Lorenzo Cetrangolo Tag Archive

I Quartieri – Zeno

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C’è una teoria abbastanza strampalata sull’evoluzione della cultura giovanile che lega le ondate e i riflussi di alcune modalità d’espressione, non solo artistiche, ai cicli solari. Formulata da Iain Spence nell’ormai lontano 1995 e poi più volte modificata e ritrattata, viene esposta anche dal grande Grant Morrison nel suo libro semi-autobiografico Supergods.

Per farvela breve, una versione di questa teoria collega i cicli solari, di 11 anni, a come nascono e si sviluppano le youth cultures. In particolare, si possono (o potrebbero) notare due poli: uno hippie, che si porta dietro la passione per capelli lunghi, vestiti larghi, musica popolare in forme dalla durata mediamente più lunga, droghe psichedeliche, pace, e un interesse maggiore verso la spiritualità; l’altro punk, che implica il contrario, ossia capelli corti, vestiti stretti, musica più corta e immediata, droghe eccitanti, aggressività, materialismo.  Secondo questa teoria, nel 2010 dovremmo essere tornati alla fase hippie, ed effettivamente (per quanto l’ipotesi Sekhmet, questo il nome, non sia basata, ovviamente, su nulla di scientifico) noto uno svilupparsi sempre crescente di situazioni collegate a questo “polo”.

Per esempio, se fossimo in un periodo punk, questo bell’album de I Quartieri sarebbe forse di un pop più acustico, più folkeggiante/cantautorale, un po’ più ruffiano, un po’ più paraculo. E invece, per nostra fortuna, siamo nel 2013: la band romana ci regala Zeno, un album denso di Pop Rock sognante e, per l’appunto, psichedelico. Pop Rock perché il Pop sta nella leggerezza e nell’immediatezza catchy di alcuni “ganci” incredibilmente efficaci, nella messa in scena più che accessibile, nelle voci morbide, distanti, e dal timbro assai caratteristico; ma la forma, espansa e avvolgente, dei loro morbidi soundscapes è molto Rock, nell’accezione più ampia del termine. Capiamoci, niente chitarre distorte e batterie fucilate, ma piuttosto uno spirito Rock, molto sixties, per l’appunto: psichedelico, “psiconautico”, pacifico, spirituale, in senso lato; poco materialista, se preferite.  Zeno è una carrellata di visioni spiraleggianti, circolari. Dall’apertura “9002”, una processione lenta, vicina a certi Arcade Fire, fino alla title track, che parte più classica ma poi si apre su movimenti imprevedibili, e ti entra sottopelle con lenta facilità (o facile lentezza, fate voi). Da “Organo”, traccia conclusiva che richiama i Low più ariosi e sintetici, alla mia preferita, “Argonauti”, con quel giro armonico e quella melodia che si fissano là, tra la gola e le orecchie, e lì rimangono, per ore, a ruotare, lente.

 Nel complesso, un’ottima prova quella de I Quartieri, che riescono ad accompagnarci con tranquillità su e giù per tutto il nostro spettro emotivo, anche se, bisogna ammetterlo, Zeno funziona al suo massimo quando si tratta di immergersi nei fondali oceanici: quando naviga a vista, sotto costa, ci rapisce un po’ di meno e si confonde un po’ di più. Ma questa è senz’altro colpa del ciclo solare hippie, che ci condannerà a psicanalizzarci in musica per almeno altri sette anni…

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Saluti Da Saturno – Dancing Polonia

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Dancing Polonia è il terzo disco dei Saluti da Saturno, progetto artistico guidato da Mirco Mariani, di caposseliana memoria. Le loro specialità sono la leggerezza, lieve e sognante, di un Dream Pop/Jazz Folk dai toni evanescenti e sottili, e il parco strumenti vario e sorprendente (Ondioline, Ondes martenot, Glassarmonica, Cristal Baschet, Mellotron, Intonarumori…), qui appoggiato alla spina dorsale impalpabile di un pianoforte che loro definiscono “strumento per eccellenza della canzone d’autore farcita con velature e sfumature di Free Jazz”.

