Lorenzo Cetrangolo Tag Archive

Entourage – Vivendo Colore

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Suonano compatti e caldissimi i tre Entourage nelle undici tracce del loro ultimo lavoro, Vivendo Colore, e non lo diresti: titolo, moniker, grafiche contribuiscono a creare un’immagine diversa da ciò che poi traspare dalla maggior parte dei brani di questo disco di Rock a tratti duro, ruvido (“Kronos”), ma che poi, trasformista, si alleggerisce, scopre lati ambientali nascosti e atmosfere aperte e avvolgenti (“Battiti”), per poi rimbalzare tra attimi Pop e elettricità vorticante (“Guru”).

Una doppia anima che forse è il punto di forza del trio siciliano, anche se, personalmente, vengo conquistato più dagli episodi ariosi e anomali (“Evoluzione”, “Prima Luce”) rispetto ai riffoni di “The Maya” o “Navarra”. Discorso simile per le liriche, che in “Tappeto Volante” hanno saputo trasportarmi in un mondo loro, tratteggiato con pennellate semplici ma allo stesso tempo coinvolgenti, mentre nel resto del disco gli Entourage diventano meno focalizzati e sembrano prestare molta più attenzione al suono che al significato delle parole. Una scelta che ha una sua dimensione e una sua ragione, ma che funziona in alcuni brani (quelli più energici e diretti) e meno in altri.

Vivendo Colore è un bel disco Rock che ci permette però, spesso, di toglierci da binari e da strade già troppo battute per entrare nel folto dell’erba o tra la polvere dei deserti, anche solo per cambiare aria e panorama. Gli Entourage, come dicevo, suonano compatti, caldi, consapevoli: il viaggio si farà, si farà comodo, e, nella giusta prospettiva, sarà anche un bel viaggio da ricordare.

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Marshmallow Pies – Between Cloudy and Sunny Days

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Le Marshmallow Pies (come nella beatlesiana “Lucy in the Sky with Diamonds”, citata proprio in relazione al moniker in “Intro”, i primi venti secondi del disco) si definiscono “fairy acoustic trio” e non si fa fatica a capire perché. Il loro primo album, Between Cloudy and Sunny Days, è pieno zeppo di pezzi emozionali, leggeri e soffici, che sarebbero perfetti per accompagnare gli ultimi minuti di una qualunque puntata di un serial americano teen (vedi “Colourless”, ad esempio – mentre “Strange Belief” potrebbe essere un’ottima sigla d’apertura). Nomen omen, le tre ragazze di Como (voce, chitarra/ukulele/violino, tastiera/chitarra) producono una teoria di canzoni sognanti e zuccherose, un cantautorato in inglese molto femminile e molto morbido, che non inventa granché ma si lascia ascoltare dolcemente, richiamando alla mente, senza troppa fatica, serate da tisane e cioccolate calde in pub dai muri color rosso acceso e con tante, tante candele sparse qua e là (“Superman”).

La base sonora è affidata alle chitarre acustiche e al piano, che si accompagnano a qualche aggiunta saporita (violino in primis: “Storyboard”, o l’apertura centrale di “M.” – ma spunta anche qualche inserto di sax nella già citata “Colourless”, o di organi in “Le Parole”, unico brano in italiano). La voce di Francesca Giannella ci ricama sopra, sottile, con gusto e libertà, senza strafare, in un’economia lieve: una bella voce che non si mette in mostra ma ci accompagna gentile nell’ascolto.  Between Cloudy and Sunny Days è un disco ben scritto, che poteva essere un po’ più vario nelle atmosfere ma che anche arrangiato “al risparmio”, con un parco strumenti ben definito e per alcuni versi limitato, riesce ad emozionare: sia chiaro, si parla pur sempre di emozioni soft, di rilassatezza, malinconia suggerita, serenità, allegria sussurrata. Una torta morbida, dolcissima. Astenersi diabetici.

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Terje Nordgarden – Dieci

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Terje Nordgarden viene dalla Norvegia ma vive e suona in Italia da ormai parecchi anni. Innamorato del Folk e del Blues americani, di Dylan, Springsteen, Drake, Elliott Smith, si è integrato nella fertile scena indipendente italiana e con questo suo ultimo Dieci rende omaggio alla sua famiglia adottiva reinterpretando e riarrangiando, per l’appunto, dieci brani di artisti nostrani (Cristina Donà, Paolo Benvegnù, Marta Sui Tubi, Marco Parente, Iacampo, Cesare Basile… ma anche Claudio Rocchi e Grazia di Michele).

