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Patti Smith performs Horses 27/07/2015

Written by Live Report

Patti Smith performs Horses @ Flowers Festival Collegno (TO) – 27/07/2015

Vedere un concerto di lunedì sera è una pratica tanto inusuale quanto liberatoria. Rende più piacevole l’inizio settimana e meno noiosa la presenza pesante della domenica. Vedere poi uno dei più suggestivi concerti della tua vita dietro casa tua, in una cornice come quella del Flowers Festival, rende il tutto memorabile.
Ad aprire le danze ci pensa la giovanissima Erica Mou che da sola con la chitarra fa suonare un’orchestra mentre ci bacia, tanto per citare una delle sue dolci e soffici canzonette. Non c’è trucco e non c’è inganno, semplicemente Erica con la sua chitarra acustica crea ritmi e arpeggi, mixati egregiamente dal suo piedino sulla loop station. Coraggio e una vocina che sotto sotto ci grida in faccia tutte le sue emozioni.
Dopo il breve set della cantautrice pugliese aspettiamo appena mezz’ora e sul palco salgono quattro uomini canuti e una donna, più canuta di tutti loro. Il pubblico non è numerosissimo ma per Patti Smith e la sua band questo non è certo un buon motivo per abbassare la guardia e per non dare la giusta veste ad uno degli album fondamentali per la storia della musica popolare. I cavalli di quarant’anni fa ricominciano il loro cammino con “Gloria”: epica, teatrale, una preghiera al cielo stellato che ricopre il palco. Tutti fermi, tutti ammutoliti, a parlare ci pensa la Sacerdotessa (ora capisco perché viene comunemente chiamata così e mai appellativo fu più azzeccato). Jesus died for somebody’s sins but not mine, una sentenza di una potenza disarmante, già sentita miriadi di volte su disco, ma che dal vivo prende vita e pare fredda come una lama che trafigge la nostra pelle rilassata. Sarà un lunedì sera forte, intenso, magico, avvolgente come la tragica danza Reggae di “Redondo Beach”. I cavalli iniziano a galoppare dopo la solenne marcia di “Gloria”. Galoppano per scappare, per fuggire via dalle tenebre, per poi viaggiare in un’altra dimensione con la jazzaggiante “Birdland”. Parole e musica si fondono in un’eterna poesia che vaga tra le nostre orecchie. Il senso di smarrimento è forte, il senso di impotenza davanti a tanta bellezza è immenso. Patti ha quasi settant’anni e si dimena come una ragazzina che vive per i suoi ideali e per i suoi sogni, la sua lotta interminabile è pitturata poi da una band spaventosa. A comandare la ciurma un eccelso Lenny Kaye, da sempre insieme a Patti, capace di accarezzare e poi martoriare la chitarra che è, a seconda del mood del pezzo, il suo amore, la sua disgrazia ma anche il suo organo sessuale.
“Free Money” è violenza pura e grande Rock’n’Roll prima del lato B di Horses aperto con “Kimberly”, governata da un bel basso pulsante e di nuovo quel Reggae ossessivo . La voce di Patti è prepotente come quarant’ anni fa, una foga che ci spacca le orecchie. Sinceramente non saprei dire se ci sono state pecche tecniche, stecche, cali di voce o cazzate del genere. Quelle le posso sentire se il mio cervello è attivo e presente. Qui sono stato immerso in uno stato fuori dal razionale, la musica mi ha rapito e in questa dimensione nulla sembrava fuori posto. “Break It Up” è un inno alla libertà e la voce della signora Smith trema leggermente quando ci incoraggia ad aprire le braccia e sentire lo spirito di Jim Morrison che vaga nell’aria. La terra zozza e la polvere di stelle si amalgamano in “Land”, onirica e realista, tirata all’inverosimile. Dieci minuti di incastri ritmici, sali-scendi continui, passaggi che vanno dai richiami Soul di “Land of 1000 Dancers” alla furente parte di “La Mer(de)”, per finire nei cori disperati  di “Gloria”, ripresa con enfasi da un pubblico che è vero portento questa sera (per fortuna ho visto anche meno cellulari alzati del solito!). “Land” è un capolavoro e non si discute, qui i cavalli vanno a tutta velocità per poi rallentare increduli davanti a questo fiume di parole così ribelli e così fuori dagli schemi. Joey Dee Daugherty, altro storico compagno di Patti alla batteria, inventa ritmi e suona nervoso e dolce, con una versatilità che raramente ho incontrato. Per altro Joey si improvvisa pure bassista nell’ultima perla di Horses. “Elegie” è una canzonetta a detta della Sacerdotessa, dedicata a suo tempo a Jimi Hendrix. Ora, ci dice Patti, tutti noi abbiamo perso qualcuno di caro e con questo ci rende parte attiva della canzone, che nel mezzo regala un saluto ad altri grandi amici del mondo della musica, scomparsi anche loro il questi quarant’anni. E così sono applausi a scena aperta per Lou Reed, Joe Strummer, The Ramones al completo nella loro prima formazione e tantissimi altri miti della musica americana.

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Horses è concluso, i cavalli rallentano per poi fermarsi a guardare. E così l’ultima parte di concerto, che pensavo potesse avere il sapore di greatest hits, ci regala perle e non perde affatto il filo logico. “Privilege (Set Me Free)” sembra essere la continuazione di “Break It Up” con quella frase iniziale I see it all before me: the days of love and torment, the nights of rock’n’roll. Tanto Jim Morrison da farlo ricordare ancora una volta. Poi quella imprecazione: goddamn, così violenta e viscerale che gela la spina dorsale. Patti poi esce dal palco e la scena rimane sulla sua band che intona un medley dedicato ai Velvet Underground. Quarant’anni di Horses e cinquanta di Velvet Underground dice Lenny Kaye con il venticello di Collegno tra i capelli lunghi e bianchi. A cantare non solo lui ma anche Tony Shanahan e il figlio di Patti Jackson Smith, abilissimi anche nei numerosi cambi strumento durante il set. “Rock’n’Roll” è una pura sassata, la band poi si rilassa ma gli spigoli rimangono vivi in “I’m Waitin’ For The Man” cantata a squarciagola da tutto il  Flowers. In “White Light, Whit Heat” Patti risale sul palco a battere le mani e ballare, le star le lasciamo a casa questa sera, solo ottima musica e tanto, ma proprio tanto, da imparare.
“Because The Night” è commovente, delicata, dedicata al marito scomparso ormai vent’anni fa. La rabbia però ritorna nell’immensa voglia di ribellione di “People Have The Power”. Alla fine Patti intona “My Generation”, inno immortale che pende dalle sue labbra. Una canzone che farebbe ridere addosso a qualsiasi musicista vecchio. Ma lei no, la fa sua, la rende viva e vegeta. Rivive così lo spirito di Keith Moon e la Sacerdotessa onora un altro highlander del Rock come Pete Townshend. Intanto la signora, con un piglio tanto divertente quanto sadico, masturba la chitarra, staccandogli tutte le corde ad una ad una con precisione chirurgica.
La musica di Patti Smith è ancora bella e dannata, proprio come la sua New York, come i suoi vestiti eleganti ma in qualche modo Punk, come i suoi sputi sul palco, come i sorsi di thè e gli occhiali da vista indossati per leggere poesie sul palco, come i suoi occhi vecchi ma per niente stanchi e come il suo sorriso rassicurante. Fonte di gioia, di vita, di saggezza e di una voglia indescrivibile di libertà.

