Avete presente una band di nome Hollow Sunshine, mediocre formazione a metà tra Shoegaze e Funeral Doom Metal? Probabilmente no! Other Houses non è nient’altro che lo pseudonimo del vocalist di quella band, Morgan Enos ma non aspettatevi nulla in questo Bad Reputation di quell’esperienza passata. Proviamo a mettere da parte la copertina orrida che ritrae Enos photoshoppato male davanti al pianeta Saturno (almeno quello mi pare, non ho mai amato la geografia astronomica) photoshoppato male davanti ad un cielo carico di stelle e lasciamo anche perdere la scelta dei caratteri che neanche in un b-movie anni 80. Concentriamoci sulla musica del cantante multistrumentista (chitarre, batteria, synth, laser) aiutato solo al basso in “Yellow and Starship” da Reuben. Bad Reputation è fondamentalmente un album di un Songwriter Pop che prova a contaminare quest’attraente vitalità di facile ascolto con elementi propri di stili diversi e più settoriali, dal Lo Fi, al Post Punk, al Grunge, al Folk passando per una Psychedelia cosmica propria di qualche decennio fa. Tutto questo è fatto con molta cautela e l’aspetto melodico resta decisamente il nucleo palese dell’intera tracklist insieme agli arrangiamenti semplici ai limiti della banalità. La voce è fastidiosa, arrancante e i suoni scelti per arricchire lo scheletro strumentale dell’opera e l’apparato melodico sono ai limiti della decenza. Le stesse melodie, sulle quali si potrebbe provare a cercare l’ancora di salvezza, sono poco incisive, quasi bozze di qualcosa che non è mai nato, aborti artistici d’ispirazione malsana. Se l’idea era di omaggiare i grandi nomi del Pop Rock statunitense anni Sessanta/Settanta oppure quella di riprendere la strada delle band Power Pop Lo Fi degli Ottanta non possiamo che costatare un fallimento senza via di scampo.
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Cadori – Cadori
Sono poche le volte che riesco ad emozionarmi con la musica, o meglio, ultimamente le cose sono andate in netto peggioramento. Mancanza di stimoli, produzioni mega pompate ma che in realtà non sono altro che scarni provini, una brutta copia di quello che poteva essere il cantautorato di una volta. Poi ascolto l’omonimo disco di Cadori e quasi piango, un misto sensazionale d’amore a calibrazione lo-fi. Perché fare il cantautore negli anni dieci è maledettamente difficile, la cattiveria liquida violentemente la passione, e senza cuore difficilmente si scrivono belle canzoni. Giacomo Giunchedi in arte Cadori dimostra di avere un cuore enorme dal quale farsi ispirare per la composizione dei propri brani. In “Cauntri #” respiro subito l’odore della classe, di un disco che fin dalle prime note emana aria fresca ma soprattutto pulita. E chi non ha bisogno di respirare aria pulita? Di aprire le finestre e godersi la naturalezza della vita? Sentori di anni settanta nella successiva “Fuori Cadono Fulmini”, almeno mi sembra di percepire ciò dai riff che accompagnano una sussurrata voce. Vorrei dedicare ad ogni donna amata parte del testo:”Tu invece sei diversa, perché non cadi mai”. Il disco d’esordio di Cadori è senza ombra di dubbio un lavoro grigio nell’animo, un rivolgersi dolcemente ad una lei, la tristezza è capace di regalare forti sensazioni quando si parla d’amore. Ed io percepisco tanto amore in questo lavoro nonostante lievi sperimentazioni elettroniche che non hanno alcun ruolo se non di attualizzare l’opera (“La Brutta Musica”). E non condivido troppo questa scelta, avrei seguito una linea più cantautorale classica, con meno fronzoli strumentali e più sentimento. Cadori prosegue il resto del disco con la stessa naturalezza compositiva dei primi pezzi, un concept che sembra seguire una linea definita tra gli spazi delle sensazioni. Il finale è nelle mani della bellissima “Le Cose”, poco da dire, viene quasi voglia di urlare, di spaccarsi lo stomaco, di essere liberi di amare incondizionatamente. In fondo le condizioni sono soltanto delle regole fatte per essere violate. L’omonimo esordio di Cadori è semplice, attuale nella sua freschezza, inizio già ad amare quest’uomo e la musica che rappresenta. Nel genere è tra le migliori uscite dell’anno.