Il risultato è un disco lunare e dolcissimo, rarefatto ma intenso allo stesso tempo. Chitarre dalle distorsioni calde, arpeggi cristallini, ritmiche lineari e soundscape vibranti e infeltriti, un maglione Folk/Blues elettrico in cui raggomitolarsi: sopra tutto questo, una voce morbida, che fa sue canzoni altrui con naturalezza. L’accento straniero di Nordgarden aggiunge anche un taglio retrò all’operazione: ci porta alla mente gli anni 60, il Beat, gli inglesi che venivano in Italia a cantare (in italiano) canzoni (italiane). I brani, cover di artisti (chi più chi meno) affermati ma quasi tutti provenienti dalla scena indipendente, sono canzoni belle ma non famosissime, e questo contribuisce a rendere questo disco di cover un prodotto molto particolare e sui generis.

Alcune canzoni sono particolarmente riuscite (“Non È la California”, “Invisibile”, “Cerchi sull’Acqua”), altre un po’ meno (“La Realtà Non Esiste”), ma Dieci rimane un disco assai godibile e Terje Nordgarden un artista da tenere d’occhio.

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Esquelito – Youwho

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È notorio e risaputo: i teschi sanno sfoggiare il sorriso più ironico e dissacrante esistente in natura. È quasi poetico, quasi commuove: il simbolo stesso della morte è, al tempo stesso, l’emblema del più importante meccanismo di difesa che possediamo contro di essa. Ne sanno qualcosa in America Latina, dove teschi e scheletri prendono vita e colore per essere memento e contrasto rispetto all’idea europea, cupa e soffocante, di una morte incappucciata e mietitrice. Lo sanno bene anche gli Esquelito, che riportano, in maniera leggera e disimpegnata, questo colore e questo divertimento nelle cinque tracce del loro ultimo EP, Youwho. La band, confesso, è riuscita a conquistarmi già dalle poche righe di spiegazione del disco, dove trapela un mondo immaginario ben costruito e per l’appunto coloratissimo, sfavillante, tra il Chiapas e i Caraibi, con il loro spirito guida (l’omonimo Esquelito) a combattere danzando (o almeno così lo si immagina) lo spaventevole e mitico Chupacabra, in un Messico da cartolina, cartone animato, sogno lisergico d’altri tempi.

Gli Esquelito ci portano in viaggio attraverso canzoni semplici, immediate, anthem ossessivi  Post-Folk (“Esquelito”), ritmiche prima esotiche, poi Punk, in un meticciato lineare ma piacevole (“Eternit Love”, dalla linea di basso infestante e l’andamento essenziale). Si toccano il Rock’n’Roll della West Coast e il Pop da canticchiare senza pensarci, per poi finire dritti in una giungla di tamburi, delay, metallofoni e… scimmie (“Monkeyz”). Si cambia spiaggia, da un tramonto sussurrato alle urla notturne di domande e risposte che si incatenano (“One Million”). E ci si ferma sulla strada battuta di un Rock leggero, acustico, e molto americano, per chiudere con nostalgia e un pizzico di malinconia (“Weekly Leaks”).

Nel complesso, gli Esquelito hanno messo insieme un disco che si regge sulle proprie gambe, anche se avrebbe bisogno di qualche osso in più: personalmente, mi convincono di più gli esperimenti con ritmiche inusuali e strutture meno ovvie – come “Eternit Love”, ad esempio – mentre gli episodi alla “One Million” mi lasciano più indifferente. Forse un maggiore focus sulle caratteristiche peculiari della band potrebbe aiutare l’incisività e la presa generale del progetto. Di sicuro, il ghigno bianco di questi scheletri potrebbe avere ancora tanto da dirci: nascondiamo la nostra maschera messicana nel cassetto e attendiamo con speranza il seguito di Youwho.