Dancing Polonia è una colonna sonora onirica, fantastica, che pesca dai ricordi e dalla nostalgia, ma anche dalle distanze e dall’esotismo più magici. Ispirato a “sapori e immagini di film finlandesi, armeni e italiani”, diventa poi materiale fondante di cinematografie ancora più irreali: quelle che vengono messe in scena nella mente degli ascoltatori, liberi di crearsi sceneggiature, scenografie e ambientazioni proprie in cui far vivere gli spazi immensi e i sapori retrò di queste canzoni così impalpabili eppure così immediate, naturali.  Tra episodi più intensi (“Dancing Polonia”) e momenti di apertura ritmica (“Un Giorno Nuovo”) si snocciolano perle di luce soffusa (“Venere”) e stralci di una musica stonata proveniente da locande fuori dal tempo (“Di Notte”), così come caleidoscopiche giostre di suoni giocattolo (“Canzone di Cera”), canti chiaroscuri da occhio di bue su piccoli palchi in ombra (“Scintilla”), morbide, ampie aperture di cori e chitarre (“Le Luci della Sera”, con Paolo Benvegnù).

Dancing Polonia vede la collaborazione di un folto numero di artisti, dal già citato Benvegnù ad Arto Lindsay, da Massimo Simonini, produttore artistico, a Alessando “Asso” Stefana, Taketo Gohara, Vincenzo Vasi, Christian Ravaglioli, Giancarlo Bianchetti, Marcello Monduzzi, Bruno Orioli, Roberto Greggi e anche questo può dare un’idea del tipo di complessità che aleggia nel prodotto dei Saluti Da Saturno, pur se ben nascosta sotto strati di leggerissimo panno musicale, vellutato e morbido: è la leggerezza dei castelli di carte, che stanno in piedi apparentemente senza sforzo, ma in realtà grazie ad un sistema di equilibri magicamente determinati dal lavoro certosino e paziente di qualche “architetto” sapiente. Il disco perfetto in questo momento di cambio di tempo, mal di testa, e nubi pesanti all’orizzonte. Come un palloncino legato al cuore, come un ombrello a fiori.

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Fuck Buttons – Slow Focus

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Terzo disco per i Fuck Buttons, duo elettronico di gran moda proveniente da Bristol. Bando alle ciance e prepariamoci ad immergere la testa in questi sette brani strumentali che promettono fuoco, fiamme, elettronica e rumore.  Partiamo con “Brainfreeze”: è una cavalcata onirica, sorretta da un’artiglieria di percussioni infuocate e inarrestabili che affondano in un crescendo Noise apocalittico. È ciò che balleranno sulle ossa dei morti di domani i nostri discendenti, quando la Terra sarà un sasso abbrustolito rotolante in uno Spazio sempre più vuoto, o quando le macchine avranno vinto la loro guerra contro noi organismi al carbonio. Una roba così.

Segue “Year of The Dog”, arpeggiatori e fantasmi, cose che strisciano, case infestate, fuochi fatui nella nebbia, enormità percepibili nella distanza. Rimane, dal primo pezzo, il senso di qualcosa che incombe, sviluppato in crescendo e improvvisi vuoti. Con “The Red Wing” si torna ad una realtà più contigua. L’inizio potrebbe sembrare la base di un pezzo rap, con quel suono campionato, come di campanelli, acuto e perforante, che ci fa muovere la testa su e giù… se non fosse per i lievi spostamenti, per così dire, laterali, che fanno capolino qua e là tra la ritmica secca e ossessiva e i synth, scuri e gonfi al principio, poi taglienti e aperti, panoramici, che ci avvolgono mentre la canzone prosegue, passo dopo passo, come un Godzilla afroamericano che avanza a ritmo.

La ritmica è il lato migliore dei Fuck Buttons. Se non lo avessimo ancora capito, arriva “Sentients” ad insegnarcelo, con un intro martellante di suoni percussivi elettro-tribali e strida meccaniche. Un pezzo sul quale ballerebbe breakdance una crew di robot. Almeno finché non arrivano i synth, in un’entrata come la farebbero i quattro Cavalieri dell’Apocalisse, o le Sette Trombe del Giorno del Giudizio. L’incombenza di un Destino, di una Fine non troppo rosea pare essere un marchio di fabbrica dei Fuck Buttons, insieme all’andamento “in salita” che quasi tutti i pezzi, fino ad ora, hanno mostrato. E invece, con “Prince’s Prize”, i due di Bristol ci spiazzano e paiono, almeno all’inizio, giocherelloni e light-hearted. Quest’atmosfera playful resiste? Non troppo: prima del minuto e mezzo giungono le percussioni e l’andamento diventa più serrato, più pressante. È il brano più breve, e forse il più scorrevole: degna preparazione della combo finale, due pezzi da più di 10 minuti l’uno.

