Lorenzo Cetrangolo Tag Archive

Ilaria Pastore – Il Faro la Tempesta la Quiete

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Ilaria Pastore arriva al secondo disco con delle cose da dire (e non da poco): si parla di maturità, amore, rispetto per se stessi, per il proprio tempo, per i propri dubbi. Ci arriva con le idee chiare, una voce pulitissima e leggera, scevra da ogni traccia di retorica, e un gusto per l’arrangiamento scaleno e obliquo (curato da Gipo Gurrado) che rende Il Faro la Tempesta la Quiete un’opera leggiadra, iridescente, sempre in movimento.

Il nucleo del disco è il binomio voce-chitarra, gestito sempre con una limpidezza esemplare, e con inserti misurati e accorti di batteria, basso, pianoforte, archi e fiati, che allargano il campo senza mai strafare, con una precisione di incastri di melodie e armonie che avvolge e distende.
Ilaria Pastore sa raccontare senza fronzoli dettagli minuti ma importanti: una foto della madre che sorride tra i panni stesi (“Polaroid”), il dubbio come luogo della mente da cui non bisogna per forza fuggire ma in cui si può, e forse si dovrebbe, anche sostare (“Il Dubbio”), e poi la vita di coppia, soprattutto nelle sue difficoltà e fragilità (“Buio Pesto”, “Tu Sbufferai”, “Va Tutto Bene”, “Decifrato”). Il racconto è semplice ma efficace; a volte inciampa nel ridicolo (“Compro Oro”), ma spesso riesce nell’impresa di far convivere una scrittura colloquiale e una pregnanza inaspettata: in questa passeggiata così breve / consideriamo tempo perso quello speso bene, da “Ricordi Migliori”; o forse sarebbe meglio trovare la volontà di dirsi / siamo in ritardo / abbiamo sprecato del tempo e del coraggio ed ora / siamo in ritardo, da “Va Tutto Bene”, che fotografa un certo sentimento che pare serpeggiante in una società basata sulla fretta e sulla competizione sfrenata, anche nel rapporto a due.

Il faro la tempesta la quiete rischia qui e là lo scivolone quando la semplicità dei testi, spesso gradevole, si avvicina pericolosamente all’ombra della sciatteria; per fortuna ciò non accade spesso, e Ilaria Pastore arriva alla fine con grazia e convinzione, merito soprattutto della sua voce sempre impeccabile e dal timbro così trasparente, fresco e intenso insieme. Con qualcosa in più sarebbe stato un album meraviglioso – si dovrà accontentare (si fa per dire…) d’essere un buonissimo disco.

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Luca Di Maio – Letiana

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Con Letiana, esordio solista di Luca Di Maio, parto dalla fine: non perdetevi questo gioiellino di disco se appena appena vi interessa il futuro del cantautorato nel nostro Paese. Perché? Senza farla lunga: ci sono elementi, in Letiana, di una classicità senza tempo, eppure non c’è polvere, non c’è il maleodorante olezzo di putrefazione che spesso aleggia sul Cantautorato che si rifà alla santa, elementare trinità (testi curati, chitarra acustica e temi forti).

Luca Di Maio canta di migranti, di morti sul lavoro, di violenza sulle donne, ma anche di amore, di perdita, di addii, di sconfitte, con una delicatezza e una grazia assai rare. I testi sono centratissimi nel loro ossimorico affrontare a testa bassa il mondo ma di sbieco, per risonanza: “Sabbia”, da questo punto di vista, è un capolavoro. E anche nel resto del disco non si scherza.
Il reparto musicale, poi, completa il cerchio: una cura negli arrangiamenti e nella produzione (il cui lato artistico è affidato a Marco Parente) che rende ogni brano un piccolo, flebile – ma sapiente – canto religioso (la title-track è una fuga precipitosa, circolare e in salita verso altri, sacri mondi). Poche percussioni, ambientazioni sonore aperte e spaziose, chitarre sinuose, violini, pianoforti, cori, e poi theremin, dulcimer, wurlitzer… una ricerca sonora che rinfresca e disseta, misuratissima, calibrata al millimetro.