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I Cani – Glamour

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Il vero dramma de I Cani è lo stesso dramma di Checco Zalone: la mancanza, nella risposta del pubblico, di una zona grigia, di una scrollata di spalle e un mezzo sorriso, di un tenere il ritmo col piede pensando ad altro, o leggersi i testi e rifletterci sopra senza poi ascoltarsi più di due pezzi in fila. Complicità e amore, o intensissimo odio. Il dramma di Glamour sta tutto lì: nell’hype, nel fenomeno che lo distorce e lo moltiplica e alla fine ce lo fa vedere come non è, ossia, alternativamente, la voce di una generazione o il male del secolo, che trascinerà nel pressapochismo e nell’hipsteria la nostra già malridotta scena (?) musicale. E invece questo Glamour non è altro che un disco come tanti, che ha delle belle cose (ma belle davvero) e altre un po’ meno (un bel po’ meno). A me, personalmente, la svolta intimista di Niccolò Contessa è piaciuta: si perde quell’espressionismo sociologico che ha reso Il Sorprendente Album D’Esordio dei Cani quello che è stato, ma si acquista in bitterness, che per un autore è manna dal cielo. I testi sono il punto di forza de I Cani (e, in fondo, lo sono sempre stati): niente di eccezionale, intendiamoci, siamo lontani dalle vere voci nuove che girano in Italia (per fare qualche nome sparso a caso: Iosonouncane, o gli Uochi Toki). Però Niccolò sa scrivere, o meglio, più che scrivere sa raccontare, raccontarsi, scoprirsi nudo, apparentemente sincero, strafottente, fragile e tagliente, di fronte a noi, nel bene e nel male. Già questo dovrebbe essere un buon motivo per rispettare il personaggio (che poi, certo, fa anche il furbo e si diverte con le mode, con il gergo, con la ruffianeria decadente, ma fa parte del gioco, e ci sta tutto).

Ciò che rende un po’ meno è l’impianto musicale generale, giusto una scusa per dire ciò che si deve dire in modo che la gente ci si muova sopra, poco o tanto che sia, che tenga il tempo con la testa, o che fischietti il motivetto. Per non parlare del lato vocale, ovviamente inesistente (non credo che qualcuno voglia definire Niccolò un “cantante”). Rispetto al primo disco c’è più profondità, grazie forse anche all’apporto produttivo di Enrico Fontanelli (Offlaga Disco Pax), ma siamo sempre dalle parti di qualcosa che se lo ascolti non lo ascolti per la musica (ma si può dire di tanta musica italiana di ieri e di oggi, e di per sé non è un male, è la media). Ecco, leggevo tempo fa un articolo sul cinema americano contemporaneo. Si diceva che ormai la critica (cinematografica) non serve praticamente più a nulla (ammesso che sia mai servita ma da qui si fa della filosofia). I blockbuster muovono maree di soldi, il marketing è aggressivo, la comunicazione assordante, il pubblico decide. Cosa vi posso dire de I Cani che già non sapete? Vi posso ripetere cosa ne penso io: checché ne sia della polarizzazione delle opinioni generali, a me Glamour sembra un disco come tanti altri, con brani che mi hanno convinto (“Roma Sud + Theme From Koh Samui”, che non si capisce proprio cosa c’entri qui dentro, o il cantautorato saldato al Noise di “Introduzione”, o il divertissement paraculo di “San Lorenzo”, dalle parti di un Samuele Bersani), e altri molto meno (“Corso Trieste”, una mutazione così così, o “Non c’è Niente di Twee”, ruffianissima e caramellosa).

Glamour lo ascolto anche un paio di volte, piacevolmente. Poi lo metto via. E, guarda un po’, non mi ha cambiato la vita. A voi?

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Aa. Vv. – Streetambula

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Streetambula è la compilation, di ben 20 pezzi in due dischi, che è stata prodotta in seguito all’ottima riuscita del concorso omonimo, svoltosi l’estate scorsa a Pratola Peligna (AQ). Prepariamoci quindi ad una carrellata dei brani presenti nei due dischi della compilation: due canzoni per gruppo più alcuni extra affidati ai De Rapage, vincitori del concorso.  Aprono le danze The Old School, che, come da nome, regalano una ballabilissima “Rock’n’Roll All The Night” da vera vecchia scuola, sorprendentemente solida e frizzante. Nulla di nuovo, ma di certo un Rock’n’Roll che sta in piedi e che avrà fatto agitare una buona fetta di pubblico. Ci spostiamo in zone più raccolte con “Gloom” de A L’Aube Fluorescente, che invece, a dispetto del nome altisonante, si buttano su un Rock alternativo lineare e molto inglese, anche piacevole se vogliamo, suonato con coscienza e scritto con criterio, ma senza guizzi particolari.