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Jovanotti 26/07/2015

Written by Live Report

Jovanotti @ Stadio San Paolo (NA) – 26/07/2015

Domenica 26 Luglio per amor della mia ragazza mi trovo ad accompagnarla allo Stadio San Paolo di Napoli per assistere ad un concerto veramente emozionante: quello di Lorenzo Jovanotti. Non sono mai stato un grande stimatore del Rapper, questo perché da un lato il genere non è tra i miei gusti dall’altro ero attratto solo da qualche canzone del primo periodo dell’ artista ma comunque senza nessuna escandescenza. Arrivo allo stadio intorno le 19:30, l’ organizzazione è ottima e l’ attesa tra le file brevissima, c’è voluto circa mezz’ ora  per andare nel prato. Sono circa 36 mila le persone che sono andate ad assistere Jovanotti e pare che il numero cresce ogni volta che l’ artista calca il palco del San Paolo. Lo show di Jovanotti comincia in orario, le 21:00, ed è anticipato da un breve video che lo vede in una dimensione futura che lo porterà poi a Napoli. In questo video compaiono anche Ornella Muti nella figura di una bellissima donna che gli spiega come tornare indietro nel tempo e Fiorello nei panni di un presentatore che introduce il grintoso artista. Lo show parte gasato con l’ eccezionale “Penso Positivo”, il pubblico è in delirio e si scatena da subito insieme a Lorenzo. Dopo questa la canzone che ha fatto battere i cuori è stata l’ “Alba” e un altro momento di grandi cori è avvenuto con il suo nuovo singolo: “Sabato”. Ma il vero inferno si è scatenato con i suoi grandi classici, in primis, “L’Ombellico Del Mondo” a seguire: “Bella”, “L’ Estate Addosso”, “Serenata Rap” e “Un Ragazzo Fortunato”. Ci si stringe in un grande abbraccio sulle note di “L’ Astronauta” e “Le Tasche Piene Di Sassi”, quest’ ultima, una canzone che Jovanotti dedica alla madre, non a caso la sua espressione quando la cantava la diceva veramente lunga. Verso la metà del concerto arriviamo ad un altro momento commovente: sul palco salgono James Senese ed Eros Ramazzotti. I tre si uniscono per un grande tributo ad una stella di Napoli che si è spenta di recente: Pino Daniele. L’ artista ripete spesso dell’ eredità che ha lasciato Pino alla bella Napoli. Brividi sulla pelle ed occhi pieni di lacrime, questo è ciò che si vede nel pubblico Partenopeo sulle note di: “Yes I Konow My Way”, “Napule è”, “Quanno Chiove” e “A Me M’ Piac O Blues”. Tre canzoni cantate da Jova ed Eros con Mr. Senese che li accompagnava con il suo Sax perchè soltanto nella prima Eros era assente. Un omaggio dalle mille emozioni per ricordare anche quella fantastica tappa del 13 Giugno 1994 nello stesso stadio che vedeva appunto nel Tour Pino Daniele, Lorenzo Jovanotti, ed Eros Ramazzotti. Strepitoso è stato il mini video proiettato nel maxischermo, in cui alla fine delle canzoni dedicate all’artista Napoletano, si vede proprio Pino Daniele ringraziare tutti. Ramazzotti e Senese vanno via, lo spettacolo si dirige verso la conclusione e si vedono le prime facce tristi, nonostante si cominciassero a sentire gli altri grandi successoni di Jovanotti, si concepiva che questa notte magica stava volgendo al termine. Dunque pian piano con: “Tutto L’ Amore che Ho”, “La notte Dei Desideri” e “A Te” si arriva alla conclusione, chiaramente anche in queste canzoni il nostro Rapper è riuscito a far sognare e ad inviare messaggi d’amore e di fratellanza. Si chiude lo show al San Paolo con un grande boato grazie alla canzone “Ti Porto Via Con Me”: tutti a ballare e a rendere indimenticabili questi ultimi minuti di Jovanotti. In questa serata ho visto esibirsi sul palco un artista pieno di grinta e ideali, un ragazzo umile, onesto e con la gioia negli occhi. Non si fermava un attimo, saltellava, correva e ballava in tutte le direzioni del palco per tre ore di fila, un vero uragano insomma. Posso concludere dicendo di esser stato felice di aver assistito a questa sua magnifica data.

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A Night Like This Festival 18/07/2015

Written by Live Report

A Night Like This Festival @ Chiaverano (TO) – 18/07/2015
Foto di Andrea Bordoni

Quando arrivo alla location che ospita i tre palchi del A Night Like This Festival è ancora presto. Il posto è molto bello: appena supero l’ingresso trovo il Palco del Quieto Vivere, il più piccolo, dove sta per iniziare Giorgieness, che inaugura un po’ tutto il festival (se escludiamo il concerto per organo di Carlot-ta nella chiesa di S. Silvestro che però mi sono perso) e già l’atmosfera è magica, stanno tutti seduti sul prato e ascoltano con attenzione le canzoni chitarra elettrica e voce di questa specie di Maria Antonietta più soave e meno sopra le righe, con una voce che sa alternare il graffio e la carezza. Partiamo bene.

Faccio due passi per rendermi conto della situazione. Oltre il primo palco si stende il prato, circondato dalla zona ristorazione e da quella del mercatino, che mi pare tenuto bene e organizzato con gusto, but I’m no expert. In fondo c’è il Palco delle Colline, il grande palco centrale, mentre incuneato dentro uno stanzone con i banchetti degli artisti e delle etichette si trova il Palco dell’Esploratore. È divertente farsi due passi nell’erba e nella quiete e curiosare in giro. La situazione è tranquilla, in giro c’è ancora poca gente, più artisti che spettatori. Io tra l’altro ne riconosco pochissimi, giusto quelli con gli outfit più strambi: gli Abiku con le loro camicie sgargianti o Pernazza (già Ex-Otago e Magellano, qui con i Victoria Station Disorder), canotta e tatuaggi. Davanti a Giorgieness c’è Iosonouncane che si fuma una sigaretta serissimo, ma me lo devono indicare…

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Sempre in un clima di grande tranquillità inizia ad arrivare più gente e i palchi prendono vita. Da sotto il Palco delle Colline mi godo gli Albedo che pompano un bel Rock morbido ma allo stesso tempo compatto, senza sbavature, e nel frattempo comincia a piovere. Io sono felicissimo: meno caldo, meno zanzare, ma mi rendo conto che per il festival potrebbe significare meno affluenza. Mi concentro sul palco principale e scopro gli Stearica, trio torinese di Post-Rock strumentale che tiene con decisione il palco semplicemente suonando bene una sequela di brani energici ed esaltanti. Personale rivelazione del giorno.

Inizio a fare avanti e indietro tra Palco delle Colline e Palco dell’Esploratore, ignorando la pioggia e godendomi la frescura. Vado a sentire gli Abiku e il loro Pop-Rock cantautorale molto sixties che rapisce e convince, anche se a fine set i pezzi mi sembrano un po’ tutti uguali. La brevità delle esibizioni è il modo perfetto per gustarsi generi così diversi in una line-up che ignora i confini di genere provando però a creare un’atmosfera che oltre ad essere sincretica sia anche indirizzata ad un certo tipo di ascoltatore: curioso ma sereno, che ha voglia di divertirsi ma senza strafare. Sulla stessa linea i C’mon Tigre, sul palco principale. Farfisa, fiati, vibrafono, per un Etno-Jazz che è la colonna sonora perfetta di quella che a me pare la fine di un pomeriggio estivo super-rilassato ma che in realtà inizia a essere sera piena. Mi aspettavo un sound molto diverso e invece mi stupiscono portandomi in un viaggio molto chill intorno al globo. Promossi.

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Segue una mia pausa cibo in cui ho modo comunque di seguire i Girls Names, band dell’Irlanda del Nord che fa un Rock bello dritto e noiosetto. Si inizia a sforare leggermente gli orari del programma: sul Palco dell’Esploratore un loop ossessivo e delle inquietanti luci blu ci fanno attendere con ansia l’apparizione di Iosonouncane ben oltre l’orario d’inizio. Quando finalmente Jacopo Incani sale sul palco ci spiega di aver aspettato (inutilmente) che la band dirimpetto finisse di suonare, ma l’ora è tarda e si va comunque. Set continuo e intensissimo, Iosonouncane ci suona DIE usando loop, sample, campioni, fermo dietro un banco pieno di strumentazione e cantando con una voce che pare soprannaturale. A livello scenico risulta uno show abbastanza piatto, ma recupera ampiamente con le canzoni e soprattutto con l’interpretazione, fenomenale.

Da qui in poi la situazione si fa confusa: l’ora inizia ad essere tarda, ha smesso di piovere da un po’ e la gente inizia a sdraiarsi sull’erba a metà del prato per godersi i concerti al fresco della sera, sotto le stelle. La parte più bella del festival è probabilmente proprio questa: si sta rilassati, si ascolta musica ma senza ansie o ressa, l’atmosfera è tranquilla e la line-up si presta all’ascolto sognante e, se si vuole, anche meno attento. Io che soffro parecchio il caos e la folla qui mi trovo benissimo: la pioggia ha forse contenuto l’affluenza di pubblico, ma se anche fossimo stati il doppio o il triplo ci sarebbe stato spazio per il relax. Steso sull’erba ancora un poco bagnata mi lascio rapire dai ritmi elettronici dei Drink To Me, scatenati e divertiti, per poi rimanere a bocca aperta davanti al live folle e senza regole degli strepitosi Jennifer Gentle. La serata finisce col botto dopo l’una e mezza: salgono sul palco gli A Place To Bury Strangers ed è Rock vero, quello con le chitarre che volano di qua e di là dal palco, con pezzi densissimi e scuri, che ti caricano e ti aprono e ti fanno volare via lontano, quella strana psichedelia de facto che ti scuote le orecchie e la fantasia. Un ottimo finale.