La ciliegia sulla torta è la voce di Di Maio: come mi è già capitato di dire, spesso la voce viene lasciata in secondo piano là dove il focus può essere sul testo, sui contenuti. Letiana è la prova di come invece la voce – e il suo timbro, il suono, il registro – sia una componente fondamentale di un progetto cantautorale. Quella di Di Maio è sottile ma ruvida, delicata ma con una sfrontatezza di fondo, una passività, una trasparenza filigranata, si potrebbe dire, che aumenta la forza diagonale dei temi trattati invece di diminuirla, e allo stesso tempo la piega e la distorce, così da evitare (in sinergia con lo stile di scrittura, com’è ovvio) ogni effetto retorico che argomenti caldi come la violenza sulle donne (“La Normalità”), le morti bianche (“Impalcature”), le migrazioni (“Migrare”) potrebbero trascinarsi dietro. E anche dove ci si intenerisce (penso a “Canzona per il Mio Piccolo Cuoro”, a “Buonanotte Irene”) non si rischia mai di appiccicarsi al miele, ma si rimane come sospesi a levitare sopra ciò che accade, a guardarlo passare, partecipando emotivamente, sì, ma senza lasciarsi spazzare via.
Letiana ha qualche difetto nell’essere un lavoro forse incompiuto: con nove brani per 32 minuti vorresti durasse molto di più. Ti rimane la curiosità di vedere con gli occhi del suo autore altre, diverse cose, e speri non manchi molto per verificarne la tenuta nella prossima, ci auguriamo altrettanto convincente, avventura.

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Andrea Fardella – Le Derive della RAI

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Un bel disco sofferto, masticato, rimasticato e sputato con rabbia, disillusione, ma anche speranza, anche amore. Le Derive della RAI di Andrea Fardella è tutto questo: è una cavalcata visionaria e allucinata tra il dolore e la salvezza, che non è mai a buon mercato, condotta con piglio nervoso e sguardo impietoso dall’attore/musicista/cantautore.
Fardella scrive in modo personale e intenso, in uno stile che spesso illumina scene pronte a colpire allo stomaco non tanto nella singola immagine, che magari non brilla d’originalità, quanto nell’insieme: un panorama dissestato, crepato, di una nudità impudica di sé e degli altri che forse tanto deve alla sua esperienza d’attore. Qui e là si avverte il rischio di perdersi nelle frange spezzettate di un ruminare denso e continuo, di un getto poco controllato di spurgo psicologico, ma è un rischio limitato a pochi angoli.

Le canzoni, nella loro forma finale, devono moltissimo all’apporto in fase di produzione di Carlo Barbagallo, che le veste in maniera inconsueta e vivace, schivando l’ovvio che certe scelte di scrittura si portano dietro con arrangiamenti sghembi e puntualissimi, dove la batteria di Francesco Alloa pesta e si srotola quasi con un’anima propria. Le stesse canzoni nude, forse, si sarebbero perse in una semplicità un po’ troppo marcata, in andamenti che avrebbero dovuto appoggiarsi solo su voce e parole e che qui possono invece incuriosire e convincere anche quando tirano lungo (penso al finale perfetto di “Petit”, pezzo da nove minuti e dieci secondi che, miracolosamente, fatica ad annoiare).

Altro punto di forza è la voce selvaggia di Fardella, acuta e pungente, animale, quasi, in certi sforzi e in certi lanci, trattata a livello sonoro con effetti che sporcano e distanziano ma che comunque lasciano passare lo slancio, l’afflato primordiale di questa gola nuda e disperata. Sempre più raramente si incrociano cantautori che sanno unire la passione per la parola e per il cantato: qui la connessione è immediata, e la voce e le storie non possono slegarsi. È una voce che può anche non piacere nella sua ruvidezza: potrà pure apparire fastidiosa a qualcuno, ma di certo non annoia.
Le Derive della RAI è un disco in qualche modo claustrofobico: canzoni che si tendono e si gonfiano dentro gabbie e vogliono uscire e urlare, raccontare attimi di vita spesso sofferta in cui la luce è, bene che vada, comunque dietro un angolo; sfoghi, espulsioni catartiche, rigetti e riconquiste. Uniche controindicazioni i suoni acidi, virulenti, e certe già citate scariche a salve, attimi fuori fuoco, brevi scivolate. Per il resto un disco vivo, sentito, “vero” per certi versi, quanto può essere vera una rappresentazione cruda e umida di una sorta di nostra disastrosa, tenace, fragile umanità.