Doriana Legge ci fa prendere una piccola pausa con “Palinsesti”, arpeggi in delay, pad iridescenti di synth in sottofondo, voce alternativamente sospesa e teatralmente piena (anche troppo, a volte) accompagnata da cori leggerissimi, e poi si sale a cercare l’esplosione, il climax, che però non arriva: viene solo suggerito da una chitarra distorta e dall’andamento vocale (pesa forse il non avere in organico qualcosa di percussivo – una batteria – che sostenga il crescendo). I De Rapage, vincitori della kermesse, infiammano tutto con l’energica “Il Grande Rock In Edicola”. Sembra di essere tornati a cavallo tra gli anni 80 e 90, sommersi da riff in distorto sostenuto e batterie ossessive, dove rullo e charlie fanno da padroni, a combattere una guerra assai rumorosa con le voci, sguaiate e sporche, come ben si confà all’impianto ironico-divertito dell’ensemble. La potenza live della band è fuori discussione: granitici, anche se non danno molto di più dell’energia grezza che producono.

“Crazy Duck” dei Dem è una sorta di Blues che triangola tra percussioni povere e continue, riff elettrici pieni di ritmo e groove, e una voce femminile che non sbaglia una virgola. Esibizione stralunata e a mio parere molto, molto divertente, che si perde un po’ quando rallenta sugli accordi di chitarra ritmica – ma poi si riprende, folle come in partenza, in un inseguimento allucinato di chitarra e percussioni. Stravaganti il giusto per spiccare nella massa, orecchiabili quello che basta per farmeli riascoltare con piacere. Approvati. Di nuovo Rock energico, questa volta dai Too Late To Wake: “Smooth Body” parte infuocata, cassa in quattro, promettendo assai bene (zona Foo Fighters); poi rallenta, si appoggia su un Rock in inglese più smorto e banale, con una voce che, sebbene calda in basso, non brilla sulle alte. Niente di eccezionale, nel complesso, ma con qualche idea interessante sparsa qua e là.

Un intro sospeso tra gli anni 70 e gli Arctic Monkeys per i Ghiaccio1, che in “Roby” si lanciano in un brano veloce, con sezione ritmica indiavolata e una voce trasformista, che qua e là tocca la timbrica di un Giuliano Sangiorgi qualsiasi. Poi rallentano, si rilassano, e ripartono, con un basso che sembra rubato a prodotti vari di Lucio Battisti. Notevole il tentativo di miscelare mood e generi diversi in un brano di poco più di 4 minuti (la coda scivola verso sonorità Reggae, e aggiunge varietà all’esibizione). La canzone non rimane troppo impressa, ma nel complesso si fanno ascoltare con gusto. The Suricates aprono con un intro Noise a cui seguono arpeggi sognanti, in un racconto Post-Punk straniante e circolare (c’è un po’ di confusione in ambito vocale, ma verso la metà del brano la cosa inizia ad avere un senso e a suonarmi così com’è: una voce che grida, sporca, gonfia di delay, esagerata). Un delirio generale ammaestrato, che riesce a tratti ad ipnotizzarmi. Non male. 

Il Disco 1 si chiude con due extra firmati De Rapage che appaiono senza titolo: il primo, che dovrebbe intitolarsi “To Be Hawaii”, è una ballad in cui la band abbandona l’energia grezza del Rock italiano primi anni 90 per darsi alla leggerezza – sempre ironico-demenziale ovviamente. Devo dire che il pezzo sta in piedi anche musicalmente, con quel giro di chitarra facilissimo e per questo bello, paraculo ma bello. E mi sento di dire che avrebbe funzionato alla grande anche ad avere un testo più serio (ma non staremmo parlando più, probabilmente, dei De Rapage). Il secondo extra torna un po’ sul sentiero del già visto, si canta e si sbraita e si picchia e si ride, ritornelli da quattro accordi e strofe goliardiche, sempre suonando sporchi & granitici insieme.