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Che finale poi non è, perché raccolti armi e bagagli con estrema calma e concentrazione data l’ora e lo stato psicofisico mio e in generale del pubblico, ci si dirige al camping dove dalle tre all’alba ci sarà tra gli altri Capibara a mettere musica per l’afterparty. Se prima la situazione poteva essere confusa, da qui in poi mi muovo nel sonnambulismo più estremo: ho ricordo di uno spiazzo con la musica a palla dove si è ballato con pochissima grazia ma molto divertimento, e quando i primi raggi del sole hanno fatto capolino sono crollato in me stesso e ho raggiunto la tenda per farmi almeno un paio d’ore di sonno.

Non contenti, i ragazzi del festival hanno pensato di organizzare un simpatico post-evento a mezzogiorno del day after: affettuosamente denominato Lake Me Up, prevede tre mini-live acustici su un pontile che dà sul Lago Sirio. Idea scenograficamente eccelsa, è un po’ più scomoda di quanto mi sarei aspettato. Apre le danze Morning Tea, bravissimo chitarrista che ci dà dentro di fingerpicking, ma che ha lasciato la voce a casa e tiene maluccio il “palco” (che poi è un pontile, per l’appunto). Seguono Bea Zanin e Fade, che però non ho potuto seguire perché il caldo era troppo e… vi ho detto che il lago è balneabile?

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Insomma, dal mio punto di vista A Night Like This è stato un successo, una scoperta, un festival piccolo ma che di questa dimensione si bea e si fregia, come un gioiellino luccicante dove la natura si mescola alla musica lasciando spazio alla tranquillità e al divertimento in egual misura. Festival ce ne sono tanti, magari con nomi più altisonanti e con cartelloni-bomba, ma queste quasi ventiquattr’ore di leggerezza ed esplorazione hanno una loro identità che difficilmente troverete altrove. Da rifare assolutamente.

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We Are Waves 20/06/2015

Written by Live Report

We Are Waves @ Blah Blah, Torino, 20/06/2015

Breve e doverosa premessa: il mio primissimo incontro con i We Are Waves non avviene durante un live con tutta la band al completo, ma durante una festa di quartiere (quartiere Vanchiglia, Torino), in un negozio di dischi (Gravity Records) dedicato alle etichette indipendenti, dove la band ha suonato in formazione di electro-set che vedeva rispettivamente il cantante Fabio Viassone e Cesare Corso, alle prese con chitarra e sintetizzatori. Da quel primo casuale incontro, intuisco che la musica che stavo ascoltando era qualcosa di speciale; lo capisco dal fatto che mi ritrovo improvvisamente a sorridere, e comincio a sentire dentro una sensazione rassicurante, del tipo “Eccoti qua finalmente, ti stavo cercando”. La questione andava comunque approfondita, mica ci si può fermare alle prime impressioni. Compro Promises, quando torno a casa me lo sparo nelle orecchie, ed è stato come averli là, tutti: The CureJoy Division e tanti, tanti altri, tutti a dare il proprio contributo a quel disco dai toni così decadenti ed attaccati alla tradizione New Wave, ma che allo stesso tempo suonava moderno, influenzato di certo dalla tradizione elettronica torinese, e non un disco-fantoccio dalle finalità esclusivamente evocative. Il mio desiderio è quello di poterli riascoltare a breve, e l’occasione si presenta in fretta per il release party di Promises al Blah Blah di Torino. Fine della premessa.

Mentre Torino si prepara alla visita del Papa a botta di maxischermi e transenne lungo tutta via Po, il Blah Blah si prepara al live della serata sfoderando i propri santi protettori; ecco comparire sull’amplificatore l’effige di un altro famoso papa, “Papa Morrisey”, giusto per rendere chiara a tutti la religione che si segue in certi luogo di culto. Dopo più di un anno i We Are Waves tornano a suonare nella propria città con un concerto questa volta che vede la band al completo, nella formazione di Fabio Viassone alla voce e chitarra, Cesare Corso ai sintetizzatori, Fabio Menegatti al basso e  Francesco Pezzali alla batteria.

Il pubblico è di certo quello bello ed affettuoso di chi gioca in casa, ricco degli amici di una vita che vengono a festeggiare un nuovo traguardo, ma non solo; sono tanti i curiosi ed amanti della musica accorsi per sentire dal vivo quello che in digitale li ha tanto entusiasmati. Il risultato? Il Blah Blah è stracolmo di gente.  E Promises è un album che merita tutto questo affetto. Lo percepiscono maggiormente le anime inquiete, per le quali questo disco è come una goccia nel mare sconfinato delle proprie solitudini, e che nella sua versione live, grazie ai suoni ed alla voce intrisi di malinconia, riesce ancora di più ad arrivare in quei luoghi carichi di ferite, ed alleviare quel dolore che solo nella musica, certa musica, può trovare ristoro. Promises viene suonato quasi per intero, mentre gli ultimi pezzi sono quelli di Labile, disco del 2014.

A concerto finito la sensazione è bellissima, e se qualcuno venisse oggi a chiedermi: “Fanno musica New Wave, un genere che ha visto i suoi anni migliori all’incirca 30 anni fa. C’era davvero bisogno di un gruppo così?”. La mia risposta sarebbe: “Si. Ce n’era un disperato bisogno”.

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Ash Code 08/05/2015

Written by Live Report

Quella dell’otto maggio è stata una serata davvero memorabile. Ancora una volta ho avuto la conferma che basta guardarsi bene intorno per riuscire ad assistere ad uno show degno di nota. Gli Ash Code sono i protagonisti assoluti della serata e a fine concerto, l’ unica pecca che sono riuscito a notare  è il caldo infernale. Il connubio tra birra e musica degli Ash Code è perfetto e mi trasporta immediatamente  in un piccolo paradiso oscuro. Lo show comincia con leggero ritardo a causa di problemi relativi agli scarsi posteggi ma intorno a mezzanotte quando i tre ragazzi salgono finalmente sul palco del Cellar Theory, una meraviglia di locale che ha l’ulteriore pregio di servire dell’ ottima birra ad alta gradazione; un posto degno di tutti i rocker o i gothster della città. C’è un bel pubblico, il locale è pieno e tutti non vedono l’ ora di farsi trasportare dalle note degli Ash Code. Subito dopo l’ intro la band apre con “Self Destruction”, ideale per cominciare a scaldarsi. La seconda traccia è la mia preferita, quella che mi fa viaggiare e mi fa scuotere: “Waves with no Shorers”. Speravo la suonassero quasi alla fine, essendo la mia canzone preferita degli Ash Code; volevo conservarmela come boom finale ma  evidentemente i tre ragazzi non la pensavano come me. E’ il momento di “Empty Room”, un altro cavallo di battaglia del loro nuovo disco; con questa il pubblico comincia a scatenarsi e a ballare e molti la canticchiano.  Con “Unnecessary Song” gli Ash Code danno ancora una sana lezione di come si usano le oscure atmosfere. E’ il momento di “Drama” che ti riporta indietro nel tempo, rammentando i primi Ministry e qualcosa dei Sisters of Mercy. Con “I Can’t Escape Myself” i tre ragazzi omaggiano i The Sound con una cover riuscitissima e in questa veste ancora più oscura il pezzo rende benissimo. Si sentono le note della titletrack del loro nuovo disco, l’ adrenalina sale (insieme alla birra), il pubblico si muove sul posto, qualcuno improvvisa una danza personale, gli Ash Code hanno fatto di nuovo breccia. Si chiude lo show con la quiete “North of Bahnhof” e l’ immancabile e frenetica “Dry your Eyes”. Insomma non c’è da lamentarsi di questo evento degli Ash Code; sono stati bravi, hanno emozionato il pubblico ed hanno fatto passare una serata davvero piacevole. Credo che sia un gruppo da tener seriamente in considerazione; hanno voglia e passione e il loro genere lo conoscono bene.