Il primo, “Stalker”, è una scalinata di pietra verso un cielo plumbeo. Synth sporchi e pesanti come piedi di golem pestano su una batteria asimmetrica e zoppicante, mentre i soliti arpeggiatori brillano nella distanza, vibrando per punzecchiarci le orecchie. Poi, eccoli: raggi di luce tagliente tra le nubi, come le dita di Dio, che avvolgono tutto in un’apertura da manuale ancora prima della metà del brano. Sono oceani di synth spalancati sul caos come archi, come onde. E la salita continua, e cresce: la scalinata diventa un serpente-drago che si morde la coda salendo, a spirale, nel confine sottile tra il buio e la luce. Concedetemi l’immagine: “Stalker” è un viaggio onirico, non c’è altro modo per descriverlo compiutamente – saremmo costretti a limitarci (ammesso che sia possibile farlo) alla fredda descrizione di ciò che percepiamo, e non basterebbe a spiegarvi davvero il potenziale di un brano di questo tipo. Quando “Stalker” si spegne, non riesco a credere che siano già passati dieci minuti. E mi tengo forte, aspettando l’ultimo pezzo.  Iniziamo, come sempre, in sordina: un battere distante, graffi acuti ad altezza occhi, e poi un ringhio di synth riempie il centro della scena. Quando la ritmica arriva, la sto aspettando: Slow Focus avanza coerentemente, qualcuno potrebbe dire noiosamente, ma la forza dei Fuck Buttons sta anche in questo: se il pezzo ti prende, non te ne frega un cazzo di cosa si ripete e cosa no. Segui il flusso, la marea, la corrente, e ti ritrovi chissà dove.

E infatti, abbandonandomi a “Hidden XS”, mi trovo ad un certo punto in un vortice acido, sopra un treno argenteo che sembra un proiettile, e ad un certo punto il vortice si ferma, i binari scompaiono e il treno sembra sospeso nell’aria, immobile, a levitare al rallentatore. Aspettiamo la caduta stringendo i braccioli del sedile: ma il volo prosegue, leggero, in una sequela di accordi che sembrano suggerire un’epifania, una rivelazione; e si sale, sempre più su, sempre più veloci, sempre più in alto, quasi ferocemente, disperatamente – fino a scomparire nella luce immensa di un Sole accecante. Slow Focus è un abisso, una labirinto nel quale sprofondare, lasciandosi illuminare, a poco a poco, dalle apparizioni del subconscio. Non è esente da difetti: i pezzi seguono spesso, come dicevo, lo stesso tracciato, e l’atmosfera complessiva non è quasi per nulla variegata (il senso di progressione in crescendo, le ritmiche ansiogene e primitive, l’apertura verso la metà, la rivelazione, la chiusura rarefatta finale). Tolto questo, i Fuck Buttons ci hanno regalato la possibilità di gettarci a capofitto nelle stanze del sogno, quello vero: brutale, primevo. E noi accettiamo l’offerta, e ci prepariamo alla partenza: orecchie, cuore, cervello.

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Matta-Clast – De Morbo

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I Matta-Clast producono, nel loro studio e con la loro Matta Sound, un EP per nervi tesi: diretto, duro, spigoloso. Il loro Rock meticcio si tinge di sonorità Heavy quando spinge, tra batteria Hardcore Punk e voci gutturali e confuse, mescolandosi poi con inserti d’Elettronica grezza e minimale. De Morbo predilige la brevità e l’incisività al discorso composito: brani corti e sottili come graffi, che ruotano attorno a riff inquieti e testi da filastrocca.