 Passiamo dunque al Disco 2: ecco di nuovo The Suricates, stavolta alle prese con “New Islands”. Intro psichico e allucinato, qualche intoppo qua e là sul nascere nel reparto chitarre, per un brano che stenta a decollare, ma poi si riprende: lento, lungo, ipnotico. Soundscapes di pianoforti, chitarre che si rincorrono, ritmiche incalzanti. L’onda scende, poi risale. Strumentale ed allucinatorio. Torna Doriana Legge, stavolta con un bel palm mute ritmico di chitarre ad introdurre “Scambisti Alla Deriva”. L’impianto è abbastanza confuso, con qualche imprecisione sparsa. Si è sempre dalle parti di una canzone d’autore post: c’è molto Lo-Fi, c’è molta teatralità, manca forse un focus maggiore. Il pathos, invece, c’è tutto. “Lisergia” per i Ghiaccio1: abbandonate le velocità Indie-Rock, ci si butta su un simil-Western con copiosi bending e momenti di frizzante distorsione strumentale. Un po’ peggio, un po’ noia.

I Too Late To Wake iniziano epici e brillanti la loro “Grey For A Day”, un Rock lento e malinconico, che, sempre senza sorprendere troppo, si dimostra composta con mestiere, mentre la voce ancora pecca nel registro alto (purtroppo). “Ngul Frekt Auà”, dedicata agli “alternativi del cazzo con la barba”, è il secondo pezzo “ufficiale” dei sempre più ghignanti De Rapage. La musica s’è ammorbidita e l’intento ironico è più preciso e affilato. Rischiano più volte di scadere nel cattivo gusto tanto per, ma qualche colpo di reni all’ultimo secondo sembra salvarli (il ritornello in dialetto, ad esempio – e chissà poi perché). Mi avevano lasciato con una simpatia inspiegabile nelle orecchie, ritornano un po’ meno luminosi e un po’ più piatti i Dem, che in “Ready If You Want Me” abbandonano la (bella) voce femminile per un cantato maschile più piatto, e un registro, in generale, più seventies. Sempre minimale, sempre percussioni leggere, chitarre frizzante e voci, il brano, sebbene sia sempre fuori di testa e pieno di arzigogoli ritmici e strutturali che proteggono lo spettatore dal disinteresse eventuale, non riesce a rimanermi incollato come quello del Disco 1. Sempre più inglesi e sempre più compatti gli A L’Aube Fluorescente (e più me lo ripeto, più il nome mi sembra figo – fuori di testa, ma figo). “Lizard” è un fascio di luce coerente e orecchiabile, che mi fa muovere la testa a ritmo, scritto bene e con una voce davvero poco italiana. Anche qui, niente di particolarmente nuovo, ma il lavoro è fatto bene, e potrebbe bastare.

Li abbiamo inquadrati nel Disco 1, non fanno che confermarsi qui: The Old School si presentano nella loro “We Are The Old School”, un Rock’n’Roll come dio comanda, e non c’è davvero bisogno che vi dica altro – nel bene e nel male.  Chiudono il party, come sopra, i De Rapage, con due ulteriori extra: sempre Rock energico, sempre la demenza più spinta, con argomento, nello specifico, l’omosessualità e la terribile esperienza di terminare il rotolo di carta igienica (con una variazione-litania: “mestruo, assorbenti, ciclo, vomito”… ci siamo capiti). 

Concludendo questa lunga carrellata di presentazioni varie: la compilation di Streetambula sorprende, e molto, perché una qualità mediamente così alta non era preventivata. Certo, l’audio non è dei migliori, le imprecisioni ogni tanto si fanno sentire, e tante band magari devono ancora mettere a punto qualcosa nei reparti tecnici: ma l’inventiva, la varietà e la passione che si possono trovare dentro questa compilation dimostrano che in giro c’è veramente tanta gente che ha qualcosa da dire. Il futuro sarà fatto di miriadi di band, che vivranno in una galassia musicale sempre più ampia e variegata, e ognuno di noi avrà mille sfaccettature da scoprire, senza doversi per forza aspettare la grande band dei nostri tempi. Iniziamo a guardarci intorno: date un’ascoltata a questa compilation e potreste incrociare qualcuno che vi convincerà a seguirlo con curiosità. Non si sa mai.