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L’Officina della Camomilla – Palazzina Liberty

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Torna Francesco De Leo con un disco di inediti dopo i tre Senontipiacefalostesso (1, 2 e b-sides). Il gruppo che è stato alfiere dell’Indie Pop Lo-fi da cameretta riesce qui finalmente a smarcarsi – in parte – dalle sonorità che più hanno caratterizzato la sua storia: il Cantautorato naif e surreale in punta di chitarra e tastierine giocattolo da un lato, e il Rock(ettino) alternativo à la Strokes che tanto pesava sui primi dischi targati Garrincha.

Dopo una serie di collezioni spurie, De Leo torna a scrivere e mette in pratica spunti che arrivano da esperienze esterne al gruppo (Soutine Twist, la parentesi con Ubba + Bond) giungendo ad un sound sempre eterogeneo come da tradizione camomilla ma spostato in territori di sporcizie Noise e sospensioni Ambient, soprattutto negli intermezzi strumentali, parte importante del lavoro: 7 su 13 tracce totali. Intermezzi che vanno dalle gustose “Noise sull’Oceano” e “Altri posti” (la prima tutta rumori e riff inquieti per quasi 7 minuti, la seconda coinvolgente e ipnotica tra accenni World, fiati e percussioni) alle prescindibili “Exit” (una roba Lounge elementare) o “Macchina Metallica”, concreto e ripetitivo esperimento rumorista anche interessante ma che nell’economia del disco suona un po’ superfluo. Ecco, si nota forse qui la necessità impellente de L’Officina di stupire a tutti i costi, anche così, giocando sull’aneddotica, sulla stranezza fine a sé stessa: che senso ha la cassa dritta di “Triangolo Industrial”? Cosa vorrebbe rappresentare? L’unica risposta che riesco a darmi è: nulla, ovvero letteralmente, per mimesi, il non-senso di una frammentazione, che è esistenziale, geografica, precipuamente urbana. Ma forse sto esagerando, chissà.

Passiamo alla parte cantata del disco, che si divide in personalità alquanto diverse. C’è il lato (simpatico ma, a dirla tutta, poco incisivo) dove comandano batteria e chitarra dritte, testi da cut-up ossessivo, fotografie allucinate e poco a fuoco di non-luoghi che sono apparentemente a Milano ma in realtà ovunque: “Palazzina Liberty”, singolo fuorviante, o “Ex-Darsena”, che già immagino ballata da fan in visibilio ai concerti che verranno, pur nel suo essere un pezzo tutto sommato semplice e bello dritto (probabilmente proprio per questo). C’è poi il lato da cantautore d’antan, a volte vicino allo spirito di un Capossela (“Signora del Mare”) o a soluzioni più folkeggianti (il valzerino gonfio e storto di “Mio Fior Pericoloso”). Un lato che solitamente prediligo, ma che qui non ha quei guizzi che aveva in passato, quelle zoppie da etilismo zen, da verità casuale pescata da un mare magnum di immagini insensate come si pescava l’immagine in 3D dagli stereogrammi quando andavano di moda. La colpa di questa mancanza può anche essere mia, intendiamoci: facile che io non sia più capace come una volta di incrociare gli occhi nel modo giusto. Può capitare.

Rimangono poi i miei brani preferiti: “Soutine Twist”, dall’andamento trascinante e giocoso con punte malinconiche, che nel finale, molto “francese”, tocca vertici interessanti, e “Penelope”, che ci trascina in un’atmosfera sospesa e onirica, dove l’ossessione ripetitiva della voce diventa una litania sensuale, ondeggiante, tra mari di sintetizzatori e inserti di violino, batterie dondolanti e distorsioni.