Il prodotto, nell’insieme, non è male, ma manca ancora quel tocco originale che potrebbe invogliarci a riascoltare il disco una volta finito. Note di demerito per voce e testi, la prima che stona con l’impianto generale del loro sound, troppo teatrale e pericolosamente vicina al rischio auto-parodia, e i secondi che non brillano d’inventiva e falliscono nel tentativo di incuriosirci e andare ad approfondirli. Interessanti, comunque, “Sono Migliore di Te” e l’introduzione di “Febbre”, dove i Matta-Clast riescono ad inquietarci e a tenerci stretti con spezzoni ritmici aggressivi e dissonanze ossessive. Nel resto del disco tendono a essere più apertamente lineari (“Non Sono in Me”) e questo gli riesce peggio. Un buon tentativo, insomma, ma con ampi margini di miglioramento.

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Luomoinmeno – Quel Filo Sottile Che Chiami Voce

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Dopo l’ascolto di Quel Filo Sottile Che Chiami Voce, EP tremendamente Lo-Fi dell’evanescente Luomoinmeno, dire che mi trovo interdetto è davvero troppo, troppo poco. Le otto tracce, rigorosamente chitarra acustica e voce, dai titoli amorfi come “001”, “002”, ecc., fino all’ultima, che invece diventa, plot twist, “Alba Distrutta”, presentano una scrittura che è quasi litania, un cantato più che flebile, sottile al limite della trasparenza, e un suonare asciutto, lineare, diretto.

C’è del materiale anche interessante, passaggi orecchiabili e immagini accese, quasi crudeli, spesso curiose. Ma la presentazione è delle più povere possibili: stonature che rimangono, rumori di fondo, una registrazione particolarmente scadente (con persino il suono di play e stop ad ogni cambio di brano). Va bene, la forma non è tutto: ma bisogna avere rispetto per le cose che si fanno, e tranne rare eccezioni, in cui la povertà della messa in scena è parte integrante dell’opera d’arte, fare in questo modo è un rischio davvero troppo elevato, per lo meno rispetto alla facilità odierna di accedere alla possibilità di una registrazione decente. Quel Filo Sottile Che Chiami Voce, o almeno così pare leggendo tra le righe, ha cose da dire e uno stile proprio nel farlo. Sfiora spesso il rischio di far confondere un brano con l’altro, ma potrebbe darsi sia anche colpa della povertà degli arrangiamenti. Di certo, speriamo che la prossima volta Luomoinmeno sia pronto a spendere più tempo e più risorse per dare alla sua musica una pulita e un bell’abito nuovo.

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King Suffy Generator – The Fifth State

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Dopo il Quarto Stato arriva il Quinto. I King Suffy Generator, ispirati dalle opere del pittore e scultore Giorgio Da Valeggia, ne fanno un concept-album, strumentale, sul processo che ha portato l’uomo ad essere vittima della stessa società che aveva in passato cercato di cambiare. Da forza motrice a ingranaggio muto.

Il disco si apre con “Derailed Dreams”, tra chitarre e basso pulsanti, melodie imprevedibili, ritmiche ossessive, fino all’apertura del finale. Si prosegue con “Short Term Vision”, dalle parti dei God Is An Astronaut più intensi, o come una versione meno graffiante dei Kubark: arpeggi circolari, pulsazioni zoppicanti e atmosfere ariose, con in coda un finale perfetto, che s’inchioda nella mente con sorprendente facilità. “Rough Souls”, basata su appoggi di synth su sfondo noise, è nient’altro che una decompressione intermedia che ci porta a “Relieve The Burden”, acida e pungente, dove le chitarre predominano, alte e frizzanti, a scalare su e giù per la tastiera in riff inquieti, infestanti, e inserti ruvidi – la lezione della Psichedelia sixties viene assimilata e rielaborata attraverso il prisma del Post-Rock anni 90. Col piede si tiene il ritmo, con la testa si viaggia lontano. Il finale viene lasciato ad una coda di pianoforte e voci distanti: una nota malinconica prima dell’uno-due finale.