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Les Enfants – Persi nella Notte

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Nuovo EP per Les Enfants, band milanese dall’immagine accattivante ed affettuosa: musicisti, ma soprattutto amici (e scout, a quanto pare), che passano il tempo nella loro sala prove non solo a scrivere questo Persi nella Notte ma anche a costruire cose, fare in generale arte varia, e chissà cos’altro. Persi nella Notte, che dura più o meno un quarto d’ora e contiene quattro canzoni più un “Intro”, è un flusso ininterrotto di suoni, spesso notturni, sempre sognanti, sospesi, che stanno tra l’hip degli Arcade Fire e una circolarità alla Wild Beasts. La scrittura è semplice, diretta, lineare e ciò che conquista sono le sonorità, azzeccatissime: i quattro accordi che ruotano lenti come la luna nel cielo, sopra ritmiche dall’economia indovinata, tra soundscape di basso e synth punteggiati di accenni di glockenspiel come stelle, e una voce piena, gonfia di effetti e riverbero, a declamare decisa e quasi disumana nel buio.

Un disco velocissimo, leggero, furbissimo, se vogliamo, cosciente fino alla fine dell’inserirsi in una precisa nicchia di pubblico e quindi utilizzando tutte le armi a disposizione per conquistarla. Intendiamoci, questi Les Enfants mi sembrano persone serissime e rigorose, e dietro ciò non riesco proprio a vederci alcun calcolo: è il loro modo di fare musica che ha un appeal molto contemporaneo e molto “alla moda”. (O forse sono io ad essere un outsider e a non capirci un cazzo. È possibile. Forse addirittura probabile. Me ne farò una ragione).

Persi nella Notte è il disco che vorresti non ti piacesse, perché la band ti sembra addirittura funzionare troppo bene, compatta, sorridente, felice. La felicità, in questi tempi zannuti e ghignanti, è quasi fastidiosa. Poi ti accorgi di essere ancora umano, e vuoi solo sorridere con loro, abbracciarli uno per uno e riascoltarti il disco per capire come diavolo fanno. “Forse da piccolo dovevo fare lo scout, maledizione”.

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Tripwires – Spacehopper

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C’è tanta, tantissima inglesitudine nel disco d’esordio dei Tripwires. Spacehopper (che, detto per inciso, ha una copertina bellissima) è un frullato molto godibile ed abbordabile di stili che sono stati moda per periodi più o meno lunghi negli ultimi vent’anni, soprattutto in terra d’Albione: c’è il Brit Pop (ma più dalle parti dei Blur che degli Oasis: se non nelle sonorità, di certo nell’inventiva e nel caos creativo), con ritornelli intensi, tutto sommato orecchiabili, da cavalcare in cuffia o in qualche dj set (“Shimmer”); c’è il Rock, nelle distorsioni frizzanti e nella batteria sixties, in un impianto Indie che potenzialmente potrebbe aprire ai Tripwires la porta di radio e tv musicali (“Paint”); c’è lo Shoegaze, tutto nei cori sognanti e nei soundscape che coprono lo sfondo (la title track), negli effetti gonfi dei distorti e nei suoni (e nelle linee) di chitarra, pungenti e nasali, caotici, disseminati qua e là con sapienza (“A Feedback Loop of Laughter”).

Spacehopper è un’ottima via di mezzo tra il gusto un po’ onanista del suono panoramico e della psichedelia old school (“Love Me Sinister”) e qualche sapore più propriamente Pop/Indie Rock, canticchiabile, radiofonico, anche se, ad essere sinceri, la bilancia pende più spesso verso il primo elemento – e meno male (vedi il bell’intro di “Under a Gelatine Moon”, o l’atmosfera sospesa di “Catherine, I Feel Sick”). La voce, di rimando, oscilla senza paura tra il timbro di un Bellamy smorzato e meno primadonna (“Plasticine”) e paste con salsa Beatles (“Tin Foil Skin”, coraggioso pezzo-monstre da sette minuti e cinquanta), e il tutto, frullato, produce un cocktail dal sapore notturno, agrodolce e frizzante, da accompagnare ad una corsa in tram dopo mezzanotte, o a momenti introspettivi durante lunghi tratti ferroviari privi di luce naturale. Ne risulterà un viaggio comodo, anche per chi magari non è tanto abituato a viaggiare.

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Grammophone – Multiverso

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Ho avuto un attimo di smarrimento mentre tentavo di definire il genere di musica che suonano i Grammophone, quintetto campano che ha appena prodotto questo denso Multiverso. C’è indubbiamente una forte carica Rock a sottendere tutto, ma un paio di elementi caratteristici riescono a dare alle loro canzoni un taglio molto particolare.