L’Officina della Camomilla – Senontipiacefalostesso Due
La band-giocattolo brainchild di Francesco De Leo torna ad un anno di distanza dall’esordio con il seguito, Senontipiacefalostesso Due, titolo esplicitamente strafottente e che già dà l’idea di quell’arroganza bambinesca e sognante che sorregge tutto l’immaginario de L’Officina della Camomilla. Più che il seguito del primo disco, comunque, Senontipiacefalostesso Due è considerabile come una sua seconda parte, e ne prosegue il discorso in modo omogeneo (è cosa nota che il repertorio de L’Officina sia pressoché infinito, e che lo sia stato già da prima dell’uscita su Garrincha). Abbiamo anche qui due direttrici che fanno da scheletro ai quindici brani del disco: un cantautorato giocattolo, naif, fatto di chitarre acustiche, arpeggi, pianoforti che gocciolano, archi malinconici, tastiere e synth; e un Post-punk indie dalle chitarrine acide e la batteria pestata, distorsioni spuntate da forbici arrotondate. Personalmente riesco a farmi convincere più dal primo dei due mood (“Piccola Sole Triste”, “E Londra e Londra”, “Gentilissimo Oh”, “Bucascuola”) che dal secondo, che mi sembra un po’ più paraculo, come se fosse un vezzo più superficiale (anche se, ogni tanto… per esempio, “Rivoltella”). In ogni caso, l’asso nella manica del quintetto è la voce di De Leo, e quando scrivo “voce” non intendo solo il timbro vocale e lo stile canoro, ma tutto il punto di vista, ingenuo e tagliente, meravigliato e cinico, spensierato e lunare, malinconico e ironico assieme. È su questo fulcro che gira tutta la band, e se non sapete farvi trascinare dai flussi di in-coscienza di questo “bambino stronzo” allora per voi ascoltare L’Officina della Camomilla sarà piuttosto una tortura che uno strano, vergognoso piacere. Che possa convincere o meno, De Leo si è creato un mondo, fatto di nazipunk e kebabbari, campi a grancassa, gente col labbro spaccato e meringhe e lexotan, biciclette e squatter, licei che sembrano fabbriche, muri che sbavano… uno stile inconfondibile, che per forza di cose divide in estimatori e bestemmiatori. Io, mio malgrado, mi trovo nel primo gruppo, ma sarò capace di lasciarmi andare senza sensi di colpa solo quando riusciranno a perdere la strafottenza indie sopra le righe, ché sembra sempre che debbano strafare per convincerci a schiaffi (“Biciclettapirata”, “Ho Visto un Nazipunk sul Tram”), quando potrebbero tranquillamente sussurrare storie nella penombra e farci innamorare perdutamente (“quella giovane donna appartiene a nessuno, e a nessun altro”). Spero, ardentemente, nel loro invecchiare.
Aa. Vv. – Loves You More
Prima che inizi a parlarvi di questo disco, lasciatemi qualche secondo per raccontare una storia. Siamo a Echo Park, territorio limitrofo alla città degli angeli per eccellenza, Los Angeles, e tra gli alberi che avvolgono l’aria nei loro colori secchi d’autunno si nasconde il cadavere di un ragazzo di appena trentaquattro anni. È il 21 ottobre 2003. Lui è un musicista nato con Post Punk e Grunge nelle orecchie e poi diventato un eccelso cantautore, paladino dell’Indie a bassa fedeltà e tendente, soprattutto agli esordi da solista, a scegliere strade strumentali. Quel musicista ha un tatuaggio sul braccio, il toro Ferdinando, un gigante ma pacifico che alle corride preferisce i fiori, sgraffignato da un libro per bambini. In altre parole un fallito, per chi non riesce a comprendere coloro che si piazzano fuori dagli schemi stabiliti dalla società. Quel cadavere ha un nome: Elliott Smith. Lo stesso Smith che nel 1998 fu nominato agli Oscar per il brano “Miss Misery”, contenuto nel film di Gus Van Sant, Will Hunting – Genio Ribelle. Elliott Smith sale sul palco trasudando un’inadeguatezza quasi malinconica e tenera. Non è quello il suo posto. Forse non è questo mondo il suo posto. Elliott Smith si fa portavoce di una generazione di persone sbagliate nel posto sbagliato. Elliott Smith è infognato nella droga e nell’alcol e nella depressione. Quel cadavere quando ancora era uomo si è preso due coltellate al petto, quel lontano 21 ottobre 2003. Suicidio dicono, eppure pare strano suicidarsi con due coltellate al petto ed è bizzarro che la fidanzata col coltello tra le mani sedesse al suo fianco. Proprio in quei giorni Elliott, nato Steven Paul Smith, stava lavorando all’album From the Basement on the Hill e in quell’ultimo disco abbiamo cercato le tracce che ci donassero la verità, scovando però ancor più il turbamento dell’uomo dietro l’artista.