“We Used to Talk About Emancipation” parte con un solido impianto ritmico, furioso e asimmetrico, e finisce riprendendo l’atmosfera, incattivendola, della chiusura di “Short Term Vision”, in un corto-circuito che provoca un interessante deja vù;mentre “Tomorrow We Shall See” mantiene alta la carica energetica degli ultimi due brani e la porta in situazioni ritmiche prima ondeggianti poi martellanti, con le distorsioni delle chitarre che premono contro basso e batteria, aprendosi qua e là in scoppi o distensioni improvvise che spezzano la continuità del brano, facendolo diventare una piacevole corsa ad ostacoli che non perde però in naturalezza. Verso la fine si rallenta e si prende un bel respiro: la sensazione è quella della camminata gonfia d’ossigeno dopo lo scatto feroce per arrivare al traguardo. The Fifth State è un ottimo album di musica strumentale: Post-Rock energico, abbastanza orecchiabile, psichedelico, atmosferico. Ai King Suffy Generator manca solo qualcosa che possa rendere più personale la loro opera. Detto questo, il disco ha senza dubbio tutte le carte in regola per poterlo consigliare, senza scrupolo alcuno, a tutti gli amanti del genere.

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Nuovissimo Canzoniere Italiano

Written by Live Report

01 Settembre 2013 @Magnolia, Milano

Arrivo al Magnolia di Milano che la serata è già iniziata da almeno un’ora. Mentre cammino sulla via dell’entrata penso che questo Nuovissimo Canzoniere Italiano, serata dedicata alle “nuove” (?) leve del cantautorato italiano, potrebbe, alternativamente, essere un evento-bomba o una fiera della noia.

Non vi racconterò la serata dall’inizio alla fine: mi è, innanzitutto, impossibile, dato il mio arrivo in ritardo e la mia dipartita in anticipo (all’incirca dopo l’esibizione di Dario Brunori). Vorrei però darvi un’idea di come si è sviluppata, per quanto ho potuto esperire, questa maratona (30 artisti, 3 canzoni ad artista, partendo dalle ore 19), nata da un’idea di Marco Iacampo, appoggiata da Dente e dal Magnolia, che l’ha ospitata. Di cosa si trattava, in soldoni? Di piazzare su un palco qualche decina di cantautori che potessero ricreare quell’attenzione verso la canzone nella sua anima più pura, quell’approccio voce e strumento (voce e chitarra nel 90% dei casi) che è allo stesso popolare e intellettuale, passatempo delle masse e empireo del racconto lirico, dove le parole regnano e narrano tutto il prisma delle emozioni umane in finestre di tre, quattro minuti per volta.

Ma non solo: si trattava anche di dimostrare, empiricamente, che una “scena” della musica italiana d’autore “indipendente” esiste e, anche se il fine dell’evento non era assolutamente quello di “creare un manifesto”, si leggeva tra le righe il tentativo di fare una summa delle esperienze cantautorali più in vista del momento (con qualche assente eccellente, per esempio un Vasco Brondi). Ha funzionato, la cosa? Nello specifico, è stata una “festa della canzone”? Ma soprattutto, i cantautori di oggi fanno parte di una specie comune? E che qualità media si intravede nei loro dieci/quindici minuti di esibizione a ruota libera? Insomma, il Nuovissimo Canzoniere Italiano rappresenta la musica d’autore italiana indipendente (o una parte di)? E questa (o questa parte di) è in buona salute?

Andiamo con ordine. Iniziamo col dire che la prima cosa che ha assalito le mie orecchie camminando sul prato del Magnolia durante l’esibizione di Alessandro Fiori (che non ha nessuna colpa tranne quella di essere stato lo sfondo della mia entrata in loco) è stata la noia. Non la mia, nello specifico: quella di un pubblico sì numeroso, ma certo non concentrato sulle canzoni (o almeno, non in quel momento). Cinquanta persone fisse sotto il palco, le altre a farsi i cazzi propri in giro per il prato. Non riesco neanche a dar loro torto, per la verità, e la scusante sta tutta nel problema principe della serata: la varietà (inesistente). 30 artisti con 3 canzoni a testa dovrebbero garantire un buon grado di varietà, si pensa; e invece no: canzoni lente, spente, senza verve, per la maggior parte tristi, ed è davvero un cliché della musica d’autore che prende vita, questo… si salvano i pochi allegri o ironici (Dente, Brunori) e quelli agguerriti (Maria Antonietta, Bianco). Colpa anche della modalità scelta, forse: 30 artisti in fila, tutti con chitarrina al seguito, non possono in ogni caso sfuggire ad un effetto appiattente, per quanto estrosi e ispirati possano essere. Ma anche all’interno di ogni singola mini-esibizione non brillava la fiamma del divertimento: tutti cantautori di più o meno successo, alcuni con diversi anni di esperienza alle spalle, e pochissimi che abbiano scelto 3 canzoni agli antipodi, per darci un assaggio delle loro capacità compositive o interpretative. La varietà questa sconosciuta, dunque; ma non solo quest’ombra ha offuscato la (lunga) serata acustica. C’era in generale (o almeno questo si percepiva) poca voglia di sorprendere, di incantare il pubblico: pochi ci sono riusciti (il già citato Brunori, o lo splendido, nella sua naiveté eccentrica e contagiosa, Davide Toffolo). E poco importa che le canzoni fossero belle (o meno): passavano sulle teste del pubblico come la pioggia che iniziava lentamente a cadere, e solo i grandi nomi riuscivano a magnetizzare la folla e a farla tornare sottopalco (o qualche tormentone del momento, come l’ironica “Alfonso” della peraltro bravissima Levante).

