Lorenzo Cetrangolo Tag Archive

Top 3 Italia 2015 – le classifiche dei redattori

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I tre migliori dischi italiani di quest’anno secondo ognuno dei collaboratori di Rockambula.
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Terzo Piano – Super Super

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Sonorità brillanti, piglio deciso e personalità sono la forza di questo Super Super dei Terzo Piano, band di Cava de’ Tirreni che giocherella incauta sul bordo tra la minchiata nonsense (il meta-testo di “H”, parte 1 e parte 2) e il capolavoro vorticante e cosmico dove si vola a occhi chiusi, liberi, senza farsi troppe domande (“Attratti Super”, che ha anche un video bellissimo). È bello sentire, nel marasma di band che tentano di piacere a tutti i costi, qualche raro esempio di sguardo che pare limpido, che sembra guardare dove vuole, sbattendosene di sembrare più o meno “hip”, più o meno fuori di testa. Ma mi trattengo ancora, perché nelle voci e nelle melodie così Pop eppure storte, nelle ritmiche minimali eppure trascinanti, nelle canzoni così vere che sembrano finte (o così finte che sembrano vere) c’è ancora una penombra di dubbio che non mi tolgo. Ci sono o ci fanno? Follia o calcolo? C’è chi direbbe che non importa, che l’opera è l’opera e da sé parla, e non ci sono contesti o contorni che tengano quando la si assume, quando ce la si inietta nel timpano. Sarà; io un po’ ci penso, ma nel frattempo mi riascolto Super Super e ci navigo un po’ dentro, poi vedremo. Nel peggiore dei casi sarà un guilty pleasure ad alto contenuto calorico. Nel migliore, una frangia del Pop di domani.

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Sakee Sed – Hardcore da Saloon

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Scherzando, dalle mie parti diciamo che in Brianza deve essere caduto un meteorite che piega lo spaziotempo o non si spiegherebbe la follia dei musicanti della zona. Credo una cosa simile succeda nel bergamasco, dove o vendono della droga molto buona o l’acquedotto filtra attraverso i resti di qualche bestia mitologica soprannaturale interrata nei paraggi che infetta la gente di lì e la rende mutante nella testa e nella musica. La prima spiegazione è più probabile, la seconda è più affascinante. Ci penso perché mi va in cuffia l’ultimo dei Sakee Sed, che avevo già incrociato ai tempi di A Piedi Nubi e che anche in questo Hardcore Da Saloon continuano nel loro meticciato di generi e spunti, creando un Far West che è talmente Far che forse non è più nemmeno West, dove il pianoforte sta in mezzo a tutto, facendosi roteare intorno ritmiche forsennate e distorsioni, voci seminascoste e gusto per teatralità e sorpresa. Non voglio fare paragoni troppo stringenti con altre band, e quindi non li farò. Ma posso permettermi di dire che anche a loro accade ciò che nella zona (geografica) succede spesso, ossia: una lodevole libertà compositiva e immaginifica che però lascia indietro la costruzione di un mondo lirico, di un racconto, per avere invece in cambio una panoramica a tinte forti e impressioniste che diverte e meraviglia, senza dubbio, ma non rimane impressa con la dovuta forza nella mente e, soprattutto, nel cuore. (Il riferimento geografico potrebbe essere anche frutto di un mio personale bias, ma il discorso non cambia). Brani come “Markala”, “Beck and Musical” (che ritornello!) o “La Fuga di Barnaba” creano sì colore e tensione, ma poi qualcosa si perde. Miscelano Rock, Folk, batterie pestatissime, frenesia e pianoforti inaspettati, fughe strumentali brevi ma pungenti, frasi melodiche sghembe, scalene, che allenano le orecchie, che soddisfano il palato, che tendono i muscoli facciali in un ghigno divertito e si fermano lì, sull’orlo del padiglione auricolare, senza penetrare nell’osso, nel sangue. L’energia e la gioia (in senso lato) che sprizzano da queste tredici tracce bastano a fare di Hardcore Da Saloon un buon disco? Sì. Per essere ottimo, però, ci vorrebbe forse anche qualcos’altro che i Sakee Sed, probabilmente, non sono nemmeno disposti a dare. Non importa: se facessero altro non sarebbero loro (e magari sarebbero peggio). C’è bisogno di band che fanno il cazzo che vogliono senza ruffianate. Io non mi convinco al 100% ma a loro, giustamente, che gli frega?

