Lorenzo Cetrangolo Tag Archive

3 Fingers Guitar – Rinuncia all’Eredità

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C’è coraggio, indubbiamente, nell’animo DIY, scarno, tagliente e infuocato di Simone Perna, testa e mani del progetto 3 Fingers Guitar (accompagnato, in quest’avventura, dalla sola batteria di Simone Brunzu). C’è coraggio, follia, un’inclinazione incosciente alla spettacolarizzazione in Rinuncia All’Eredità, una sorta di concept sul retaggio di un padre nei confronti del figlio, che contiene le prime canzoni in italiano del progetto.  La musica, pensata ed eseguita quasi totalmente dal titolare, è scarna, fumosa, tribale. Chitarre violente, ritmiche ripetitive e ossessionanti, noise e polvere, intimità rarefatta, poi presa ad unghiate, come fosse troppo stretta, come non bastasse cantare, ma ci fosse bisogno di lacerarsi i vestiti, di graffiare le pareti che si chiudono intorno. L’atmosfera (il gioco) sta sull’equilibrio tra le involuzioni senza capo né coda e gli ambienti più fermi, per cui più convincenti – e più ovvi. Il pugno di “Ingresso” scuote, mentre il corpo di “Riproduzione” incanta e ondeggia. L’arpeggio della title track ci riporta all’improvviso in una zona franca, un’isola che sta da qualche parte al di là dell’oceano, in un crescendo avvolgente, che prosegue idealmente in “Fuga”, ancora più a ovest. Sale il Blues nell’intro de “L’Unica Via”, trasformandosi poi in un Post Blues iridescente e ipnotico.  La chiusura (“Fine”) è adamantina e catartica.

Croce e delizia del disco è la voce, sporca, imperfetta, fastidiosa a volte. Un timbro e un tono che possono alternativamente aggiungere profondità o creare punte di doloroso imbarazzo. Il disco è interessante, inserito com’è in un discorso di cantautorato “altro” che vuole staccarsi dalla noia dei quattro accordi con la chitarra e inventarsi un mondo (cosa peraltro non lontanissima – nell’idea – da certe evoluzioni recenti di un Vasco Brondi). Fosse amico mio, Simone Perna, gli consiglierei – da amico – di lavorare sulla pasta vocale, certamente senza snaturare il senso del suo cantare, ma levigando alcuni estremi che possono risultare spigolosi. Per il resto, la strada presa sembra gratificare ampiamente lo sforzo d’intraprenderla. Ma io Simone Perna non lo conosco, e dunque mi limito a riconoscerne i meriti, senza aggiungere altro.

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DelaWater – Open Book at Page Eleven

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Arrivano da Teramo i cinque Delawater, che nel disco d’esordio Open Book At Page Eleven giocano col sembrare poco, pochissimo italiani (e qui è un bene, s’intende): ciò che colpisce delle otto tracce (in inglese) di questo album, sospeso tra la morbidezza del Pop e una pasta sonora quasi Shoegaze, è il gusto nel comporre, la maestria nell’infilare, uno dietro l’altro, dettagli impeccabili, in un tentativo ammirevole di scrivere canzoni Pop (in senso lato) di livello che siano comode, semplici, ma architettate con attenzione, con amore (il primo singolo, “Now I Can See No More”, ne è un’ottima prova: strofa sommessa, ritornello intenso, aperto dai synth, e poi atterraggio su hi-hat in levare nella seconda strofa: da manuale), come una certa tradizione perlopiù inglese e americana ha fatto a partire dai meravigliosi anni 60 (citano tra i loro riferimenti i Beatles e i Love, per capirci). Tutto questo senza disdegnare attimi di disorientamento controllato e liberatorio (la seconda metà di “This Place Doesn’t Build Opinions”, per esempio), che spezzano la morbidezza quel tanto che basta per giungere alla fine del disco senza troppi rimpianti.

E quindi, come da ricettario, chitarre e ritmiche che non hanno paura di rendersi intense e vibranti, passando dalla morbidezza delle acustiche alle distorsioni pastose di elettriche ben calibrate, appoggiate ad un basso torrido e liquido, in mezzo a tappeti di synth e pianoforti che bagnano il tutto e rendono gli spigoli smussati, a prova di bambino, in un calore che più che materno è uterino, e per una volta l’ufficio stampa non mente: “Ascoltare la musica dei DelaWater è come immergersi in una vasca di acqua calda senza fondo, senza rischio di affogare”. Tuttavia, per essere un disco memorabile questo non basta. La bravura con cui i Delawater ci trascinano nel loro mondo acqueo, nel loro libro aperto (per caso o meno) sull’undicesima pagina, non basta a tenerci ancorati lì, a volerne ancora. Sembra una scusa da amante paraculo (“non ti amo, ma amo stare con te”) ma è la sacrosanta verità. Un bel disco, Open Book at Page Eleven, di Rock indie sognante e morbido, di melodie e armonie progettate al millimetro, di soundscapes aperti e confortanti, di Pop studiato e arrangiato e prodotto con coscienza ad ogni livello, ma che lascia poco il segno. Una volta arrivati qui, però, al prossimo passo la strada è breve: e i Delawater promettono bene.

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D.In.Ge.Cc.O. – Y.S.I.L.F.U.

