddoto: Mick Jagger, pur non indossando la maglietta della nazionale di calcio come nel 1982, ha azzardato un pronostico sui Mondiali di Brasile 2014 “L’Italia vincerà la Coppa del Mondo, eh? In bocca al lupo per martedì. Penso che la partita finirà 2-1 per Italia”. Avrà avuto ragione sulla squadra allenata da Cesare Prandelli?
Primavera Sound Festival 2014 | Day 2
Sveglia di nuovo alle 15. Il fuso orario di questo appartamento nel cuore del Borne è ormai irrimediabilmente allineato a quello di Bangkok. Dei fantomatici autobus extra previsti per questi giorni tra il Forum e il centro ieri sera se n’è visto solo uno, che ci ha portati a casa alle 6.30 di stamattina. Tipo che a sapere di dover rimanere in strada piuttosto mi sparavo tutto il set di Jamie XX. Un tempo di merda ci accompagna fino al Forum, vestiti da turisti scemi tra ombrelli, improponibili poncho di plastica e messe in piega andate a puttane, che ho l’aspetto di un cocker dopo il bagnetto. Il diluvio sembra non voler affatto smettere e ogni momento vuoto è buono per riempirlo di birra, magra consolazione sotto gli stand al coperto, quando a un tratto si leva un grido collettivo di giubilo al veder spuntare dal mare un grosso nitido arcobaleno che tutti si affrettano ad instagrammare per poi correre sotto ai palchi. Arriviamo ai piedi dell’ATP giusto in tempo per gli ultimi due pezzi dei Loop. Una delle carte vincenti che da qualche anno a questa parte ha elevato il Primavera Sound al rango di grande rassegna è una scelta sapiente e variegata nel comporre la line-up, per genere ma anche per epoca, puntando molto sulle gradite reunion. Neopsichedelia in pieno giorno? Le chitarre graffianti e ossessive sembrano giungermi dimezzate da un palco dall’allestimento minimal e alla luce del seppur tanto atteso sole. La verità però è che a volte ci facciamo fregare dalle aspettative, perché al di là di quello che avevo immaginato ciò che ascolto in questi dieci minuti mi dice che questo dev’essere stato un gran bel live.
È ora di tornare verso l’area sud del Forum. Mentre il sole torna a splendere ci dirigiamo verso l’Heineken e le Haim. Ecco Big Jeff che mi sorpassa a destra correndo con in mano un panino di dimensioni proporzionate alla sua stazza e il sorriso stampato che mi contagia immediatamente come la prima volta. Se non sapete della mia prima volta con Jeffrey molto male, perché vuol dire che non avete letto questo. Durante il live ho un moto di compassione per quel poveretto di Dash Hutton, batterista e unico componente maschio della band, che è anche l’unico a non portarne il nome come cognome. Me lo immagino in tour con queste tre leonesse che sono le sorelle Haim, ignaro alla partenza che la sua è la stessa sorte di un quattordicenne che si iscrive all’Istituto d’Arte o qualsiasi altra scuola superiore covo di femmine incazzate. Mentre sogghigno e mi produco in queste inconfessabili riflessioni la mia amica Lorenza mi fa notare che le espressioni facciali di Este mentre si diletta in iperbolici giri di basso sono decisamente più divertenti. Non sono qui per loro in realtà. Sono solo in attesa di quello che accadrà tra un’ora sul palco di fronte (io che nella vita non ho mai concesso a nessuno di vedermi arrivare con cinque minuti di anticipo). Eppure questo Pop Rock mi coinvolge. Ci sono molte valide tracce in questo album di esordio, e si uniscono a tutta la presenza scenica che ieri un’altra line-up al femminile su questo stesso palco non è riuscita a tirar fuori (se non sapete nulla di ieri e delle Warpaint arriva la seconda ammonizione, perché vuol dire che non avete letto neanche quest’altro). Ops. L’app mi ricorda che tra mezz’ora al Rockdelux ci sarà il Noise di Body/Head, alias Kim Gordon e Bill Nace. Amen. Da questo momento in poi non vorrò ascoltare alcun tipo di trillo che possa rovinare il mood zen che ho assunto oggi aspettando un paio di appuntamenti essenziali.
Era il 1991 quando usciva quello che fu l’album di esordio degli Slowdive. Io avevo 7 anni, e per Natale mi ero fatta regalare Dangerous di Michael Jackson, che il mio insegnante di danza metteva su “Remember The Time” per farci fare i pliés di riscaldamento, ed io quella musica la volevo sempre con me, dentro a un mangianastri rosa a forma di borsetta con tanto di tracolla, che se ce l’avessi ancora farei invidia a tutti gli hipster cultori di tecnologia analogica dall’aspetto kitsch. Ho incontrato i sussurri Shoegaze di Neil Halstead e Rachel Goswell solo molti anni più tardi, quando loro erano già meteore di un mondo discografico che non esiste più ed io avevo età anagrafica e necessità emotive adeguate per provarne il bisogno. Come tutte le cose che accadono quando ormai è troppo tardi, ho consumato Souvlaki e ancor di più Pygmalion (quell’ultimo album a lungo incompreso da una industria della musica che nel 95 impazziva solo per il Brit Pop) con quella impropria sensazione di nostalgia che si ha di epoche per cui non potresti provarne, dato che non ne hai fatto parte. Questo lungo preambolo è al solo scopo di dare una vaga idea del mio stato d’animo nell’apprendere del loro ritorno, una specie di seconda insperata opportunità. Forse neanche la stessa Rachel se l’aspettava più. Sale sullo stage Sony con un sorriso dolcissimo e un velo di commozione, che trattiene a stento sulle prime note di “Crazy for You” davanti a un pubblico che le accoglie estasiato. Mi intrufolo come un sorcio e guadagno la prima fila, e appesa alle transenne mi godo tutto il live senza dire una parola mentre compio l’atteso viaggio nel tempo. Rachel è discreta ed elegante, e non ha bisogno di ricorrere ad alcun tipo di escamotage scenico per assolvere al suo ruolo di front-woman. “Souvlaki Space Station” è davvero un tuffo lento, inquieto e intenso, che mi fa dimenticare ogni frenesia di questi giorni. Le giustapposizioni di chitarre di “When the Sun Hits” mi rapiscono. Credo proprio di avere la faccia di una che in questo momento non vorrebbe essere in nessun altro posto, ma in realtà non è così, perché ho come l’impressione che non sia questo il luogo adatto per godere dei dettagli di cui vivono gli Slowdive, quelle sottigliezze essenziali e impercettibili schiacciate dalla potenza dell’impianto. La cover di “Golden Hair” che rispolverano in chiusura lascia senza fiato. Ma io volevo “Alison”. Ecco, l’ho detto. E ora la smetto di ammorbarvi con i dettagli di questa specie di estasi mistica, che è ora di cena.