Innanzitutto, la voce: intensa, potente, morbida, vicina più al bel canto che al Rock, che in qualche ritornello ci porta addirittura nella zona del Pop melodico italiano – ma quello fatto bene, anzi, benissimo (“Nell’Incanto”). Poi, la presenza sottile ma costante del pianoforte, strumento che più di una volta contribuisce a mettere in luce profili inaspettati e “laterali” di una band che comunque già di suo possiede un tiro sostenuto, un respiro travolgente (l’intro di “Segreto”).

In questa commistione di potenza sonora e morbidezza atmosferica, di totalità nervose e dettagli accoglienti, i Grammophone trovano la loro strada, e una chiave universale all’approccio verso il pubblico, che può godere delle melodie carezzevoli di voce e pianoforte e, insieme, della forza d’impatto di una sezione ritmica trascinante e di una chitarra trasformista ed essenziale. Una strada molto poco italiana, ma che potrebbe essere il punto di forza di Multiverso, disco ibrido, sospeso tra una vocazione innata al rumore e un’evoluzione naturalissima verso la melodia e il romanticismo, ombroso e sanguigno. Una terra di mezzo tutta da esplorare.

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Dr. Irdi – 2

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Chi è (o cos’è) questo fantomatico Dr. Irdi? Un pazzo, un visionario (o un collettivo di pazzi, o visionari)? Cosa significherà mai quella copertina kitsch giallo vomitino (o almeno credo sia gialla, sono leggermente daltonico)? È lui, è sua, quella faccia posterizzata? Ma soprattutto, Dr. Irdi ci è o ci fa?

Ironico fin dal titolo, 2 è il primo, breve prodotto di questa realtà DIY, che si sussurra stia nel frattempo già producendo un full-lenght. La partenza (“Intro”), Elettronica Minimale e casereccia con qualche drone di fondo e campioni di Spoken Word, pare introdurre un certo tipo di lavoro, ma poi arriva “Hollywood”, seconda traccia, a spiazzarci completamente: un’apertura di chitarra decisamente Lo-Fi e un sapore più Rock, voci strascicate accompagnate da un’elettronica elementare ma parecchio orecchiabile. Segue “Tu”, e prosegue il mood sussurrato e confuso del disco: voci sempre più impastate, melodie accennate da synth lontani, basso e ritmiche semplici ma efficaci. Dr. Irdi è sempre più ineffabile: “Armageddon” parte come un canto monastico e poi scivola in una canzone allo stesso tempo ariosa e malinconica – inspiegabilmente – con un lento ritmo in levare e un testo che si indovina in italiano (la voce è sempre bella distante, parte della scena più che protagonista). La chiusura dell’EP viene affidata ad “Iceberg” e al suo piano dolcemente inquietante, dal riff killer, una sorta di “Mad World” (quella rifatta da Gary Jules, intendiamoci) ma con più eroina, per non parlare di quella chitarra sottile e vibrante che si appoggia e si indovina qua e là nella pasta sonora che riempie il brano (e là dentro, ad un certo punto, entra un basso: emozionante).

Dopo aver sbirciato il mondo onirico, nebbioso, folle del Dr. Irdi, le domande che mi ponevo all’inizio non hanno avuto risposta, ma, anzi, si sono presto moltiplicate: che cazzo fa il Dr. Irdi? È Elettronica? È Ambient? È un Desert Rock molto poco suonato del XXI secolo fatto in un parcheggio di un centro commerciale brianzolo invece che nel Palm Desert?
Direi che la chiave per decifrare la proposta enigmatica di 2 sia proprio questa: idee interessanti, mood, in alcuni casi, ineccepibile (“Iceberg”); manca però l’identità, manca il fine, lo scopo, manca il taglio, il punto. Lungi da noi desiderare ad ogni costo un’etichetta sulle cose (anzi): si tratta solo di affilare la lama e di sapere (o volere?) colpire nel punto giusto. Aspettiamo il disco nuovo del Dr. Irdi e speriamo che non si chiami 1.