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Tony Hadley 17/07/2014

Written by Live Report

Chi pensava di trovarsi davanti a un viaggio malinconico negli anni Ottanta si è dovuto ricredere dopo aver assistito ad oltre novanta minuti di puro spettacolo. Tony Hadley e la sua band hanno dato il meglio, senza sbagliare un solo colpo e la cosa era già evidente dal pomeriggio, dal soundcheck (aperto al pubblico essendosi svolto in piazza, la stessa del concerto serale ovviamente) , da quando hanno provato estratti da dieci canzoni di cui ben nove degli Spandau Ballet. L’aspettativa in città per l’evento era davvero tantissima, perché tutti i teatini erano consci di essere forse davanti al più grande esperimento di marketing territoriale da quando alla Civitella si esibì Patti Smith con la sua band nelle cui file svettava un certo Tom Verlaine alla chitarra. Un esperimento riuscito certamente a pieni voti visto che c’erano molte persone venute da fuori regione (Puglia e Marche prevalentemente) e qualcuna persino dall’estero (ho conosciuto due coppie russe che sono venute a Chieti solo ed esclusivamente per l’evento).

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L’auspicio è quindi che non sia stato un caso unico e che l’anno prossimo la Settimana Mozartiana porti (almeno) un altro grande artista dello stesso calibro. Tony Hadley ovviamente non ha più vent’anni come quando uscì il primo singolo degli Spandau Ballet, “To Cut a Long Story Short”, riproposto anche a Chieti dopo l’iniziale “Feeling Good” (inedita), ma la voce ha la stessa potenza di un tempo. Del resto c’era persino chi lo considerava il miglior cantante degli anni Ottanta, forse erroneamente, perché a mio parere c’erano Jim Kerr dei Simple Minds, Bono degli U2, Mike Peters degli Alarm, Stuart Adamson dei Big Country che in quegli stessi anni dimostravano al mondo intero di cosa erano capaci ma preferisco non andare oltre in questo discorso anche per non incappare nelle ire di qualche fan sfegatata. Il concerto prosegue con un grazie, grazie in perfetto italiano (del resto Tony ha sempre avuto un grande feeling col nostro paese) e con quella “Higly Strung” che conquistò la posizione numero quindici nel Regno Unito. “Somebody Told Me”dei Killers e “My Imagination” (estratte dal suo ultimo lavoro Live from Metropolis Studios) seguono a ruota ma solo per fare da introduzione a quella “I’ll Fly for You” che decretò il successo dei “rivali dei Duran Duran” in Italia.

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“Only When You Leave”, per chi lo ricorderà, era la canzone che apriva “Parade”, da molti considerato il capolavoro degli Spandau Ballet. “Take Back Everything” è invece un brano tuttora inedito ma di cui Tony ha già parlato in alcune interviste essendo uno dei pochi già ultimati in vista di un prossimo nuovo album in studio. “Round and Round” uscì al tempo anche  in una speciale edizione solo per noi italiani in vinile 12” che includeva cinque foto, un poster e due cartoline e risentirla live fa un certo effetto. Oggi tale disco ha un valore commerciale bassissimo ma nonostante ciò rimane uno degli oggetti più amato a livello mondiale dai collezionisti di musica degli anni Ottanta peril suo prezioso contenuto. Con “With or Without You” (A fantastic song, the best from U2) si giunge alla seconda metà del concerto, quella parte forse più affascinante che comincerà altri grandi classici quali “True”, “Through the Barricades” e “Lifeline”.

Tutti singoli di grande appeal nei confronti dei presenti che però sono consci che lo spettacolo si stia avvicinando alla fine. “Every Time” e “Somebody to Love” dei Queen mettono in risalto la voce di Tony, sempre al top, anche se il confronto con Freddie Mercury  non reggerebbe per nessuno. Lui rimarrà per tutti il più grande entertainer che il Rock abbia mai avuto e difficilmente potrà essere superato in futuro. Del resto lo stesso Hadley lo chiama one of the best best best singer ever, a lovely man, a good friend

La scaletta prosegue con una cover che spiazza un po’ tutti… “Rio” degli amici / rivali Duran Duran! Peccato solo che Simon Willescroft (attuale sassofonista del gruppo) non fosse presente sul palco per eseguire il classico assolo insieme al basso. Chiuderanno la serata “Gold” e la cover degli Stereophonics “Dakota” (che potrete ascoltare sempre sul Live from Metropolis Studios). Peccato per l’assenza di John Keeble, la sua presenza avrebbe dato quel qualcosa in più allo spettacolo, ma per fortuna è stato egregiamente sostituito da Simon Merry che tra l’altro era per la prima volta dietro le pelli con Tony Hadley & co!!! Per un giorno Chieti è stata un po’ la capitale della musica ma la Settimana Mozartiana è un evento che quest’anno offre anche tanti altri eventi di grande livello quali i concerti di Richard Galliano e Uri Caine per una sette giorni davvero intensa in cui vale la pena immergersi a pieno ritmo.

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A Night Like This Festival

Written by Live Report

Metti un paesino di duemila anime vicino a Ivrea nel Canavese, magari con vicino un rilassante lago; mettici degli instancabili organizzatori e aggiungici tutti i volontari che riesci ad immaginare, tre palchi, quasi tremila persone, una buona dose di cibo e litri di birra e soprattutto, the last but not the least, una line up notevole composta da quasi venti band. Bene, ora immagina tutto questo calderone fotonico concentrato in un unico giorno. Sembra impensabile ed invece questo è successo veramente il 19 Luglio a Chiaverano, dove si è tenuto per il terzo anno consecutivo A Night Like This Festival. Un’edizione partita con grandi aspettative, che non ha deluso le migliaia di persone che hanno affollato il borgo piemontese, grazie ad una formula vincente basata principalmente sul binomio locale/internazionale. Il risultato è stata una line up varia ed equilibrata che ha miscelato i talenti del territorio come gli Yellow Traffic Light, gli Invers, i Niagara e i più conosciuti Nadàr Solo, a gruppi di respiro e peso internazionale con Austra, Slow Magic e The Soft Moon, senza ovviamente dimenticare nomi ormai affermati del panorama italiano come Soviet Soviet e His Clancyness. Un grande flusso musicale ininterrotto, un super tetris di gruppi e palchi, con incastri studiati per evitare eccessive sovrapposizioni, e non lasciare mai a digiuno lo spettatore. I live si sono avvicendati dalle 19.00 fino a notte inoltrata, seguiti da diversi dj set. Un vero tour de force per instancabili ascoltatori. Sul palco principale, chiamato il palco delle Colline, l’inizio è stato tutto rock e schitarrate con gli Wemen di Carlo Pastore e i Nadàr Solo. Conclusa l’esperienza Rock and Roll è stato il momento per l’attitudine Post Punk di prendere il sopravvento con l’energia diretta dei Soviet Soviet, una garanzia, e quindi la potente chiusura dei fratelloni americani, The Soft Moon, con il loro Post Punk dalle forti sfumature New Wave. Il tutto perfettamente alternanato con le sonorità Pop psichedeliche degli Hys Clancyness, non in formissima in questa occasione, e quindi con le atmosfere sintetico-siderali degli Austra, con la strabiliante voce di Katie Stelmanis, che all’improvviso ci  catapulta nel bel mezzo di un rito ancestrale, con una perfomance impeccabile.

Il secondo palco, quello dell’esploratore, è stato fin dall’inizio, ad eccezione degli oscuri rockettari, nonché ottimi, Invers, un crescendo di synth giocosi e psichedelie, dalle elettro sperimentazioni dei Niagara, al Pop fresco e giovane dei Love The Unicorn, fino al momento  dell’esibizione di Slow Magic che, indossata la usuale mascherona, nonostante si stesse sciogliendo, ha presentato un set immaginifico fatto di suoni, emozioni e accostamenti inusuali. Probabilmente lo spazio allestito e la mancanza di un’ambientazione hanno reso il tutto meno impattante ed esperienziale, ma il pubblico si è comunque dimostrato caldo e partecipe. Il terzo palco, quello del quieto vivere, lo spazio dedicato a emergenti e nuove proposte, è stato l’unico ad avere alcuni spiacevoli problemi tecnici dovuti a cali di corrente, che però non hanno fermato le band che si sono susseguite. La proposta in questo piccolo angolo ha spaziato molto; per citarne alcuni, dal Rock New Wave dei MasCara in set semi acustico, ai suoni più Folk e Blues dei Pocket Chestnut e al cantautorato di Johnny Fishborn. Dopo dodici ore di musica, e qualche zanzara di troppo, non si può che essere soddisfatti di aver partecipato a un festival così. A voler tirare le somme  credo che l’anima di questo evento si possa facilmente riassumere nel vedere sullo stesso prato a pochi metri di distanza la tipica coppia residente, lei ben vestita e truccata, lui un po’ meno, con mini cagnolino annesso e dei giovani ragazzi svizzeri muniti di zainoni e bicchieroni di birra, godersi lo stesso spettacolo, sotto lo stesso cielo e davanti allo stesso palco. Speriamo che festival così continuino a essere presenti e portare grande musica. nel nostro paese.