Per tirare le somme: cambio di rotta apprezzabile, soprattutto perché sottintende la voglia di cercare sempre qualcosa che sia più in là, anche solo di un obliquo, piccolo passo. È un ingranare la marcia che ha permesso di arrivare a “Noise sull’Oceano”, a “Altri Posti”, a “Soutine Twist” e soprattutto a “Penelope”. L’Officina si dimostra poco disposta a restare appollaiata sempre allo stesso ramo, e se ne vola di qua e di là, caoticamente, incessantemente: buon per noi. Le rimane difficile centrare un punto: ciò che le riesce meglio è l’esplorazione di atmosfere, di mondi immaginari presi per allusione e risonanza, e anche nelle liriche preferisce il gioco intorno a un linguaggio (potremmo dire “liquido”) alla definizione (potremmo dire “solida”) di un discorso. Niente di male in questo, anzi: ma è una frammentazione che suona ancora fuori fuoco, ancora poco determinata. Il piede è arrivato sul gradino, tocca ora salire la scala.

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Grandmother Safari – Grandmother Safari

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Vengono dalla Sardegna ma il loro meticciato si spinge molto più lontano. Sono i Grandmother Safari ed esordiscono con questo self titled che è un vagabondare espanso in terre così distanti tra loro che si fa il giro e ci si accorge di essere sempre stati sulla rotta giusta, nel profondo limaccioso e ancestrale delle radici e nelle rarefazioni siderali dello spirito, in un alto e un basso che si inseguono e si amano appassionatamente. Otto tracce per quasi un’ora di musica calda e accorata come lava incandescente, che non si raffredda mai tanto da solidificarsi ma rimane invece liquida, malleabile, sinuosa. Ritmi e canti africani si mischiano alla magia del piano Rhodes, a fiati torridi, a synth imprevedibili, a voci eteree e diradate, in spazi lenti e aperti che poi collassano nelle scintille di chitarre pungenti e nei rumori energici di bassi dritti, rullanti decisi, arpeggiatori incatenanti. La commistione di anime così diverse, tra ampi respiri Ambient, ciclicità Post Rock, suggestioni Jazz e lunghe e ipnotiche corse strumentali rende il lavoro avvolgente e piacevolmente lisergico, egualmente diviso tra esotismo colorato, rilassatezza da lounge e trip psichedelico d’altri tempi. Il tutto condito da una dignitosa abilità strumentale e da un impianto sonoro di tutto rispetto. Da gustare senza fretta e senza pensarci troppo.

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RB.Novembre – Acriliche Addizioni Umane (Disco del Mese)

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Gabriele Squartecchia, in arte RB.Novembre, esordisce in un full length di incantevoli chiaroscuri con questo Acriliche Addizioni Umane: nove tracce che mescolano Elettronica dai toni Ambient e Pop impalpabile e sofisticato, utilizzando gli strumenti come pennellate leggere d’acquerello, in arrangiamenti sempre puntuali e ragionati, tra beat e batterie, chitarre elettriche e synth, pianoforti e archi.

Punti di forza del lavoro sono soprattutto la voce eterea e carezzevole di Gabriele, pronta a disegnare linee melodiche ipnotiche e appiccicose senza sembrare per questo eccessivamente ruffiana, e le piacevolissime fughe strumentali che si nascondono attorno ai brani, con quei tocchi di psichedelia atmosferica architettata con gusto e precisione (penso al finale di “Ironichetragiche”, alla coda di “Il Tempo lo Spazio le Visioni”, con un certo gusto orchestrale, o ai ritmi di “Se Poi pt.2”). C’è poi, nel complesso, un notevole gusto, quasi Prog, nella mescolanza di generi, negli arrangiamenti labirintici, nella rivoluzione delle strutture dei brani, che sono funzione dell’artista e della sua visione, e non il contrario, come spesso accade.
Acriliche Addizioni Umane è insomma un esordio curioso e stuzzicante, che pecca di qualche rara ingenuità vocale e di qualche lieve imperfezione sparsa che, ne sono certo, una produzione più attenta e più matura saprà correggere, regalandoci un secondo tempo ancora più entusiasmante.
Da ascoltare se siete degli inguaribili romantici alla ricerca di una colonna sonora per farvi un viaggio mentale di tre quarti d’ora e rotti, sognando.