Loves You More nasce da un’idea di Davide Lasala dei Vanillina. Quindici brani e quindici artisti che all’Edac Studio reinterpretano Elliott Smith, registrando in presa diretta su nastro magnetico e mantenendo intatto quel sapore Lo Fi che ha sempre contraddistinto l’artista statunitense di Omaha. Si va da interpretazioni più canoniche, a scelte più rischiose e audaci, con qualche punta di vera e spettacolare emozione. Non sono certo io il primo sostenitore di tribute e cover eppure operazioni come questa sono qualcosa con un valore che esula dalla pura essenza artistica. Com’è accaduto con il tributo ai Fluxus di qualche mese fa, questi sono strumenti eccelsi che non solo aiutano a riscoprire i grandi del passato e magari proporli alle nuove generazioni ma hanno il duplice ruolo di promotori di nuovi talenti. Nel nostro caso pochi sono i nomi veramente noti al piccolo grande pubblico, Black Black Baobab forse, C + C = Maxigross, Dellera, Edda, Jennifer Gentle mentre gli altri sono soprattutto artisti dei quali, si spera, sentiremo parlare. Dennis di Tuono, Dilaila, Emil feat Cani Giganti, Eva Poles, Il Vocifero, Kalweit and the Spokes, Labradors, Mr. Henry, Nicolas Falcon e gli stessi Vanillina. Da brividi la versione di “Needle in the Hay” di Nicholas Restivo e Roberta Sammarelli dei Verdena ovvero i Black Black Baobab che reinterpretano il pezzo scelto per la colonna sonora del film I Tenenbaum di Wes Anderson. Edda ha optato invece per la lingua italiana intonando “Angels”, brano pubblicato nell’album Either/Or proprio come “Say Yes” dei Labradors e “Between The Bars” intonata da Mr Henry. Degna di nota anche “Bottle Up and Explode! di Emil feat Cani Giganti che azzarda strade di svecchiamento di un sound che in realtà mai suona vetusto, un po’ come propone Kalweit and the Spokes con “A Fond Farewell”.
Se riuscite a mettere le orecchie su questo piccolo gioiello, non staccatevene troppo in fretta se non per andare a riscoprire questo genio sofferente, un vero outsider e voce di migliaia di ragazzi troppo fragili per questo mondo. Non staccatevene se non andare a scoprire le nuove voci di una generazione sempre più in crisi e in lotta contro un mondo che sembra non amare la diversità.
Il Re Tarantola – Il Nostro Tabacco Sa d’Amore
Ho ascoltato un paio di volte questo nuovo lavoro de Il Re Tarantola senza Emma Filtrino, con la quale aveva realizzato le prime cose, e subito mi sono immaginato un personaggio simpatico e un po’ svampito, una specie di amicone che a trent’anni non sa che diavolo fare nella vita oltre ad essere felice e fregarsene. Poi ho udito ancora e mi sono cascate le braccia, ritrovandomi di nuovo tra le orecchie uno di quei grossolani gruppi indie italiani madrelingua; di quelli che non si capisce bene cosa dicano e sputano frasi a effetto di quelle che piacciono a un pubblico sempre meno attento alla sostanza e sempre più all’apparenza. Poi ho origliato ancora, ho capito che Il Nostro Tabacco Sa d’Amore (che richiama il precedente del 2011 Il Nostro Amore Sa di Tabacco) stava diventando una specie di droga per me e ho deciso che dovevo capire meglio questo stranissimo cantautore bresciano.