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The Rolling Stones – Roma – Circo Massimo 22/06/2014 Il Reportage

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The Rolling Stones – Roma – Circo Massimo 22/06/2014 La Photo Gallery

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Normalmente, quando si fa un live report ci si astiene dall’analizzare anche alcuni fattori logistici legati all’organizzazione, ma quando il nome del gruppo che si esibisce in concerto è The Rolling Stones allora bisogna proprio cambiare incipit analizzando i pro e i contro relativi a un evento di tale portata internazionale.

Sicurezza: purtroppo tocca dire che ha lasciato molto a desiderare in quanto all’interno dell’area sono stati introdotti diversi oggetti “proibiti” tipo ombrelli, bottiglie in vetro (mentre a me è stato possibile introdurre appena una bottiglia di acqua ma senza tappo!), reflex digitali gigantesche (se lo sapevo…), telecamere e chi più ne ha più ne metta. Se davvero erano 1000 gli steward presenti (si vocifera anche di 300 forze dell’ordine, ma probabilmente queste erano di più),cosa facevano durante i controlli agli ingressi e perché all’interno dell’area scarseggiavano in quanto a presenza?

Disposizione degli spazi all’interno dell’area concerto: ancora ci si chiede il perché decine di gazebo con stand che ostruivano la visuale disposti a caso all’interno del prato. Normalmente, in manifestazioni simili, tali strutture vengono messe solo ai lati del palco mentre qui, vi assicuriamo, erano disposte in maniera casuale e tale da non far vedere nulla a chiunque capitasse dietro di loro anche a decine di metri di distanza. Non sono mancate quindi le polemiche all’uscita dei fan che hanno fatto notare che gli unici che hanno potuto usufruire di una visuale perfetta sono stati i pochi e fortunati possessori dei biglietti del Parterre Gold (che ovviamente avevano un costo nettamente maggiore rispetto a quello del posto unico).

Bagni: in quanto a numero erano davvero tanti e per fortuna sono stati sufficienti a reggere l’impatto di oltre 70000 presenti che ne avrebbero avuto bisogno nel corso della giornata. Peccato però che per raggiungerli ci voleva davvero molto tempo.

Trasporti: giustissima la scelta di chiudere la fermata locale della metropolitana, perché così gli spettatori sono defluiti in maniera più veloce, per la felicità di tutti, divisi fra le fermate di Piramide e Colosseo.

Audio: suono perfetto percepibile ovunque (merito anche di un gran lavoro fatto dai tecnici nel primo pomeriggio durante il sound check, che ovviamente abbiamo potuto ascoltare solo da fuori dell’area, tra l’altro coperta interamente da teli alti circa due metri).

Affitto dell’area: l’organizzazione pare abbia pagato circa 8000 euro al Comune di Roma, ma, come giustamente ha fatto notare il sindaco della città in un’intervista a RaiNews24, l’evento ha fruttato ben 25 milioni di indotto economico in alberghi, taxi, ristoranti, bar ed ha anche ovviamente assicurato un ottimo ritorno d’immagine a Roma. Una perfetta operazione di marketing territoriale quindi.

Biglietti: venduti sul circuito Ticketone, su Point Service S.r.l. (Greenticket) su Postepayfun e su qualche altro canale in limitatissima quantità (ad esempio sito del Corriere della Sera), sono stati i più economici del tour europeo nonostante venissero 78 euro + diritti di prevendita. Evento subito esauritissimo, tanto che alcuni hanno cercato di accaparrarsi il prezioso tagliando di ingresso usando circuiti alternativi, nonostante la Di and GiSrl., organizzatrice dell’evento insieme al Comune di Roma e al Postepay Rock In Rom, avesse comunicato nei giorni scorsi che alcuni biglietti erano stati falsificati. Ovviamente la ditta si era anche attivata presso la competente Autorità giudiziaria per far luce sulla vicenda.

Servizi extra: è stata lanciata la App gratuita per Android e Iphone“Room on fire” con le notizie, aggiornate in tempo reale sul traffico, il meteo, eventuali variazioni di programma ed altre informazioni utili, coi percorsi per raggiungere il Circo Massimo e la mappa per orientarsi nell’area, con l’indicazione dei punti notevoli, dalle fermate dell’autobus, ai parcheggi, alle uscite di sicurezza, e tanti extra, con approfondimenti sui Rolling Stones, sul supportact John Mayer, sul Circo Massimo e la photo-gallery del concerto.

Eventi in contemporanea: qualche polemica pure per lo svolgimento in contemporanea di una delle due date italiane dei Pearl Jam (a Trieste), ma chi voleva assistere allo show del gruppo di Seattle in fondo poteva anche optare per la data del 20 giugno allo stadio San Siro di Milano. Inutile quindi quest’ultima diatriba!

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Potremmo dilungarci su questi e mille altri aspetti, ma il nostro compito è quello di dedicarci prettamente all’aspetto musicale e quindi inizieremo col sottolineare che il cosiddetto supporter John Mayer, vestito con una shirt bianca, in realtà ha dato vita a un acceso miniconcerto di enorme qualità in cui hanno trovato spazio molte canzoni vecchie (tra cui “Gravity”, famosa hit del 2006, che ha chiuso l’esibizione) e le sole “Wild Fire” e “Dear Marie” dall’ultimo disco del cantautore statunitense, Paradise Valley del 2013. Da sottolineare che la sua è stata l’unica esibizione in suolo italico e che per ora non sono previste ulteriori date nella nostra penisola. Qualche minuto prima delle dieci è poi il turno degli attesissimi The Rolling Stones, trainati dal solito Mick Jagger che si presenta inizialmente con una giacchetta color oro e che saluta la folla dicendo “Che bello tornare a Roma!”. Durante l’intero concerto continuerà a ridere e scherzare col pubblico in italiano, soprattutto durante la presentazione della band, in cui si rivolge al suo amico Ron Wood dicendo “Ronnie non mangia abbastanza pasta…” e a Charlie Watts con un simpatico”alla batteria Charlie Roberto Watts“.

Nella scaletta romana pesanti sono state le assenze di hit quali “Angie”, “Harlem Shuffle”, “Lady Jane”, “Let It Bleed” e “Paint it Black” ma ciò era inevitabile considerato che gli Stones hanno “solamente” 50 anni di carriera alle spalle da coprire. Comunque sia andata, questo è stato sicuramente l’evento Rock dell’anno (c’è chi azzarda persino del secolo!) essendo stata l’unica tappa italiana del tour mondiale “14 On Fire”. C’è stato persino chi ha dormito davanti agli ingressi del Circo Massimo per accaparrarsi la migliore location possibile, mentre centinaia di fan hanno preferito presentarsi davanti all’hotel dove alloggiava il gruppo, essendoci stata una fuga di notizie nei giorni scorsi su tutti i mass media nazionali. Le grandi sorprese della giornata sono state l’esecuzione perfetta di “Respectable” (brano scelto tramite referendum online dai fans) con John Mayer ospite e “Miss You” dove uno straordinario Darryl Jones (ormai da anni a fianco della band) ha dato il meglio di sé stesso al basso con uno stupendo assolo introdotto da Mick con un “Darryl, come on…Come on, do it!”. Peccato solo per l’assenza di Bruce Springsteen, di cui si era vociferato da giorni un cameo sul palco dopo la sua apparizione sul palco a Lisbona dove ha cantato “Tumbling Dice”. Per ora però preferiamo ricordare la bandana giamaicana di Keith Richards, l’entusiasmo con cui Charlie Watts ha picchiato per tutto il concerto sulle pelli e sui piatti della sua batteria e la chitarra graffiante di Ron Wood e “ci si accontenta” di aver rivisto un Mick Taylor (nella band dal 1969 al 1974) sempre in ottima forma nonostante qualche chilo ed anno in più.