Ritornando alle nostre domande: se “festa della canzone” doveva essere, bè, non lo è stata; le canzoni sono passate in secondo piano rispetto alla bravura e al carisma del singolo interprete, o, se vogliamo, al grado del suo successo. Il genus del cantautore post anni zero s’è visto? Io, sinceramente, non l’ho visto; se c’era, non me ne sono accorto; e forse preferisco così. Forse illuderci che esista una scena è un modo bellissimo per credere in qualcosa, ma si tratta solo di rare somiglianze (che non fanno mai bene in un mondo che dev’essere caleidoscopico e variopinto per non morire) e usuali amicizie, contatti e collaborazioni (che sono utilissime ed essenziali, ma terminano nei rapporti personali tra gli artisti – per inciso, qual è stato il criterio per invitare, o accettare, gli artisti su quel palco?). La qualità media non è stata disastrosa, ma sfido chiunque a dire che si sia mantenuta su un livello d’eccellenza: tanti bravi artisti che mi hanno incuriosito (oltre a quelli che ho citato sono stati molto interessanti Marco Notari, Oratio, Colapesce e Dimartino – ricordo che molti, tra cui Nicolò Carnesi e Appino, non ho avuto occasione di ascoltarli), ma tanti altri sono scivolati come l’acqua dell’Idroscalo tra le piume delle papere. Come concludere? Io direi: tralasciando ogni eventuale significato socioculturale esteso, ed evitando ogni deduzione statistica – insomma, considerando la serata solo nei suoi attributi più direttamente percepibili, ossia un concerto con 30 artisti sul palco per una dozzina di minuti a cranio, si può dire che, sì, tra tanti cantautori ve ne sono parecchi interessanti, e che sì, è bello vederli affrontare la canzone nel suo lato più intimo e raccolto. Ma, e attenzione alla grandezza ciclopica di questo “ma”, la formula non è delle migliori, e il sottotesto che questa formula implica mi disturba e mi lascia alquanto amareggiato. 30 artisti sono troppi per un palco solo. Tanti sembravano lì solo in quanto conoscenti di Iacampo. E questo dividere ancora la canzone in “canzone d’autore” e “altro” è solo perdere dei pezzi; per non parlare del considerare il “cantautore” qualcosa di definibile a priori. Quanto rende di più un Dario Brunori con tutta la Brunori Sas al seguito? O un Davide Toffolo con i Tre Allegri Ragazzi Morti? Quanto è noioso (per quanto possano essere “belle” le sue canzoni, non è questo il punto) un Federico Dragogna senza i Ministri? Dove sta scritto che LA CANZONE vive nel connubio voce+chitarra? La canzone (o meglio, la canzone “bella”, o “importante”) è per forza “canzone d’autore”? Il Teatro Degli Orrori non fa canzoni d’autore? I Verdena? Davvero crediamo ci sia ancora differenza, o conflitto, tra la “canzone d’autore” e il Rock? E poi, la canzone d’autore dev’essere per forza seria, triste? I Selton non possono fare canzoni d’autore?