Il suo mix di Lo-Fi e Punk/Grunge attitude mette insieme con naturalezza i Nirvana e Daniel Johnston ma il cocktail che ne viene fuori è talmente sconclusionato e strampalato da avere un sapore del tutto nuovo. Come dice lo stesso Re in un brano, copia tanto male che sembra originale e le parole rendono perfettamente l’idea, alimentando anche il dubbio lecito se tutto sia ricercato con intelligenza o frutto di eccessi di spontaneità. Il Re Tarantola non suona semplicemente Lo-Fi ma ha la bassa fedeltà che scorre come un virus nelle vene; si registra i dischi in casa (anche se registrazione e mixing di questo sono stati fatti dallo stesso Manuel Bonzi al Castello di Gera studio di Breno), dischi che scrive per conto suo e fa lo stesso per video e quant’altro. Inseguendo una nuova tradizione indie italiota, alla bassa fedeltà aggiunge uno stile vocale che chiamare canto è un eufemismo, aggiunge qualche parola che richiami l’attualità mediatica, si atteggia a fiero perdente, gioca con le parole, con ironia e divertimento eppure suona più sincero di ogni Officina della Camomilla o Dente che possiate aver ascoltato negli ultimi tempi.
Il Re Tarantola è divertente senza doversi necessariamente atteggiare a profondo conoscitore della vita e senza doversi mostrare come un nuovo poeta maledetto per poveri senza cultura. È sincero e inadeguato, realmente imperfetto tanto che in certi momenti pare quasi di ascoltare dei perfetti incompetenti, gente che con la musica c’entra poco, anche se le melodie e le canzoni e i ritornelli e tutto quanto sono di un’amenità unica. Cosa c’è di eccezionale nella musica de Il Re Tarantola non è facile da dirsi. Di sicuro non bastano i testi evocativi, malinconici, spesso sbagliati anche nella forma (eppisodi al posto di episodi non si può sentire) e non è troppo originale la formula Folk/Lo-Fi che unisce chitarrine, tastiere e rullanti eppure ha un che di difficilmente riscontrabile in ogni altra nuova proposta. Un suono talmente genuino che riesce a trasformarsi in pura piacevolezza, la stessa avvenenza che riesci a vedere quando senti un bimbo incespicare nelle sue prime parole. Nirvana abbiamo detto e tanto Daniel Johnston e poi Folk e chitarre taglienti e fastidiose come in un certo Psych Garage Rock anni Sessanta tutto in uno stile semplice e assolutamente inoffensivo, totalmente depurato da ogni possibile violenza o aggressività sonica. Ascoltatelo per bene, è molto più di uno scarso cantante o pessimo musicista che non sa scrivere testi impegnati, immaginifici e cool. Molto più che un tizio che canta e suona male sparando cazzate che mettono allegria. Potrebbe anche essere una nuova via per l’Indie italiano, una strada da scoprire facendo retromarcia e prendendo coscienza dei propri limiti, con naturalezza, scoprendosi meno di quello che noi stessi vogliamo credere.
3 Fingers Guitar – Rinuncia all’Eredità
C’è coraggio, indubbiamente, nell’animo DIY, scarno, tagliente e infuocato di Simone Perna, testa e mani del progetto 3 Fingers Guitar (accompagnato, in quest’avventura, dalla sola batteria di Simone Brunzu). C’è coraggio, follia, un’inclinazione incosciente alla spettacolarizzazione in Rinuncia All’Eredità, una sorta di concept sul retaggio di un padre nei confronti del figlio, che contiene le prime canzoni in italiano del progetto. La musica, pensata ed eseguita quasi totalmente dal titolare, è scarna, fumosa, tribale. Chitarre violente, ritmiche ripetitive e ossessionanti, noise e polvere, intimità rarefatta, poi presa ad unghiate, come fosse troppo stretta, come non bastasse cantare, ma ci fosse bisogno di lacerarsi i vestiti, di graffiare le pareti che si chiudono intorno. L’atmosfera (il gioco) sta sull’equilibrio tra le involuzioni senza capo né coda e gli ambienti più fermi, per cui più convincenti – e più ovvi. Il pugno di “Ingresso” scuote, mentre il corpo di “Riproduzione” incanta e ondeggia. L’arpeggio della title track ci riporta all’improvviso in una zona franca, un’isola che sta da qualche parte al di là dell’oceano, in un crescendo avvolgente, che prosegue idealmente in “Fuga”, ancora più a ovest. Sale il Blues nell’intro de “L’Unica Via”, trasformandosi poi in un Post Blues iridescente e ipnotico. La chiusura (“Fine”) è adamantina e catartica.