Tra il pubblico accorso diversi vip quali Livio Magnini dei Bluvertigo, Zucchero, Edoardo Bennato, Alex Britti, Beppe Grillo (leader del Movimento 5 Stelle), il giornalista Gianni Minà, Roberto D’Agostino, Lucrezia Lante Della Rovere, l’attrice e conduttrice televisiva Giorgia Surina, Emanuele Filiberto, Giorgia, Paola Cortellesi, Sabina Guzzanti e il premio oscar Paolo Sorrentino. E c’è già chi ha incoronato Mick Jagger, che ha salutato con un semplice “Grazie. Ciao Roma, ciao Italia, ottavo re di Roma giurando che gli Stones siano eterni come la Caput Mundi perché senella valle del Circo Massimo fosse avvenuto il mitico episodio del ratto delle Sabine, in occasione dei giochi indetti da Romolo in onore del dio Consus, oggi è stato tempo di un altro avvenimento che rimarrà per sempre nella storia. Poco importa alla fine se gli Stones non erano dei gladiatori, in fondo hanno acceso l’arena lo stesso. Alla fine anche un piccolo spettacolo pirotecnico dal palco.

Un ultimo aneddoto: Mick Jagger, pur non indossando la maglietta della nazionale di calcio come nel 1982, ha azzardato un pronostico sui Mondiali di Brasile 2014 “L’Italia vincerà la Coppa del Mondo, eh? In bocca al lupo per martedì. Penso che la partita finirà 2-1 per Italia”. Avrà avuto ragione sulla squadra allenata da Cesare Prandelli?

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Primavera Sound Festival 2014 | Day 2

Written by Live Report

Sveglia di nuovo alle 15. Il fuso orario di questo appartamento nel cuore del Borne è ormai irrimediabilmente allineato a quello di Bangkok. Dei fantomatici autobus extra previsti per questi giorni tra il Forum e il centro ieri sera se n’è visto solo uno, che ci ha portati a casa alle 6.30 di stamattina. Tipo che a sapere di dover rimanere in strada piuttosto mi sparavo tutto il set di Jamie XX. Un tempo di merda ci accompagna fino al Forum, vestiti da turisti scemi tra ombrelli, improponibili poncho di plastica e messe in piega andate a puttane, che ho l’aspetto di un cocker dopo il bagnetto. Il diluvio sembra non voler affatto smettere e ogni momento vuoto è buono per riempirlo di birra, magra consolazione sotto gli stand al coperto, quando a un tratto si leva un grido collettivo di giubilo al veder spuntare dal mare un grosso nitido arcobaleno che tutti si affrettano ad instagrammare per poi correre sotto ai palchi. Arriviamo ai piedi dell’ATP giusto in tempo per gli ultimi due pezzi dei Loop. Una delle carte vincenti che da qualche anno a questa parte ha elevato il Primavera Sound al rango di grande rassegna è una scelta sapiente e variegata nel comporre la line-up, per genere ma anche per epoca, puntando molto sulle gradite reunion. Neopsichedelia in pieno giorno? Le chitarre graffianti e ossessive sembrano giungermi dimezzate da un palco dall’allestimento minimal e alla luce del seppur tanto atteso sole. La verità però è che a volte ci facciamo fregare dalle aspettative, perché al di là di quello che avevo immaginato ciò che ascolto in questi dieci minuti mi dice che questo dev’essere stato un gran bel live.

È ora di tornare verso l’area sud del Forum. Mentre il sole torna a splendere ci dirigiamo verso l’Heineken e le Haim. Ecco Big Jeff che mi sorpassa a destra correndo con in mano un panino di dimensioni proporzionate alla sua stazza e il sorriso stampato che mi contagia immediatamente come la prima volta. Se non sapete della mia prima volta con Jeffrey molto male, perché vuol dire che non avete letto questo. Durante il live ho un moto di compassione per quel poveretto di Dash Hutton, batterista e unico componente maschio della band, che è anche l’unico a non portarne il nome come cognome. Me lo immagino in tour con queste tre leonesse che sono le sorelle Haim, ignaro alla partenza che la sua è la stessa sorte di un quattordicenne che si iscrive all’Istituto d’Arte o qualsiasi altra scuola superiore covo di femmine incazzate. Mentre sogghigno e mi produco in queste inconfessabili riflessioni la mia amica Lorenza mi fa notare che le espressioni facciali di Este mentre si diletta in iperbolici giri di basso sono decisamente più divertenti. Non sono qui per loro in realtà. Sono solo in attesa di quello che accadrà tra un’ora sul palco di fronte (io che nella vita non ho mai concesso a nessuno di vedermi arrivare con cinque minuti di anticipo). Eppure questo Pop Rock mi coinvolge. Ci sono molte valide tracce in questo album di esordio, e si uniscono a tutta la presenza scenica che ieri un’altra line-up al femminile su questo stesso palco non è riuscita a tirar fuori (se non sapete nulla di ieri e delle Warpaint arriva la seconda ammonizione, perché vuol dire che non avete letto neanche quest’altro). Ops. L’app mi ricorda che tra mezz’ora al Rockdelux ci sarà il Noise di Body/Head, alias Kim Gordon e Bill Nace. Amen. Da questo momento in poi non vorrò ascoltare alcun tipo di trillo che possa rovinare il mood zen che ho assunto oggi aspettando un paio di appuntamenti essenziali.

Era il 1991 quando usciva quello che fu l’album di esordio degli Slowdive. Io avevo 7 anni, e per Natale mi ero fatta regalare Dangerous di Michael Jackson, che il mio insegnante di danza metteva su “Remember The Time” per farci fare i pliés di riscaldamento, ed io quella musica la volevo sempre con me, dentro a un mangianastri rosa a forma di borsetta con tanto di tracolla, che se ce l’avessi ancora farei invidia a tutti gli hipster cultori di tecnologia analogica dall’aspetto kitsch. Ho incontrato i sussurri Shoegaze di Neil Halstead e Rachel Goswell solo molti anni più tardi, quando loro erano già meteore di un mondo discografico che non esiste più ed io avevo età anagrafica e necessità emotive adeguate per provarne il bisogno. Come tutte le cose che accadono quando ormai è troppo tardi, ho consumato Souvlaki e ancor di più Pygmalion (quell’ultimo album a lungo incompreso da una industria della musica che nel 95 impazziva solo per il Brit Pop) con quella impropria sensazione di nostalgia che si ha di epoche per cui non potresti provarne, dato che non ne hai fatto parte. Questo lungo preambolo è al solo scopo di dare una vaga idea del mio stato d’animo nell’apprendere del loro ritorno, una specie di seconda insperata opportunità. Forse neanche la stessa Rachel se l’aspettava più. Sale sullo stage Sony con un sorriso dolcissimo e un velo di commozione, che trattiene a stento sulle prime note di “Crazy for You” davanti a un pubblico che le accoglie estasiato. Mi intrufolo come un sorcio e guadagno la prima fila, e appesa alle transenne mi godo tutto il live senza dire una parola mentre compio l’atteso viaggio nel tempo. Rachel è discreta ed elegante, e non ha bisogno di ricorrere ad alcun tipo di escamotage scenico per assolvere al suo ruolo di front-woman. “Souvlaki Space Station” è davvero un tuffo lento, inquieto e intenso, che mi fa dimenticare ogni frenesia di questi giorni. Le giustapposizioni di chitarre di “When the Sun Hits” mi rapiscono. Credo proprio di avere la faccia di una che in questo momento non vorrebbe essere in nessun altro posto, ma in realtà non è così, perché ho come l’impressione che non sia questo il luogo adatto per godere dei dettagli di cui vivono gli Slowdive, quelle sottigliezze essenziali e impercettibili schiacciate dalla potenza dell’impianto. La cover di “Golden Hair” che rispolverano in chiusura lascia senza fiato. Ma io volevo “Alison”. Ecco, l’ho detto. E ora la smetto di ammorbarvi con i dettagli di questa specie di estasi mistica, che è ora di cena.