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Anna Calvi – One Breath

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Non si può non restare colpiti dal fascino suadente e oscuro della britannica Anna Calvi. È una malia femminile e voluttuosa, ma non per questo indolente (come invece può esserlo una Lana Del Rey, pur essendo anch’essa ombrosa e vocalmente eterea). One Breath, il suo secondo disco, potrebbe apparentemente non suonare originalissimo: voce femminile dalla personalità forte più ritmiche intense uguale qualcuno ha detto Florence + The Machine? Sfido chiunque, però, ad ascoltare “Piece by Piece” e a continuare sulla strada del paragone. Anna Calvi prende l’impervia strada dell’Art Rock, miscelando archi taglienti e percussioni ossessive, organi incombenti nascosti appena sotto la superficie che si rompono e si spezzano con l’emergere di chitarre elettriche cacofoniche e disturbanti (“Cry”), passando da canti di sirene ipnotici ed inquietanti (“Sing to me”), armonie ripiegate su loro stesse e appoggiate su soundscape distanti e voci dalla carica sensuale fuori scala (la title-track), fino ai cori da cattedrale della chiusura (“The Bridge”).

Non so decidere, di questo disco, quale sia l’attributo più godibile: se gli arrangiamenti, così beatamente schizofrenici e radicalmente liberi; il mood, così scuro eppure così sensuale, così lieve nel suo pungere sul vivo eppure così decadente; oppure la voce, un mix killer delle già citate Florence e Del Rey, una voce lasciva, morbida, ma anche aguzza, affilata come un machete, o densa come sciroppo. Per gli amanti delle atmosfere meno prevedibili, un disco da consumare riscoprendone ogni volta lati nuovi ed inaspettati, fino a quando, inevitabilmente, non vi capiterà di invaghirvi della sua tenebrosa autrice, diabolicamente intenta a sussurrarvi nell’orecchio le sue canzoni maledette e dolcissime, facendovi, ogni volta, rabbrividire un po’ di più.

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Virginiana Miller – Venga il Regno

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Ritornano i Virginiana Miller, ritorna il loro Rock, leggero nella forma ma denso nei contenuti, sbilenco, d’autore. Il nuovo lavoro si chiama Venga il Regno, e ci consegna una band con un’identità precisissima: una voce inconfondibile (quella di Simone Lenzi), sia nel senso più prosaico di espressione canora che in quello di visione poetica, e un sound accessibile, ma con soventi cambi di registro che aiutano a non bloccare l’ascolto ma a mantenerlo vivo.

Venga il Regno è fatto soprattutto da canzoni, belle canzoni: “Una Bella Giornata”, il singolo d’apertura, è il classico apripista, orecchiabile ma per niente stupido, con un preciso senso Pop e un bel tiro consistente (e un testo splendido: “È inutile / lo sai / restare lì nascosta / non è mai troppo presto / per rimettersi in piedi / e rialzare la testa / e se non è domenica / se non sarà più festa / andrà bene lo stesso / perché la vita ti vuole / perché ti vuole adesso / in questa bella giornata / l’aria è pulita / la strada asciutta / la pioggia goccia a goccia / è già caduta tutta”). Ci si scurisce un po’ in “Anni Di Piombo” (secondo singolo) anche se, forse, un po’ meno di quello che ci si aspetterebbe. I Virginiana Miller sono così, chiaroscuri: non sono fatti per vivere di estremi; vivono di spostamenti, di atmosfere, di metamorfosi. Hanno un sapore retrò, da film d’autore (e non sarà un caso il David di Donatello vinto con “Tutti i Santi Giorni”, canzone che dà il titolo all’omonimo film di Paolo Virzì, ispirato ad un romanzo dello stesso Lenzi). Sono crudi e dolci, sono schietti ed eleganti (vedi la commistione di sonorità morbide e testo tagliente di “Nel Recinto dei Cani”: “Venga il regno / e sia dei cani”). Sono spiazzanti: ti preparano alla lentezza e poi procedono per scatti (“La felicità è un dono / passa di mano / e poi si dimentica / raggio di sole / che illumina / si posa sui volti / la felicità è una cosa degli altri”, da “Due”).

Venga il Regno è un disco solido, in cui musiche e testi si attorcigliano e si inseguono, a volte si allontano, a volte combattono, ma sono sempre nel punto giusto, nella direzione che serve. Non troverete nei Virginiana Miller gli alfieri di chissà quale nuovo modo di intendere la musica, ma certamente si confermano dei capaci e affidabili “costruttori di canzoni”. Avercene.

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