Croce e delizia del disco è la voce, sporca, imperfetta, fastidiosa a volte. Un timbro e un tono che possono alternativamente aggiungere profondità o creare punte di doloroso imbarazzo. Il disco è interessante, inserito com’è in un discorso di cantautorato “altro” che vuole staccarsi dalla noia dei quattro accordi con la chitarra e inventarsi un mondo (cosa peraltro non lontanissima – nell’idea – da certe evoluzioni recenti di un Vasco Brondi). Fosse amico mio, Simone Perna, gli consiglierei – da amico – di lavorare sulla pasta vocale, certamente senza snaturare il senso del suo cantare, ma levigando alcuni estremi che possono risultare spigolosi. Per il resto, la strada presa sembra gratificare ampiamente lo sforzo d’intraprenderla. Ma io Simone Perna non lo conosco, e dunque mi limito a riconoscerne i meriti, senza aggiungere altro.
Nana Bang! – Space Is a Cake
Non è passato molto da quando ho ascoltato quella compilation che si prefissava di mettere insieme il meglio della scena emergente della provincia bresciana e ricordo quanto mi fossi accanito (forse il termine è più duro della realtà) sulla poca originalità e voglia di sperimentare delle band in ascesa racchiuse in quel Brescia C’è ma che poi sono lo specchio di una quotidianità più vasta. Eppure, ora che rammento più adeguatamente, a Brescia c’è anche qualcuno che non è solo semplicemente bravo, ma ha il coraggio di andare oltre le barriere. Ad esempio, a Brescia ci sono i Nana Bang!, duo composto da Andrea Fusari (mente, voce e chitarra del gruppo) e Beppe Mondini (percussioni e synth) che già avevo avuto modo di incrociare in passato per il bell’omonimo dello scorso anno. Dismessi i panni da seguaci del verbo di Daniel Johnston, i due, sempre conservando inalterata l’idea di Paisley Underground, riducono al minimo le similitudini con Velvet Underground (“Millionaire”) ma anche The Dodos o Johnny Cash, scegliendo di dare un taglio “sciamanico” al loro sound e quindi gonfiandolo di una palesata psichedelia cosmica.
Restano gli ingredienti Folk (“Quarantined”) e le registrazioni, pressoché in presa diretta, rendono ancora con forza l’idea d’immediatezza e di voluta bassa fedeltà che li aveva personalizzati in precedenza ma ora, l’asse portante sembra spostarsi su lidi meno concreti. In quest’ottica, pare chiara la scelta di impiantare in copertina due sciamani Sami (religione politeista e basata sulle forze della natura) con tamburo magico, ripresi da un’incisione del 1767 con la sola variante di un’apertura spazio-temporale sulle pelli, al posto di simboli runici che sono ricalcati nel nome stesso della band. Sul Cd è invece stampata una solarizzazione psichedelica che altro non è che la figurazione della luna (archivio NASA), effigiante il suo lato oscuro, con i diversi colori a rappresentare le altezze. Dunque, al lato prettamente psichedelico è posto di fianco e ben saldo un concetto cosmico di sperimentazione, che richiama alla mente certe avanguardie anni 60 e 70. A tutto questo si unisce un uso della ritmica più tribale e ossessiva, in contrapposizione alla vocalità armoniosa, quasi a evocare una danza interstellare.
Ancora buonissime idee, dunque, per la formazione lombarda eppure convince in minor grado questo Ep rispetto all’antecedente album. I brani hanno meno carattere e suonano più confusi. Il sound è troppo scheletrico anche se solido e, nonostante la scelta apprezzabile di non seguire la canonica forma canzone, probabilmente qualcosa in più ce lo si poteva aspettare. Presumibilmente quel qualcosa in più andrà a costituire l’album in fase di realizzazione, composto dai restanti pezzi di quei sedici registrati nella session da cui nasce questo Space Is a Cake (non è un caso neanche la vicinanza con Space Is the Place di Sun Ra). Per ora i Nana Bang! fanno un passo indietro ma hanno tutto per far sì che quel passo diventi solo una rincorsa.