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Matter – Paroxysmal

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Paroxysmal è l’ultimo lavoro del bolognese Fabrizio Matrone, in arte Matter. Già dalla cartella stampa si presenta bene: “un suono estremo ma adulto per chi non ha paura di ascolti difficili”. Ebbene, devo dire che l’ascolto, alla fine, mi è parso meno difficile di quanto quelle righe dessero a intendere. Parliamoci chiaro: non è un disco facile. Si tratta pur sempre di dodici tracce per più di tre quarti d’ora di Elettronica sporca, vibrante, dove la melodia praticamente non esiste, dove regnano il rumore e l’iterazione. Loop distruttivi e graffianti che suonano come il lavorìo incessante di una fabbrica cupa e rugginosa, meccanizzata ma senza circuiti elettronici, solo pistoni e benzina e altoforni e picchiare di metallo contro metallo. Però c’è una sorta di calma sottostante, la rilassatezza digrignante del rumore continuo, del processo senza fine, che si ripete come un mantra automatizzato, come una catena di montaggio che nel disumano della ciclicità nasconde la certezza del proseguire, la linearità di un percorso che va sempre avanti non muovendosi mai. Si rinnovano le esplosioni gravi, le unghie taglienti delle distorsioni, il quasi fastidioso lamento della macchina, ma intanto la testa si muove su e giù, e mi perdo nelle litanie poco liturgiche e molto industriali di un disco che potrebbe essere causa e soluzione di parecchi, godibili mal di testa. Per crani di latta e orecchie di ghisa, astenersi colletti bianchi.

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Jesus Dies Alone – Jesus Dies Alone

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James Rossetti (alla voce) e Marco De Masi (a tutto il resto: chitarre, bassi, sintetizzatori, cori), dopo avventure varie sotto altrettanto vari moniker, si stabiliscono definitivamente nella nuova casa Jesus Dies Alone con l’esordio omonimo, porta d’ingresso di un palazzo sintetico e polveroso, oscurato da uno spleen onnipresente e accidioso. Voci strascicate, basse, in un mare di sintetizzatori e batterie finte che creano una penombra che rischia troppo spesso di risultare posticcia e poco a fuoco. Le canzoni ci sono, anche se non sorprendono né innovano nulla; le movenze sono mimetiche, tendono a farsi dimenticare, e i suoni non catturano, non conquistano. La voce pure c’è, o almeno ci prova, ma non riesce (nemmeno lei) a superare la china e a farsi trovare oltre un orizzonte che, dietro la bruma, s’indovina ancora lontano. Un disco che fa il suo senza risultare particolarmente geniale, che dimostra quel tanto di stoffa che può bastare per non risultare fastidioso, senza però quel valore aggiunto che gli farebbe superare con un salto la mera sufficienza.

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Mike 3rd – The War Is not Over

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In genere i dischi fatti da (poli) strumentisti “sgobboni” che arrivano dalla musica più colta e complessa e si gettano a fare simil-concept album da ventuno brani con ospiti internazionali di alto livello mi preoccupano molto. Percepisco spesso quel puzzo di elevato livello tecnico che lascia in secondo piano i contenuti a favore di un masturbatorio cantarsela allo specchio per mettere in risalto muscoli  e abilità. Questa volta però la situazione si è salvata: la sfida è capire quanto. Mike 3rd (al secolo Andrea Michelon Prosdocimi), già fondatore degli Hypnoise, sforna, con puntualità sul centenario dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, il suo secondo disco, The War Is not Over. Ispirato nella struttura ai “Quadri di un’esposizione” di Musorgskij, il disco è un fervente e sentito omaggio a tutte le vittime della guerra e un inno alla pace e alla fratellanza. Le coordinate sono quelle di un Prog Rock funkeggiante e spesso arioso, in cui le zone più aperte e pinkfloydiane sono quelle che funzionano di più (“In the Twilight”, verso l’inizio, con Tony Levin, o la vicina “Black Sun”, o, ancora, la desertica, a tratti vuota, “Lost”), mentre quelle più ritmiche e mobili stonano alquanto col senso generale del disco (“Night with a Thousand Furry Animals”, per esempio, o il Rock più quartato di stampo sixties di “In the Light”). In generale si tratta di un disco di raffinato livello tecnico e produttivo (registrato in analogico con una particolare cura per la dinamica e la “pasta” del suono) e con un lodevole intento lirico, che però non sconvolge né innamora.