Oggi siamo in modalità economy quanto saggia, perciò ci siamo portati da casa qualche metro di baguette ripiena di tortilla. La decisione che quest’anno il Primavera non me lo sarei perso è stata determinata in buona parte dalla presenza dei Pixies. Nel frattempo però sono successe un po’ di cose,  come l’uscita di Indie Cindy, la divina provvidenza che nel redigere la scaletta li ha piazzati appena prima dei National, e il fatto che Lorenza, che da gennaio non faceva altro che postare pezzi di Doolittle su Facebook, alla fine si è innamorata anche lei di Matt Berninger (e fidatevi che nessun uomo al mondo prima di lui era riuscito a scalfirle il cuore). Insomma, finisce che a Francis e soci sul palco Heineken concediamo giusto di farci da sottofondo mentre noi al Sony ci ingozziamo con la cena al sacco. Un sottofondo di tutto rispetto, ma di più non saprei dire, che sono ancora un po’ perplessa riguardo a quest’ultimo nuovo album che poi tanto nuovo non è, e soprattutto sono così presa al pensiero di ciò che accadrà tra poco, che il check della batteria di Bryan Devendorf che copre “Where is My Mind?” non mi infastidisce neanche.  È il 2005 quando i National, dopo l’uscita di Alligator, ancora ignoti ai più nel vecchio continente, si esibiscono a L’Aquila, sul palchetto più sfigato tra i due allestiti alla Festa dell’Unità. Posso dire con certezza che io c’ero, ma sono altrettanto sicura di essere stata sotto il palco sbagliato. Avrò espiato questa colpa al quindicesimo live di Matt Berninger che vedrò, e all’oggi la strada è ancora lunga.

Come di consueto, Matt sale sul palco visibilmente ubriaco. Non dice nulla ma canta in modo impeccabile. Sono i gemelli Dessner che tra un brano e l’altro si sorridono con aria rassegnata del tipo “ci risiamo anche stavolta” e rivolgono a turno qualche parola al pubblico. Lui vaga sul palco col suo gomitolo infinito di cavo, sorseggia cubatas, e ogni due brani fracassa a terra un microfono. “It doesn’t make its job!”, dice, ma non è vero, è tutto perfetto, e se state pensando che il tasso alcolico infici la sua performance sappiate che non è affatto così (anzi, inizio ormai a supporre che sia una condizione necessaria per la riuscita). I brani di Trouble Will Find Me il pubblico li intona all’unisono con Matt, ma con mio enorme sollievo questo non accade con il resto del repertorio (no vabbè, mi sa che “Terrible Love” la sanno tutti). L’inconfondibile preludio archi e batteria di “Squalor Victoria” è la consueta botta di adrenalina, poi mi sciolgo nella voce calda di “About Today”. Matt si lancia nelle sue note peripezie sul palcoscenico, si arrampica sulle casse e poi si lancia tra la folla, senza smettere un attimo di cantare. Un paio di ospitate sul palco (tra cui Justin Vernon, chitarra e voce sulla coda della struggente “Slow Show”) inevitabilmente passano quasi inosservate. Matt catalizza ogni sorta di attenzione. L’impressione che si ha è che quest’uomo sia nato per fare questo, con una naturalezza da frontman che non ricorre ad alcuno stratagemma per arrivare ad un pubblico che gli unici effetti scenici a cui assiste sono il vederselo saltare addosso o al massimo il rischiare di venir strozzato dal chilometrico cavo del suo microfono. Un esercito di gente cool che inspiegabilmente impazzisce per un tipo vestito da ragioniere? Ebbene sì, e questo insolito fenomeno mi suggerisce una chiave di lettura di tutto il percorso artistico dei National: l’impasto sonoro, basi melodiche ma sincopate a cui si aggiungono arrangiamenti virtuosi e mai scontati, risulta così efficace proprio grazie al suo essere intimamente classico, nell’accezione del termine che descrive ciò che è al riparo dal rischio di tramontare in quanto non è nato sull’effimera scia di una moda, e dell’apparire modaiolo non si è mai preoccupato.

Sì, lo so, ora ci sono quegli impronunciabili dei !!! ma io ho giusto le forze per affondare la faccia in una porzione di noodles allo stand thai e cercarmi un taxi. Domani sarà la più lunga delle giornate di questa fugace Primavera.

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Television

Written by Live Report

Anno 1977: Club Cbgb’s, New York dove sono cresciuti artisti quali Ramones, Patti Smith e Talking Heads.

Anno 2014: Alcatraz, Milano dove si esibiscono tutti i più grandi nomi del Rock nazionale ed internazionale.

Cosa c’è in comune vi chiederete voi ora? Ovviamente i Television, band attualmente composta da Tom Verlaine (chitarra e voce), Fred Smith (basso e voce), Billy Ficca (batteria) e Jimmy Rip (chitarra e voce), che hanno scelto quest’ultima location per tornare in Italia dopo ben quattordici anni, come ha anche ribadito il loro leader durante il concerto di martedì 3 giugno. Tra il pubblico gente di tutte le età e, si vocifera, persino Federico Fiumani dei Diaframma. Ad aprire la serata è stata Sarah Stride, meravigliosa cantautrice Rock milanese, che ha eseguito alcuni brani tratti dai suoi dischi insieme al fido Alberto Turra durante un set durato circa trenta minuti. Lei si presenta deliziosamente vestita in bianco e nero, lui alla sua destra invece con una semplice t-shirt. Il pubblico li osserva, scrutandoli ed ascoltandoli attentamente, apprezzando alla fine anche la scelta del cantato multilingue.

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L’attesa però per i Television non manca di farsi sentire, e quando mi giro a guardare indietro noto che le persone presenti non sono più appena un centinaio, ma che s’è addirittura riempito il locale (in capienza ridotta però!) e mi sento orgoglioso di esser uno dei tanti fortunati che avrebbe da lì a poco visto delle vere e proprie leggende del Rock mondiale. Nonostante il nome sia abbastanza noto anche fra gli addetti del settore, sul palco rimarranno solo qualche amplificatore, la batteria di Billy Ficca e tre microfoni per i rimanenti membri del gruppo. Scelta voluta? In fondo il Rock ‘N Roll non è esibirsi con tanto di ballerini e di scenografia esagerata alle spalle di chi suona, ma quanto appena da me scritto.

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Alle 21:10 circa dopo aver accordato gli strumenti inizia il concerto che tutti attendevano con “See no Evil” e “Prove it”. Tom Verlaine sta ancora scaldando la voce, ma nel complesso rimane ancora il maestro assoluto degli assoli di chitarra. Suo partner in questo ruolo però non è più Richard Lloyd come accadde anche quattordici anni fa ad Alberobello, ma uno scatenato Jimmy Rip, che in tutta la serata non si risparmia mai nell’esibirsi in affascinanti virtuosismi che ben si legano a quelli del suo collega Tom Verlaine. Alla fine della serata, tirando le somme, i Television proporranno solo undici canzoni, di cui ben otto estrapolate dal loro capolavoro assoluto Marquee Moon (del resto lo stesso biglietto dello spettacolo annunciava “performing Marquee Moon). C’è spazio anche per il loro primo singolo in assoluto, “Little Johnny Jewel”, per una lunghissima suite sonora inedita, ribattezzata “Persia” e per “1880 or so” estrapolata per l’omonimo album del gruppo del 1992 (primo tentativo di rimettere su la band). Rimane però anche un po’ di amaro in quanto l’album “Adventure”” del 1978 è stato totalmente omesso dalla scaletta lasciando tutti un po’ interdetti. A proposito. Ma perché al posto di concludere con “Marquee Moon” come tutti ci aspettavamo hanno scelto di fare il bis proponendo “1880 or so”? A volte la volontà degli artisti è ineccepibile, ma di certo tale preferenza ha lasciato tutti con un po’ di amaro in bocca. A fine concerto un discreto gruppo di persone (me compreso) aspetterà i quattro paladini che firmeranno autografi e faranno foto con tutti, nonostante l’ora tarda. Rimango conscio che questo è stata sicuramente una delle serate più belle della mia vita e la concretizzazione di un sogno per cui ho dovuto aspettare quasi venticinque anni (ma, credetemi, ne è valsa la pena!). Lunga vita al Rock ‘n Roll!

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Bologna Violenta 15/03/2014

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Il 15 marzo era una data che aspettavo da molto tempo; da almeno due anni infatti (a meno che la memoria non mi faccia brutti scherzi) Nicola Manzan alias Bologna Violenta non si faceva vedere da queste parti. A dare un ulteriore valore a questo week-end si è aggiunta, inoltre, la visita inaspettata in uno special guest ti tutto rispetto con il quale ho il piacere di avere in comune parte del patrimonio genetico, ma questa è un’altra storia. Come spesso accade mi trovavo al Blah Blah, ed il pubblico che animava i portici e l’interno del locale, quella sera, era davvero molto variegato: abbigliamenti “normali” affiancati a look sovversivi da pirata, con comparse sporadiche di chiome dal colore cangiante, dal blu elettrico al rosso vivo.