Elli De Mon – Elli De Mon
Elli de Mon, già “anima Folk” dei Le-Li, con cui ha girato Italia e Europa e pubblicato due dischi e un EP su Garrincha Dischi, arriva a questo primo lavoro solista con l’intenzione di esorcizzare il proprio demone interiore scatenando, libera e cupa, la voglia di Blues che il gruppo contribuiva a tenere in stand-by. L’omonimo album è quindi un concentrato di Folk scuro, Blues ossessivo, sporco, dai suoni ruvidi e dall’andamento ondeggiante, con versi ripetuti come “mantra autoreferenziali attraverso i quali liberare la mente”. Mettere in scena l’anima solitaria e oscura attraverso il Blues (soprattutto questo Blues, dall’impianto Garage, con uno spirito quasi Punk e una rappresentazione a bassa fedeltà che ci dà l’idea di un racconto attorno ad un fuoco, sì, ma di rifiuti urbani) è un gioco che riesce sempre bene, e, complice la semplicità (relativa) di realizzazione, un gioco che viene tentato sempre più spesso.
Non che sia un male: il bello del Blues è di saper essere intrigante anche nella ripetizione. Sempre uguale a sé stesso, ma sempre diverso; la stessa maschera, le stesse movenze, ma labbra (e anime) diverse che possono dire cose diverse. Il disco di Elli de Mon non è da meno: un impianto che più classico non si può, che però racconta un mondo personale, con qualche guizzo caratteristico (“Devil”, “Devote”, “Spell”), attraverso pochi (e ovvi) ingredienti (slide guitars, banjo, sonagli). Niente di nuovo sotto il sole, quindi, ma solo vecchi demoni nell’ombra.
Marshmallow Pies – Between Cloudy and Sunny Days
Le Marshmallow Pies (come nella beatlesiana “Lucy in the Sky with Diamonds”, citata proprio in relazione al moniker in “Intro”, i primi venti secondi del disco) si definiscono “fairy acoustic trio” e non si fa fatica a capire perché. Il loro primo album, Between Cloudy and Sunny Days, è pieno zeppo di pezzi emozionali, leggeri e soffici, che sarebbero perfetti per accompagnare gli ultimi minuti di una qualunque puntata di un serial americano teen (vedi “Colourless”, ad esempio – mentre “Strange Belief” potrebbe essere un’ottima sigla d’apertura). Nomen omen, le tre ragazze di Como (voce, chitarra/ukulele/violino, tastiera/chitarra) producono una teoria di canzoni sognanti e zuccherose, un cantautorato in inglese molto femminile e molto morbido, che non inventa granché ma si lascia ascoltare dolcemente, richiamando alla mente, senza troppa fatica, serate da tisane e cioccolate calde in pub dai muri color rosso acceso e con tante, tante candele sparse qua e là (“Superman”).
La base sonora è affidata alle chitarre acustiche e al piano, che si accompagnano a qualche aggiunta saporita (violino in primis: “Storyboard”, o l’apertura centrale di “M.” – ma spunta anche qualche inserto di sax nella già citata “Colourless”, o di organi in “Le Parole”, unico brano in italiano). La voce di Francesca Giannella ci ricama sopra, sottile, con gusto e libertà, senza strafare, in un’economia lieve: una bella voce che non si mette in mostra ma ci accompagna gentile nell’ascolto. Between Cloudy and Sunny Days è un disco ben scritto, che poteva essere un po’ più vario nelle atmosfere ma che anche arrangiato “al risparmio”, con un parco strumenti ben definito e per alcuni versi limitato, riesce ad emozionare: sia chiaro, si parla pur sempre di emozioni soft, di rilassatezza, malinconia suggerita, serenità, allegria sussurrata. Una torta morbida, dolcissima. Astenersi diabetici.