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La Via Degli Astronauti – Dietro Ogni Memoria

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Disco d’esordio per i napoletani La Via Degli Astronauti, che dopo l’EP Storie tentano qui l’approccio al full length con dodici brani di Hardcore Punk serrato e urlato, muscolare e intenso. La dimensione che a loro sta più a cuore è il live: “il Punk non va ascoltato in salotto ma respirato, ai concerti, nei locali troppo piccoli e affollati, insieme alla puzza di sudore e sigarette”. Dietro Ogni Memoria rappresenta questa filosofia in pieno: la tracklist rispetta l’ordine dell’esecuzione dal vivo dei brani, e il suono è denso e virulento, spigoloso, gonfio e distorto quanto basta per ricordarci da dove arrivano i LVDA e dove vogliono andare.
I pezzi scorrono come schiaffi, senza rimuginare troppo su eccentricità fini a sé stesse o tecnicismi. Le fughe dagli stilemi HC più consolidati ci sono, seppur brevi, ma in generale non si inventa: piuttosto si suda, si sanguina, in modo semplice ma coerente. La non eccessiva originalità sembra qui essere il sintomo di un’aderenza al genere che dimostra la loro genuina passione per (e la conoscenza di) un certo mondo e una certa scena; un mondo e una scena che sono, poi, il tema centrale di questo disco: “una testimonianza di ciò che è (e speriamo continui a essere) un’intera Scena, fatta di persone, luoghi e sensazioni, così come l’abbiamo vissuta noi”. Tutto torna.
Dietro Ogni Memoria suona compatto e sincero, ma non costruisce molto oltre l’ondata immanente d’energia e intensità, che comunque ha una sua ragione d’essere e una sua messa in scena non del tutto banale. Un giro di giostra che farà sentire a casa gli amanti del genere, senza spostare di molto l’asticella della ricerca o della fame di novità. Può anche andare bene così.

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Mamasuya & Johannes Faber – Mexican Standoff

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Bam!, indietro di trentacinque anni almeno, direzione Downtown LA o i deserti degli Spaghetti Western, le villone da porno settantiano, i paesaggi romantico-lisergici di salotti stroboscopici color pastello dove si balla appiccicati e sudati, e poi di nuovo la polvere di un Messico fantasticato e accelerazioni da inseguimento su highway assolate in pellicola sgranata, fuori fuoco: c’è un po’ tutto l’immaginario da colonna sonora vintage in questo Mexican Standoff dei Mamasuya, accompagnati dalla tromba ineccepibile di Johannes Faber (qui anche alle – rarissime – voci, e alle tastiere).  Un disco strumentale di rara precisione, dove una libertà psichedelica assoluta viene vissuta e ricercata attraverso un viaggio in alcuni dei generi che più hanno sperimentato attorno al concetto di soundtrack nel secolo scorso. Un disco difficile da raccontare, da cui bisogna farsi più che altro accompagnare, come fosse un commento musicale a fantasie attempate, magari non eccitanti come una volta, ma che hanno acquisito ormai il gusto dolceamaro della nostalgia e dell’universalità “postuma”, che, in un tempo di zombie e remake come quello in cui ci tocca vivere, non vuol dire tanto mitizzare un passato che dovrebbe essere, a tutti gli effetti, passato, quanto trascinarsi in un’immortalità tenace, quasi comune, a tratti ripetitiva. Ma sto divagando: Mexican Standoff, nonostante le coordinate non proprio contemporanee, rimane un disco impeccabile, che suona bene ed è suonato meglio, senza strafare in virtuosismi onanistici (che pure non mancano) e comunque pronto a soddisfare anche palati esigenti. Da tentare, soprattutto se vi entusiasma il genere.