Oggi siamo in modalità economy quanto saggia, perciò ci siamo portati da casa qualche metro di baguette ripiena di tortilla. La decisione che quest’anno il Primavera non me lo sarei perso è stata determinata in buona parte dalla presenza dei Pixies. Nel frattempo però sono successe un po’ di cose, come l’uscita di Indie Cindy, la divina provvidenza che nel redigere la scaletta li ha piazzati appena prima dei National, e il fatto che Lorenza, che da gennaio non faceva altro che postare pezzi di Doolittle su Facebook, alla fine si è innamorata anche lei di Matt Berninger (e fidatevi che nessun uomo al mondo prima di lui era riuscito a scalfirle il cuore). Insomma, finisce che a Francis e soci sul palco Heineken concediamo giusto di farci da sottofondo mentre noi al Sony ci ingozziamo con la cena al sacco. Un sottofondo di tutto rispetto, ma di più non saprei dire, che sono ancora un po’ perplessa riguardo a quest’ultimo nuovo album che poi tanto nuovo non è, e soprattutto sono così presa al pensiero di ciò che accadrà tra poco, che il check della batteria di Bryan Devendorf che copre “Where is My Mind?” non mi infastidisce neanche. È il 2005 quando i National, dopo l’uscita di Alligator, ancora ignoti ai più nel vecchio continente, si esibiscono a L’Aquila, sul palchetto più sfigato tra i due allestiti alla Festa dell’Unità. Posso dire con certezza che io c’ero, ma sono altrettanto sicura di essere stata sotto il palco sbagliato. Avrò espiato questa colpa al quindicesimo live di Matt Berninger che vedrò, e all’oggi la strada è ancora lunga.
Come di consueto, Matt sale sul palco visibilmente ubriaco. Non dice nulla ma canta in modo impeccabile. Sono i gemelli Dessner che tra un brano e l’altro si sorridono con aria rassegnata del tipo “ci risiamo anche stavolta” e rivolgono a turno qualche parola al pubblico. Lui vaga sul palco col suo gomitolo infinito di cavo, sorseggia cubatas, e ogni due brani fracassa a terra un microfono. “It doesn’t make its job!”, dice, ma non è vero, è tutto perfetto, e se state pensando che il tasso alcolico infici la sua performance sappiate che non è affatto così (anzi, inizio ormai a supporre che sia una condizione necessaria per la riuscita). I brani di Trouble Will Find Me il pubblico li intona all’unisono con Matt, ma con mio enorme sollievo questo non accade con il resto del repertorio (no vabbè, mi sa che “Terrible Love” la sanno tutti). L’inconfondibile preludio archi e batteria di “Squalor Victoria” è la consueta botta di adrenalina, poi mi sciolgo nella voce calda di “About Today”. Matt si lancia nelle sue note peripezie sul palcoscenico, si arrampica sulle casse e poi si lancia tra la folla, senza smettere un attimo di cantare. Un paio di ospitate sul palco (tra cui Justin Vernon, chitarra e voce sulla coda della struggente “Slow Show”) inevitabilmente passano quasi inosservate. Matt catalizza ogni sorta di attenzione. L’impressione che si ha è che quest’uomo sia nato per fare questo, con una naturalezza da frontman che non ricorre ad alcuno stratagemma per arrivare ad un pubblico che gli unici effetti scenici a cui assiste sono il vederselo saltare addosso o al massimo il rischiare di venir strozzato dal chilometrico cavo del suo microfono. Un esercito di gente cool che inspiegabilmente impazzisce per un tipo vestito da ragioniere? Ebbene sì, e questo insolito fenomeno mi suggerisce una chiave di lettura di tutto il percorso artistico dei National: l’impasto sonoro, basi melodiche ma sincopate a cui si aggiungono arrangiamenti virtuosi e mai scontati, risulta così efficace proprio grazie al suo essere intimamente classico, nell’accezione del termine che descrive ciò che è al riparo dal rischio di tramontare in quanto non è nato sull’effimera scia di una moda, e dell’apparire modaiolo non si è mai preoccupato.
Sì, lo so, ora ci sono quegli impronunciabili dei !!! ma io ho giusto le forze per affondare la faccia in una porzione di noodles allo stand thai e cercarmi un taxi. Domani sarà la più lunga delle giornate di questa fugace Primavera.