Forse tante di queste cose non sono nemmeno passate per la testa di nessuno, né organizzatori, né artisti, né pubblico, ma sono concetti che, per come è stato pensato e per come è stato messo in pratica questo Nuovissimo Canzoniere Italiano, rimangono sottesi, che lo si voglia o no. Forse pensiamo tutti troppo (io per primo), e la realtà è che, più che manifesti (non è questo il caso), maxi-rassegne, serate-evento, più che masturbazioni semantiche, voli pindarici e manifestazioni narcisistiche, forse più che tutto questo, servirebbero solo più concerti, con gente più brava, con canzoni più belle.

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Hyaena Reading – Europa

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Sporchi, disturbanti, taglienti e diretti. Gli Hyaena Reading, gruppo italo-francese che s’ispira al Blues primevo (“Uccidine Uno”, “Atto d’Amore”) e al Post-Punk più martellante (“Vendetta”), ci portano, dopo la prova precedente dell’Ep Des-illusions, in questo loro ultimo disco Europa, gonfio di rumori, di ansia, di attese. A tratti rarefatte al limite del Post-Rock (“In Netta Ripresa”), le tracce si snodano tra riffettoni e chitarre bagnate (“Sacrifices”), synth cupi e Noise evanescente, ritmiche fredde e ossessionanti (“Di Pietra”) e vuoti da decompressione (“Steam, Vapore, Vapeur”), accompagnate da testi in italiano e francese che spesso vengono sussurrati all’orecchio dell’ascoltatore, brevi e immaginifici, o che si sforzano rauchi in grida distanti e affilate.

Sorta di CCCP che incontrano il Blues, o di NiCE sotto Valium in salsa francofona, gli Hyaena Reading creano una loro precisa atmosfera, e questo equilibrio tra elementi apparentemente distanti come il Blues, il Post-Rock, il deserto e le batterie elettroniche (“Preghiera Per il Mio Deserto”) rende Europa un curioso oggetto musicale non identificato. Da provare.

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Luca Mancino – Libera

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Il dubbio su Luca Mancino e il suo ultimo album Libera mi è venuto già alla lettura del comunicato stampa che lo accompagnava: “…un concentrato di semplice tradizione pop-rock italiana, che non si risparmia di percorrere strade giù [sic] battute […]Ecco l’esordio di Luca Mancino, cantautore molisano che fa il suo ingresso nel mercato discografico con un lavoro che ha tanto da dire, con la semplicità e l’ingenuità di chi non ha la presunzione di inventarsi e di voler stupire”.

Al che mi chiedo: è davvero presunzione, voler inventare, o inventarsi (?), o voler stupire? Non è ciò che ha spinto la musica, anno dopo anno, disco dopo disco, sogno dopo sogno? Sono troppo idealista, forse, e dovrei leggere questo disco per quello che è: un prodotto commerciale (nel senso proprio della parola: destinato alla vendita). Ma perdonatemi, ho una certa impostazione mentale che, purtroppo, non me lo permette. Di certo non è l’unica possibile, e forse non è neanche quella giusta, ma è la mia, e sono condannato ad utilizzarla ogni qualvolta mi capiti di dover dare una sbirciata al mondo.

E quindi: Libera è un disco prodotto egregiamente dal certamente capace Domenico Pulsinelli, e si snoda in nove canzoni di un Pop-Rock italiano dei più triti mai sentiti. Fantasmi vari infestano le tracce di questo disco, soprattutto nel timbro e nell’uso della voce (Ligabue, Negrita, Enrico Ruggeri). Poco, pochissimo, riesce ad aggrapparsi e a farsi ricordare, in particolar modo nei testi, che non brillano certo per originalità.

In sostanza, e senza perderci troppo tempo: un’operazione del genere ha senso se è il mezzo per dare spazio ad un performer eccelso, istrionico, eccentrico, che si appoggia sul già sentito per stracciare sul loro campo altre realtà dello stesso tipo, passate e non, che hanno già dimostrato di saper dare qualcosa. Purtroppo non mi sembra che Luca Mancino abbia queste qualità: se avesse cercato di crearsi un suo spazio sarebbe di certo risultato più interessante. Ma, a quanto pare, non ha la presunzione di inventarsi, e quindi rimane la copia sbiadita di altri cento identici prodotti.