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Bonomo – Il Generale Inverno

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Bonomo, aka Giuseppe Bonomo, annata 1978 da Taranto, esordisce solista in queste dieci tracce di Pop Rock melodico, comodo ma competente, raccontando di tutte le cose che, nella vita, ci bloccano, ci rallentano, ci contrastano, simboleggiate dalla suggestione che dà titolo al disco: Il Generale Inverno. Bonomo mette nell’album tutta l’esperienza accumulata negli anni. Ha studiato, e si sente; ha suonato, e molto (vanta collaborazioni con, tra gli altri, Alberto Fortis, Filippo Graziani, Matrioska) e d’altronde anche in questo frangente si occupa di praticamente tutti gli strumenti – esclusa la batteria – e gli arrangiamenti, oltre a comporre tutti i brani del disco. I pezzi sono tutti molto orecchiabili e con una freschezza che arriva diretta all’ascoltatore senza eccessive complicazioni, anche grazie ai testi, che, se pure difettano in ricerca e stile, portano una leggerezza Pop che, date le coordinate del disco, può solo giovare alla sua fruibilità. Si sente l’amore per la musica d’oltremanica e d’oltreoceano (gli echi californiani de “La Visione”, o i riff Funk di “DNA”) e per il Pop elettronico (“Insonnia”), si sente la forza con cui si cerca di – e si riesce a – rendere ogni brano un potenziale singolo, anche perché Bonomo non sembra fare troppa fatica nel giostrarsi tra mood pure molto diversi, regalando al disco una varietà invidiabile: tra l’energia de “La Mia Rabbia”, pezzo alla Bluvertigo, e la dolcezza sospesa de “I Pesci Non lo Sanno” c’è un abisso, così come tra il Pop da radio primi 2000 di “Otto Ore al Giorno” e di “Araba Fenice” e la freddezza in 6/8 de “L’Ultimo Valzer”. Il Generale Inverno è, sostanzialmente, un disco di solido Pop Rock senza eccessive profondità ma che lascia un piacevole sapore in bocca, anche se magari senza rimanere sul palato molto a lungo. Le fondamenta per costruire qualcosa di più personale e inconfondibile ci sono tutte. Aspettiamo il seguito.

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June and the Well – Gudiya

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Seconda prova per i June and the Well, creatura sognante fatta di Rock emozionale, colori nineties e melodie carezzevoli. I quattro, capitanati da Luigi Selleri, già con i Suburban Noise, si lanciano in sei brani per quasi venticinque minuti di chitarre distorte ma morbide, batterie agili e un cantato (in inglese) dolce e dall’apparenza spensierata, nonostante il disco sia dedicato ad una bambina indiana vittima di violenza, di cui la title track porta il nome. Il lavoro ha il pregio della leggerezza: è un album breve e rilassato, che anche sulle batterie più appuntite si fa trovare liquido e scorrevole, anche sotto le chitarre più spesse fa affiorare una melodia trascinante, comoda, suadente (come esemplifica bene “S-low”, con un’apparizione di Matilde Davoli). Nostalgico, certo, ma non senza una rilassatezza di fondo che lo rende un ascolto piacevole e frizzante, per quanto disimpegnato. In più suona decisamente bene, che non è un male. Da ascoltare nelle domeniche di sole, malinconiche a tradimento.

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florestano – noh

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Elettronica strumentale delle più convolute, noh del producer e polistrumentista florestano è un accartocciarsi e uno stratificarsi magmatico e ribollente. Layer di synth, rumori, beat e voci infestanti e inquietanti si ripiegano su loro stessi e gli uni sugli altri, a creare una pasta sonora di una fantasmagoria crepuscolare. Una spirale rotante e ipnotica che afferra l’immaginazione, suadente ma allo stesso tempo preoccupante, come una stanza spoglia o un sogno poco illuminato.
I pilastri del lavoro sono la cura per le ritmiche e l’attenzione nella ricerca del suono, ma anche il gusto per certe melodie spiritiche che s’affacciano qua e là (“Grizzled”, “Broken MP3”). Otto tracce d’elettronica poco tersicorea ma parecchio psiconautica.