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The Chanfrughen – Shah Mat

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Sono iniezioni lisergiche e rinvigorenti gli otto brani di Shah Mat dei liguri The Chanfrughen. Viaggi psichedelici e psicotici in terre inesistenti o rese tali da un’immaginazione sferzante, appuntita, che ci porta, di traccia in traccia, nel caos fuggitivo dell’America Centrale, nel vuoto freddo della Siberia, nei Balcani insensati e sanguinanti, nelle vie che per l’Asia Minore portano all’Estremo Oriente o chissà dove. Frizzano di distorsioni sgarbate, di ritmiche imprevedibili e scostanti, e pestano duro, con voci che spintonano, e creano paesaggi arzigogolati e scaleni di Rock seventies che sa essere ipnotico senza troppi fronzoli, immerso in un Blues sanguigno e ossessivo, tra synth e arpeggiatori e riff che, pur elementari, scavano le orecchie come la goccia che tortura la pietra. Shah Mat è un disco dall’immaginario denso ed evocativo, che dà il suo meglio negli episodi più enigmatici, nelle insenature più esotiche (“Belize”, la title track) e rallenta un po’ quando si bagna in modo eccessivo nel mare scuro del Blues più lineare (“Rhum, Spezie, Sciac Tra”, per esempio). I testi a volte sorprendono nella loro franchezza sopra le righe: quello di “Belize” al primo ascolto sembra quasi fuori luogo, poi scopri invece che si incastra perfettamente nelle pieghe del brano con una lucidità allucinata, sciamanica, laterale. Non va sempre così, intendiamoci: altrove l’eloquio si fa più ingenuo, meno a fuoco. Stessa cosa per alcuni passaggi strumentali che forse avrebbero giovato di un’ulteriore affilatura. Rimangono però piacevoli le lunghe fughe, le corse aperte di chitarre e sintetizzatori, la cura ritmica per prendere sempre in contropiede l’ascoltatore, e in generale l’arroganza – sacrosanta – dell’inventarsi un disco libero da paranoie su lunghezze, accessibilità, e altre aberrazioni limitanti. Un giro di giostra che sa di libertà e convinzione.

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La Belle Epoque – Il Mare di Dirac

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Disco d’esordio per il quartetto bergamasco, registrato in presa diretta “come una volta”, in un’unica, grande sala di ripresa: Il Mare di Dirac si copre così di una patina retrò e una sensazione di coolness indefinibile ma gustosa. Questa sensazione fresca aleggia su molti dettagli di questo disco breve, compatto, focalizzato: otto brani di un Rock non eccessivamente originale ma dipinto con accuratezza, dalla sezione ritmica che spinge sempre avanti alle distorsioni taglienti il giusto, passando attraverso accortezze melodiche raffinate, sia nelle linee vocali che negli inserti di piano o di chitarra. Bastano pochi ascolti e i brani si piantano nel cervello con facilità, sempre in bilico tra l’estremo del “pestone” anni 90 (“Icaro” ha un inizio che richiama “Tell Me Marie” degli One Dimensional Man) e la raffinatezza Pop degli arrangiamenti e della composizione (la title track, sinuosa e ammiccante). La voce di Luca Boschiroli completa il quadro col suo timbro basso, caldo: perpetuamente effettata, ha una personalità d’altri tempi, e le liriche, che vivono di scarti e ellissi, d’indeterminatezza e approssimazione, ne guadagnano, diventando un flusso sonoro che riempie lo spazio e il tempo in modo semplice ma puntuale, dalle pause oculate, senza strafare, in un andamento vago e ipnotico. La Belle Epoque riesce a ritagliarsi un suo spazio grazie alla precisione del lavoro, all’eleganza del sound, alla misura con cui gestisce gli elementi che compongono i brani. Quando non vi andrà di cercare l’originalità a tutti i costi, quando avrete voglia, semplicemente, di ascoltare dell’ottimo Rock alternativo e un po’ nostalgico, diretto e suadente insieme, Il Mare di Dirac sarà il disco che vorrete avere nelle orecchie: non vi deluderà.