I Cani – Glamour
Il vero dramma de I Cani è lo stesso dramma di Checco Zalone: la mancanza, nella risposta del pubblico, di una zona grigia, di una scrollata di spalle e un mezzo sorriso, di un tenere il ritmo col piede pensando ad altro, o leggersi i testi e rifletterci sopra senza poi ascoltarsi più di due pezzi in fila. Complicità e amore, o intensissimo odio. Il dramma di Glamour sta tutto lì: nell’hype, nel fenomeno che lo distorce e lo moltiplica e alla fine ce lo fa vedere come non è, ossia, alternativamente, la voce di una generazione o il male del secolo, che trascinerà nel pressapochismo e nell’hipsteria la nostra già malridotta scena (?) musicale. E invece questo Glamour non è altro che un disco come tanti, che ha delle belle cose (ma belle davvero) e altre un po’ meno (un bel po’ meno). A me, personalmente, la svolta intimista di Niccolò Contessa è piaciuta: si perde quell’espressionismo sociologico che ha reso Il Sorprendente Album D’Esordio dei Cani quello che è stato, ma si acquista in bitterness, che per un autore è manna dal cielo. I testi sono il punto di forza de I Cani (e, in fondo, lo sono sempre stati): niente di eccezionale, intendiamoci, siamo lontani dalle vere voci nuove che girano in Italia (per fare qualche nome sparso a caso: Iosonouncane, o gli Uochi Toki). Però Niccolò sa scrivere, o meglio, più che scrivere sa raccontare, raccontarsi, scoprirsi nudo, apparentemente sincero, strafottente, fragile e tagliente, di fronte a noi, nel bene e nel male. Già questo dovrebbe essere un buon motivo per rispettare il personaggio (che poi, certo, fa anche il furbo e si diverte con le mode, con il gergo, con la ruffianeria decadente, ma fa parte del gioco, e ci sta tutto).
Ciò che rende un po’ meno è l’impianto musicale generale, giusto una scusa per dire ciò che si deve dire in modo che la gente ci si muova sopra, poco o tanto che sia, che tenga il tempo con la testa, o che fischietti il motivetto. Per non parlare del lato vocale, ovviamente inesistente (non credo che qualcuno voglia definire Niccolò un “cantante”). Rispetto al primo disco c’è più profondità, grazie forse anche all’apporto produttivo di Enrico Fontanelli (Offlaga Disco Pax), ma siamo sempre dalle parti di qualcosa che se lo ascolti non lo ascolti per la musica (ma si può dire di tanta musica italiana di ieri e di oggi, e di per sé non è un male, è la media). Ecco, leggevo tempo fa un articolo sul cinema americano contemporaneo. Si diceva che ormai la critica (cinematografica) non serve praticamente più a nulla (ammesso che sia mai servita ma da qui si fa della filosofia). I blockbuster muovono maree di soldi, il marketing è aggressivo, la comunicazione assordante, il pubblico decide. Cosa vi posso dire de I Cani che già non sapete? Vi posso ripetere cosa ne penso io: checché ne sia della polarizzazione delle opinioni generali, a me Glamour sembra un disco come tanti altri, con brani che mi hanno convinto (“Roma Sud + Theme From Koh Samui”, che non si capisce proprio cosa c’entri qui dentro, o il cantautorato saldato al Noise di “Introduzione”, o il divertissement paraculo di “San Lorenzo”, dalle parti di un Samuele Bersani), e altri molto meno (“Corso Trieste”, una mutazione così così, o “Non c’è Niente di Twee”, ruffianissima e caramellosa).
Glamour lo ascolto anche un paio di volte, piacevolmente. Poi lo metto via. E, guarda un po’, non mi ha cambiato la vita. A voi?
Reveille – Broken Machines
Una vocalità talmente fastidiosa che definirla unicamente brutta non rende minimamente idea di quello che intendo. Può qualificarsi tremenda la voce di Daniel Johnston o di Calvin Johnson (Beat Happening)?Certo che può, eppure non mi sognerei mai di dirli insopportabili anzi, sono due artisti che ammetto di adorare. Proprio per questo dovreste origliare anche solo la prima traccia, “Modern Pain”, per afferrare che intendo. Non è certo un caso il fatto che abbia citato la band Lo-Fi di Olympia perché quella che François Virot (vocals, guitar), Lisa Duroux (drums, vocals) e Guillaume Ballandras (bass) mettono sul piatto suona molto più che semplice ammirazione, omaggio, ispirazione o influenza. Qui siamo sul piano di una clonazione mal riuscita, malaccorto tentativo di teletrasportare nel tempo e nello spazio, neanche si trattasse dell’esperimento del dottor K., quel sound sporco targato Beat Happening. Anche quando François Virot (autore anche di alcune opere soliste e a nome Clara Clara) lascia le redini del canto alla più gradevole voce di Lisa Duroux (“Long Distance Runner”) sembra di assistere agli stessi avvicendamenti voce maschile/voce femminile dei loro padri artistici e la francese (la band Reveille è di Lione) Lisa quasi finisce per scimmiottare la deliziosa Heather Lewis.