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Il Boom – Così Come ci Viene

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Progetto discografico nato dalla collaborazione tra il compositore e musicista Raffaele Rinciari e il poeta e autore Eugenio Ciuccetti, Il Boom esordisce con dieci tracce di una canzone d’autore da Easy Listening leggerissimo e Jazz, tra batterie spazzolate, inserti di sax e synth non invadenti, contrabbassi groovy e pianoforti ballerini. Sorprende (in negativo) l’impalpabilità dei brani a livello lirico. I testi suonano scolastici e superficiali (anche quando tentano di sembrare più impegnati, per esempio in “Umani”: “è già stato un gran casino con le bombe nucleari / con le guerre calde e fredde / le conquiste coloniali / poi il benessere è arrivato / con la democrazia / l’ottimismo del progresso / e della fantasia”. Versi che giudicare pressapochisti è un complimento).

Riescono meglio quando si lasciano andare alla leggerezza giocosa, ironica, senza pretese, quasi favolistica (“Il Destino non Esiste”, “La Vita È Fatta Così”, “Parco Sempione”) ma anche lì, purtroppo, pochissime scintille. È insomma quella musica (piacevole quanto si vuole, senza dubbio composta e suonata con tutta la professionalità e la competenza del caso) che si fa ascoltare, ma non lascia granché. Un plauso agli arrangiamenti, molto ben calibrati per il genere, ma la comodità d’ascolto non basta: Così Come Ci Viene è un disco che si sforza troppo d’essere simpatico a tutti i costi e dopo un po’ mi risulta stucchevole, senz’anima. In ogni caso, come cantano in “Punti di Vista”: “Ciò che fa grande un artista / sono soltanto opinioni / banali punti di vista”.

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Bad Love Experience – Believe Nothing

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Questo è il Pop che mi piace: complesso ma non complicato, leggero ma con una sua densità. I Bad Love Experience volano alti nei venti minuti e qualcosa che compongono il loro ultimo Believe Nothing. Lingua inglese, sapore internazionale, atmosfera retrò, miscele di Art Rock e Art Pop con innesti Elettronici e sfumature Prog, un parco sonoro che dire vario è sminuire (“Inner Animal”), un gusto per la melodia che si accompagna all’idiosincrasia verso le strutture tradizionali della canzone (“Below as Above” e quel riff…). Gli anni Settanta visti dallo spazio o qualcosa del genere.

C’è poco altro da dire, perché il progetto fila e il disco è godibilissimo. A fine ascolto l’unica cosa che personalmente mi manca è quel qualcosa in più, chiamatelo “sguardo”, “identità”, “voce”, un qualcosa di personale che mi faccia innamorare irrazionalmente di loro, qualcosa che fra un anno mi obblighi a recuperarli e a immergermi di nuovo nei loro abissi luccicanti e vellutati. Ma voi non datevene cruccio e fate un tuffo, poi chissà.

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Meta.Lag – Juxtapositions

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Giuliano Fasoli si presenta con un disco che vuole essere “strutturalista”, che comunichi, quindi, essenzialmente attraverso la propria struttura, essa stessa mezzo espressivo. Juxtapositions è, infatti, una riflessione sullo stato stesso della musica (Rock, paradossalmente; vedremo perché) attraverso, appunto, la giustapposizione di tematiche costanti, che gradualmente riempiono il vuoto al centro della struttura. Il risultato sono queste sette tracce di Elettronica minimale e ambientale (ecco il perché del “paradossalmente”) dove drum machine  e synth morbidi si mischiano a voci eteree e droni leggeri, dove ritmiche spezzate si fondono con echi di chitarre lontane, in un pastiche artificioso e soffuso che ha momenti di convincente facilità (il riff infestante di “Kingdom”) e altri di approssimazione meno interessante (in generale le voci, o per esempio l’andamento più farraginoso di “Wormplace”).

Un disco insomma la cui messa in opera, seppure per nulla malvagia, non trascende. Un plauso invece per il concept che sottende il tutto: ogni brano infatti si lega ad un artista e a un tema, in un movimento ancorato al fulcro centrale che rappresenta il vuoto. I primi tre brani rappresentano “gioia”, “amore” e “vita” e sono legati alle figure di Elvis, dei Beatles (in particolare Lennon) e di Jimi Hendrix; poi, nel brano centrale, il movimento si ferma: siamo al centro dell’opera, “Dot”, il vuoto. Si prosegue discendendo, con simmetria: i temi si capovolgono e abbiamo, in ordine, “morte”, “odio” e “dolore”, rispettivamente Cobain, i Sex Pistols e Jeff Buckley. Devo dire che è un concept che sulla carta incuriosisce, salvo poi tendere a perdersi nei fatti, a rimanere ideale, distante dall’ascoltatore e forse anche dai brani stessi.

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