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Le Chiavi del Faro – Dentro

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Arrivano da Gubbio i tre Le Chiavi del Faro, che con il nuovo full length Dentro cambiano leggermente rotta rispetto al precedente La Furia degli Elementi. Le coordinate base sono le stesse: una carica strumentale notevole, una libertà compositiva invidiabile, che poco si piega a certezze aprioristiche ma, al contrario, volteggia tra storture e sfuriate, tra stacchi sorprendenti e riprese secche, crude, taglienti, tra stilettate di derivazione Funk, riff acidi di chitarra, aperture melodiche e sconvolgimenti ritmici. Di diverso c’è la coesione che stavolta si intuisce tra un brano e l’altro: Dentro è più focalizzato e convinto, meno sbavato, con un’intenzione più chiara e diretta, che di certo migliora la fruibilità dell’intero disco e che rende più convincenti e solidi anche i singoli brani. Si perde qualcosa, magari, in “magma”, in follia e diversità, ma si guadagna in compattezza e, comunque, il prodotto finale rimane caleidoscopico quanto serve per avere una sua personalità (vedi il piacevole diversivo di “Plastiche, l’Inventario”, o i saliscendi de “La Cura dei Cori”, per esempio). Non mi riesco invece ancora a convincere rispetto alla voce e ai testi. Il cantato è migliorato, pur con qualche scivolone qua e là, ma l’immaginario è abbastanza neutro e per la maggior parte i testi paiono senza un vero gusto, con poca inventiva. È anche vero che siamo nel campo del Rock e sento già alzarsi il coro dei “chissenefrega”. Rimane il fatto che si poteva avere un boost di senso che qui manca. Le Chiavi del Faro si conferma comunque un ensemble interessante e dal gusto piacevolmente libero, che sa anche farsi carico di questa libertà e portarla fino in fondo, questa volta con un controllo più saldo e una piacevole coerenza. Manca ancora qualcosa, ma Dentro è già un salto evolutivo importante.

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Mosè Santamaria – #RisorseUmane

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Con Mosè Santamaria bisogna stare attenti. Personaggio subito affascinante ma pericoloso, con questo alone mistico e quei riferimenti (Jodorowsky, Gurdjieff, ganja, mitologie, Bibbia) che basta poco per far crollare tutto nel pasticciaccio New Age. Nonostante le apparenze, in #RisorseUmane questo non succede. Il misticismo è una filigrana: i riferimenti culturali, esperienziali di Santamaria sono tra le righe, ma lui racconta altro, (anche) attraverso questi. Sono storie di un Pop focalizzato, intelligente, o di un Cantautorato alieno ma accessibile: amori perduti, infuocati o gentili, carnali, platonici o spirituali, raccontati con tratti vividi (“Mata Hari”), soffusi (“I Colori di Françoise”), intensi (“A Nizza”), oppure storie di paese (“I Love You Marzano”) o di città (“L’Altra Parte della Città” ), o ancora appunti e riflessioni sulla scoperta  di sé e del mondo, sull’evoluzione del proprio essere e di ciò che lo circonda (“Mine Vaganti”, “Come gli Dei”, “Passato Prossimo”). Santamaria racconta e si racconta con freschezza, con una leggerezza attenta, non troppo incline al caso, con accostamenti a volte sorprendenti che lo rendono interessante. Meno focalizzate le zone dove si ironizza (“Compromessi e Chiacchiere da Bar”, la più banalotta), ma nel complesso il tutto si regge sulle proprie gambe senza molta difficoltà. La musica segue il mondo delle canzoni, si adatta senza volersi etichettare in maniera troppo chiara, e quindi mescola strumenti acustici e virtuali in arrangiamenti mai casuali, alle volte veramente saporiti, stuzzicanti (“A Nizza”, per esempio), sempre in un’ottica Pop ma con una netta veste Elettronica, spesso uptempo, con ganci ad ogni angolo e in cui tutto (o quasi) rimane nelle orecchie e nella testa abbastanza in fretta. Pur se armonicamente abbastanza lineare, #RisorseUmane sa rendersi vario con guizzi e storture (di pianoforti, fiati, synth, cori…) che nobilitano e soddisfano. Detto questo, rimangono le ombre: in primis la voce, sforzata, imprecisa, un timbro posticcio, impostato, che si infila tra me e l’ascolto sereno di questo disco come uno scoglio praticamente insormontabile. E poi, poco distante, lo scarso senso melodico/metrico, che spesso fa intorcinare le frasi, le incaglia, le espande e le svuota, con effetti a volte pesanti sullo scorrere dei testi e in generale delle melodie. C’è insomma un personaggio molto interessante che sta facendo un percorso curioso, sincero e appassionato, con qualche difetto che non è chiaro se sia vezzo o limite: bisogna vedere come e quanto evolverà da questo, comunque buono, punto di partenza.

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