Dentro questo Broken Machines recuperiamo tuttavia anche un’infinità di rimandi al Rock alternativo anni novanta (i Beat Happening partirono dai primi anni Ottanta prima di giungere al decennio in questione) e solo le suddette esorbitanti similitudini impediscono di rilevare questi altri pseudo atti di ossequio a un’epoca ormai passata. Messe da parte la voce irritante e intollerabile e le scopiazzature palesi potremmo cercare sollievo nelle melodie ma anche qui non ho idea di come poter salvare il trio transalpino. Anche quando le armonie soniche sembrano prendere una strada piacevole e riesco a non pensare allo stile canoro di Virot, pur essendo io consapevole amante di certe contorte, sinistre, deformi asimmetrie, non posso che piangere ascoltando come, in questo Broken Machines tutto sia stato fatto nel modo sbagliato. Apprezzo chi riesce, come i già citati Daniel Johnston o Calvin Johnson, ma anche a modo loro Guided by Voices o The Microphones, a fare della disarmonia un’arte ma non penso che chiunque giochi a proporre suoni sgradevoli possa essere considerato un buon artista. Alla fine, l’unica cosa che riesco a difendere è il coraggio di aver scelto una delle band più anticommerciali che ci sia nel mondo del Rock alternativo come punto di partenza ma sarebbe il caso di muoversi da quel punto.
Dr. Irdi – 2
Chi è (o cos’è) questo fantomatico Dr. Irdi? Un pazzo, un visionario (o un collettivo di pazzi, o visionari)? Cosa significherà mai quella copertina kitsch giallo vomitino (o almeno credo sia gialla, sono leggermente daltonico)? È lui, è sua, quella faccia posterizzata? Ma soprattutto, Dr. Irdi ci è o ci fa?
Ironico fin dal titolo, 2 è il primo, breve prodotto di questa realtà DIY, che si sussurra stia nel frattempo già producendo un full-lenght. La partenza (“Intro”), Elettronica Minimale e casereccia con qualche drone di fondo e campioni di Spoken Word, pare introdurre un certo tipo di lavoro, ma poi arriva “Hollywood”, seconda traccia, a spiazzarci completamente: un’apertura di chitarra decisamente Lo-Fi e un sapore più Rock, voci strascicate accompagnate da un’elettronica elementare ma parecchio orecchiabile. Segue “Tu”, e prosegue il mood sussurrato e confuso del disco: voci sempre più impastate, melodie accennate da synth lontani, basso e ritmiche semplici ma efficaci. Dr. Irdi è sempre più ineffabile: “Armageddon” parte come un canto monastico e poi scivola in una canzone allo stesso tempo ariosa e malinconica – inspiegabilmente – con un lento ritmo in levare e un testo che si indovina in italiano (la voce è sempre bella distante, parte della scena più che protagonista). La chiusura dell’EP viene affidata ad “Iceberg” e al suo piano dolcemente inquietante, dal riff killer, una sorta di “Mad World” (quella rifatta da Gary Jules, intendiamoci) ma con più eroina, per non parlare di quella chitarra sottile e vibrante che si appoggia e si indovina qua e là nella pasta sonora che riempie il brano (e là dentro, ad un certo punto, entra un basso: emozionante).
Dopo aver sbirciato il mondo onirico, nebbioso, folle del Dr. Irdi, le domande che mi ponevo all’inizio non hanno avuto risposta, ma, anzi, si sono presto moltiplicate: che cazzo fa il Dr. Irdi? È Elettronica? È Ambient? È un Desert Rock molto poco suonato del XXI secolo fatto in un parcheggio di un centro commerciale brianzolo invece che nel Palm Desert?
Direi che la chiave per decifrare la proposta enigmatica di 2 sia proprio questa: idee interessanti, mood, in alcuni casi, ineccepibile (“Iceberg”); manca però l’identità, manca il fine, lo scopo, manca il taglio, il punto. Lungi da noi desiderare ad ogni costo un’etichetta sulle cose (anzi): si tratta solo di affilare la lama e di sapere (o volere?) colpire nel punto giusto. Aspettiamo il disco nuovo del Dr. Irdi e speriamo che non si chiami 1.