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Mi sento comunque di dire che il colore predominante era il nero, nella sua variante di nero con borchie. Anch’ io per l’occasione ho deciso di sfoderare il mio finto pellame da combattimento lasciando però le borchie a casa; non avrei mai voluto esagerare con la sobrietà. Tra i look “estremi” che mi circondano, vince il primo premio quello del tizio capellone e cotonato che mi ritrovo davanti durante il concerto, e che per l’occasione ho deciso di ribattezzare “Mufasa” (chi come me ha passato parte dell’infanzia a piangere durante la visione del Re Leone sa di cosa parlo). Il concerto è aperto dai Seitanist, ma l’attesa è tutta per Bologna Violenta che presto si palesa sul palco carico di strumenti accompagnato da Nunzia, carichissima anche lei. Un brevissimo soundcheck  per Nicola, e poi subito si riparte.

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Uno Bianca, l’ultimo album di Manzan, viene suonato per intero, senza interruzione: 27 brani di pura violenza emotiva per raccontare uno dei peggiori fatti di cronaca nera avvenuti in Italia, accompagnati da immagini di repertorio, video di quegli anni e scritte essenziali che meglio aiutano a descrivere i fatti e a comprendere la tragicità degli eventi. Si tratta di video minimalisti, essenziali nella loro forma, di contorno alla vera protagonista che rimane sempre e comunque la musica, che da sola riesce davvero a narrare e ad esprimere tutta l’angoscia, la violenza ed il terrore legato a quegli anni tristissimi. Terminata la performance legata ad Uno Bianca, Manzan procede con alcuni pezzi memorabili tratti dagli ultimi suoi due album; in questo caso i video di accompagnamento alla musica si fanno decisamente più espliciti sia nelle immagini che nei contenuti (Manzan non ti perdonerò mai per avermi fatto assistere alla decapitazione di un toro! Sappilo!). Terminato il concerto, Mufasa ed il suo branco assalgono BV con le loro domande. Io passo a salutare Nunzia nell’area “merch” e subito dopo raggiungo anch’io il mio branco. Mentre mi perdo in un interminabile monologo interiore di cui questo live report è figlio, penso che stavolta Manzan abbia superato sé stesso dando vita non solo and un album degno di nota, ma mettendo in scena un vero e proprio “spettacolo” dal forte valore emotivo, capace di coinvolgere anche i meno amanti del genere; un qualcosa che va oltre un semplice concerto, e che è legato in qualche modo col concetto di Memoria, per non dimenticare ciò che è stato, per fare in modo che non accada più.

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Boxerin Club 27/02/2014

Written by Live Report

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Ci sono giorni in cui tentare di programmare la propria vita equivale a mettere in moto una serie di eventi funesti e nefasti  il cui obiettivo è quello di annientare ogni forma di organizzazione, proprio quella volta che hai deciso di fare tutto con calma, e ti sei addirittura spinta a segnare gli appuntamenti in agenda con tanto di “cerchiolino” rosso sull’orario. Ma se al termine di queste peripezie ti ritrovi ad assistere ad un concerto dei Boxerin Club, che arrivino pure tutti gli stravolgimenti di orari e tutte le sfighe del mondo. Siamo al Blah Blah di Torino e la serata non è da birra, ma da amaro. Sono con una delle mie persone preferite ed entrambi, tanto per dare un tocco di originalità alle nostre esistenze, abbiamo mal di gola; la missione è quella di riuscire a mettere qualcosa di forte in circolo bevendo la minor quantità di liquido ghiacciato. Mentre aspettiamo che i Boxerin facciano il loro ingresso e siamo immersi in discorsi metafisici di gossip recenti, ecco che lo vedo, proprio lì, appoggiato al muro, vicino alla consolle: Max Casacci dei Subsonica. Chiedo conferma a chi è con me, sfoderiamo i telefoni e facciamo una rapida ricerca di immagini sul web; ci sembra proprio lui! Tuttavia c’è da dire che entrambi, oltre ad avere lo stesso segno zodiacale e lo stesso ascendente, siamo anche dei miopi irreversibili e vantiamo un numero non trascurabile di figure di merda in merito alla questione “Quello somiglia a…”. Il locale inoltre è molto buio, insomma, non ce la sentiamo di confermare questo scoop; questa però potrebbe essere una buona occasione per lanciare un nuovo giallo capace di annientare una volta per tutte la supremazia di  Jessica Fletcher e della sua Signora in Giallo: quello appoggiato al muro, era o non era Max Casacci? Ai posteri l’ardua sentenza.

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Finalmente i Boxerin Club arrivano, e non appena si posizionano sul palco per me hanno già fatto un miracolo; se i miei occhi architettonici non mi ingannano, il palco/pedana del Blah Blah misura all’incirca 10 mq (ho visto bagni di dimensioni maggiori), nei quali riescono a starci in sei insieme a tutti gli strumenti, che non sono pochi. Chapeau! I Boxerin Club sono di Roma (ce lo ripetono più volte nel corso della serata) e nessuno di loro è mai stato a Torino; questa è la loro prima volta sotto i portici che hanno protetto dalle intemperie per molto tempo il “real” cranio savoiardo di re e regine. La band è arrivata in ritardo e non è riuscita a fare il sound check; il concerto pertanto ci mette un po’ a decollare, i primi pezzi sono  una vera e propria prova del suono. Risolti i problemi tecnici i Boxerin prendono il volo ed è subito fiesta. I brani sono quelli tratti dal loro album d’esordio, Aloha Krakatoa, che il mio collega Lorenzo Centrangolo nella sua recensione definisce freschissimo, dove finalmente possiamo vedere un gruppo (italiano) che evita la trappola dei generi e delle etichette per regalarci undici tracce di variopinta festa sonora, trovandomi pienamente d’accordo. Mentre loro procedono con la loro esplosione di suoni, mi accorgo che senza volerlo ho cominciato a muovermi a ritmo di musica, e non riesco a smettere. I Boxerin ci coinvolgono, ci invitano ad avvicinarci, e noi ci avviciniamo; ci invitano a battere le mani, e noi battiamo le mani; penso però che se ci avessero chiesto di andarcene non lo avremmo fatto così facilmente, Non so perché, ma l’atmosfera che si viene a creare mi ricorda un po’ quella di un concerto degli Honeybird & the Birdies, romani anche loro che io sappia, ma di adozione, provenienti da diverse parti d’Italia e del mondo. Chissà se Boxerin e Honeybird si sono mai incontrati. Quando è il momento di ascoltare “Carribean Town”, mi accorgo che ormai sono in molti a muoversi e a ballare; in tanti hanno lasciato i loro pensieri pesanti a terra e si sono messi a volare insieme a questi ragazzi romani. Subito dopo, quando ormai siamo quasi a fine concerto, qualcuno dello staff passa tra la folla e ci mette in mano fischietti, trombette, maracas ed ogni sorta di strumento musicale, rigorosamente in plastica; ci improvvisiamo tutti musicisti e cominciamo a fare baldoria. Lo stesso soggetto che ha distribuito strumenti in giro per la sala ha in mano un pacco di coriandoli che comincia a lanciare per aria facendoci tornare bambini per un attimo. Ovviamente me ne svuota mezzo pacco in testa, tornerò a casa piena di coriandoli fin dentro le mutande. È quello il tocco finale del concerto, seguito da un ultimo pezzo richiesto dai presenti.

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Al Blah Blah, in alto, più o meno sulla testa dei musicisti, c’è un cartello che riporta una domanda: “c’è qualcuno felice?”. Per me non è mai stata solo una domanda, ma anche una specie di monito, un qualcosa che sta lì, fermo, a ricordare quale dovrebbe essere il fine ultimo di ogni esistenza. Io non so ancora bene cosa sia la felicità. Penso sia qualcosa di effimero, volatile; una parola che si ha il timore di pronunciare per paura che scappi via. Non so nemmeno se a fine serata c’era davvero qualcuno felice, però ho visto tanta gente andar via con un sorriso enorme stampato in faccia, che non è poco.

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