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Palkoscenico – Rockmatik

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Napoli colpisce ancora: è un mix esplosivo di Reggae, Dub, Rock ed Elettronica quello che ci donano i Palkoscenico, nella scia dei conterranei 99 Posse e Almamegretta. Dodici tracce in levare, con ritmiche trascinanti e un impianto World che però riesce, almeno per quanto riguarda le liriche, a sfuggire alla noia del già detto, probabilmente grazie ad uno sguardo laterale che sfugge i cliché e le frasi fatte.

C’è però tutto ciò che ci aspetteremmo da un disco del genere, senza inventare granché ma collezionando ciò che serve per colpire a fondo tutto un certo target: materiale a chili per ballare, muovere la testa su e giù, canticchiare sottovoce per strada con Rockmatik nelle cuffie. È un disco solare ma critico, divertente ma con una coscienza, e sicuramente pronto a far scatenare folle festanti dal vivo.

Se non vi piace quel mondo, quel mood, è inutile andare a scavare: ma, altrimenti, Rockmatik è un disco di tutto rispetto, simpatico, confezionato sapientemente e scritto con tutti i crismi del caso. Un compagno gioviale e sincero per un’estate danzereccia.

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Machweo – Leaving Home

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Machweo significa tramonto, o almeno così ci dicono: e l’impianto di questo primo full lenght, Leaving Home, ha effettivamente un sapore crepuscolare. Machweo è un ragazzo di vent’anni, italiano, che gioca con suoni, ritmi, campioni e atmosfere, componendo un pastiche rilassato e rilassante, un vortice di riverberi ed echi che riesce a rapire il nostro ascolto con levità. Strumentale ma non appesantito da eccessivi barocchismi, il disco si snoda tra un’Elettronica Ambient Minimale che si potrebbe facilmente confondere con il Post-Rock più soffuso à la Tortoise (“The Sadness of Fire”), o con qualche episodio dei Godspeed You! Black Emperor, senza tralasciare qualche strascico Pop (andate a sentirvi la tranquillità Chillout dell’opener, “Looonely”), e qualche richiamo all’Elettronica più hip del momento (“I Love You But You Left The Cigarettes at Home” e “My Backseat”, dalle parti di un Flying Lotus, con le dovute proporzioni).

Machweo ci porta per mano qua e là nel suo mondo di atmosfere pacate e rarefatte(a volte affrontandolo come un vero e proprio percorso, come nell’uno-due di “U Stronger” e “The Bottom Of The Ocean”, dove i suoni acquei collegano e immergono ritmi di suoni percussivi alieni e semplici riff in un maelstrom di piacevole confusione), non senza lirismo (“U Sad”) o gusto per un’ossessività psichedelica in senso lato (“Bad Trip on Marijuana”).

Il suono è molto curato, ma allo stesso tempo semplice, abbordabile, in questo senso Pop (“Chase The Sun”). Ciononostante, Leaving Home rimane un disco non certo alla portata di tutti. Ma se non vi spaventa la sostanza aleatoria della musica elettronica, e non vi fate intimidire da undici brani strumentali che tentano di creare un marasma cosmico nelle vostre orecchie, Machweo vi porterà in posti curiosi e in sentieri non troppo segnati. Un viaggio da tentare.

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La Band Della Settimana: Sula Ventrebianco

Written by Novità

“I Sula Ventrebianco nascono nel 2007, dall’unione di due band che militavano nell’hinterland napoletano, Moist e Kimera. E ciò che ne è venuto fuori è una nonna, tutta rughe e gobba, abiti sudici e fiatone, che ti insegue, con in mano strani oggetti, per cancellarti quel ghigno che hai sulla faccia. Redenta, ritorna a riempire i tuoi pomeriggi di favole e torte di mele.
Il nostro è un istinto primordiale, che desidera venire fuori, senza grattarci troppo. Ci limitiamo solo ad avvisarvi ed accarezzarvi, poi a voi le armi ed a voi le scuse.
La musica è arte? L’arte è pittura? Poesia, scultura? Architettura?
E la sofferenza, o la pace? O la violenza? O l’amore, o la felicità? E il sesso? Ed il farsi male per non farlo agli altri?
L’essere è già arte. Tu mi insegni che l’arte è tutto ciò che è forte, soprattutto quando non fa rumore?”

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