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L’esordio di Gianluca D’Ingecco, in arte D.In.Ge.Cc.O., titola Y.S.I.L.F.U. (sta per “your spirit is looking for u”) ed è una raccolta di brani elettronici strumentali dalla durata media di sei/sette minuti. In otto tracce di atmosfera vintage, tra sintetizzatori pastosi, beat retrofuturistici, arpeggiatori frizzanti, D.In.Ge.Cc.O. ci dona il biglietto per un viaggio in un mondo tutto suo, di un’Elettronica giocattolo di riff scomposti e soundscapes ruvidi. Lo sguardo di D.In.Ge.Cc.O., che in questo disco riflette sue più ampie filosofie (“D’Ingecco si propone di far luce su tutte le sensazioni che nascono da tutte le esperienze umane, sia quelle terrene, ovvero quelle legate ad un mondo crudo, minimale e molto violento ma reale, sia quelle riferibili ad un mondo immaginario surreale, a volte rappresentante esperienze al di là del tempo e dello spazio”), pare comunque volto al passato, per quanto riguarda sonorità e scelte stilistiche, con alterne fortune: in alcuni episodi sembra fuori dal tempo, piacevolmente, in un tentativo di catturare l’ascoltatore nella trappola di armonie rotonde e suoni slabbrati, spigolosi, con una punta di fastidio che è come grattarsi un prurito, un soddisfacente disagio; in altri, pare un rigurgito di tempi che furono e non sono più, sommersi da ormai brevissime e rapidissime ere elettroniche che hanno portato con loro altri gusti, suoni, paesaggi. Ma ricordiamoci che nulla si crea e nulla si distrugge, e che la ciclicità è la vera legge delle cose che non esistono, come l’anima e la musica.

Quindi largo a D.In.Ge.Cc.O. e al suo affascinante enigma: in bilico tra passato e futuro, il disco scorre, si lascia ascoltare, un piacevole panorama che sfreccia fuori fuoco oltre il finestrino di un treno veloce il giusto. Y.S.I.L.F.U. non apre nessuna porta prima chiusa, ma ci mostra un vecchio corridoio in cui non mettevamo più piede da un po’, ed è un corridoio che hanno riarredato da poco. Farci due passi potrebbe anche non essere un male.

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Elevators to the Grateful Sky – Cloud Eye

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Primo full length per i siciliani Elevators to the Grateful Sky, dall’artwork splendido e assai azzeccato: Cloud Eye è infatti un piacevole e duro album di Stoner veloce che si miscela alla passione per la Psichedelia anni 70 (come d’altronde faceva in parte anche l’originale scena del Palm Desert ad inizio 90). Gli ETTGS hanno studiato bene la storia, e il loro tornare sulla scena del delitto è competente e preciso, con qualche aggiunta ben ponderata che sposta il baricentro (e meno male, a più di vent’anni di distanza fare la stessa, identica cosa non avrebbe nessun senso). Abbiamo quindi l’intro di armonica di “Ridernaut”, le chitarre Grunge e brillanti di “Turn in My Head”, o i fiati di “Red Mud”, che ci teletrasportano via dal deserto, verso un finale Soul/Blues sui generis che spiazza e soddisfa. Abbiamo le spruzzate Garage di “Handful of Sands”, inframmezzate da succulenti e grassissimi riff di chitarra fuzz, il mezzo Reggae dell’intro di “Upside Up” che in pochi secondi si trasforma in Punk californiano, poi si rallenta verso voci più pulite in “The Moon Digger”, dal sapore Led Zeppelin, un sapore che rimane in bocca anche dopo i pochi secondi dell’autocitazione di “Xandergroove”. Si finisce tra gli spazi di finto Reggae della title track, che una volta partita poi non torna più indietro, e ci si spiaggia sulla sabbia desertica nella definitiva “Stonewall”, lenta e vibrante, come da scuola Kyuss.

Un disco da ascoltare per tutti gli amanti del genere: Cloud Eye rielabora e prosegue il discorso del Desert Rock con competenza e gusto, senza aggiungere troppo ma funzionando alla perfezione, ottimo discepolo di una scuola che, ne sono certo, ci regalerà ancora numerose cavalcate tra le sabbie torride di ritmiche ipnotiche e distorsioni profonde.

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Idhea – No Chains

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Idhea è una cantante ligure e No Chains il suo ultimo disco, presentato come melodie accattivanti, arrangiamenti taglienti, un viaggio tra il pop d’autore, la ricerca, la sperimentazione e il rock. Ora, è un mestiere anche quello di abbellire in ogni modo possibile un disco in sede di presentazione, però dai, un limite mettiamolo. La sottile linea tra il make up e la chirurgia plastica. No Chains (non ha senso girarci attorno) è un disco brutto. Esplicitiamoci meglio: è un disco immerso in un immaginario (sonoro e non) che è vecchio, stantio, odorante morte e putrefazione. Si dirà: è lo stesso immaginario che vive ogni giorno in molte delle nostre radio, delle nostre televisioni. È l’immaginario che vince sul mercato. Verissimo. Idhea e i suoi collaboratori, su questo, possono stare tranquilli: la mia profonda e insindacabile stroncatura non avrà nessun seguito sulla carriera di questa bella ragazza a cui piace cantare, con una voce molto particolare (bassa, piena), le sue canzoni Pop / finto Rock. Ma un disco così è un disco inutile, e, in quanto tale, dannoso.

Le canzoni sono trasparenti, le solite tre cose che sentiamo ovunque. Il Pop d’autore lo si cerca dalla coffa, sperando che spunti nella nebbia per gridare con sollievo “Terra!!!”, ma non accade. La ricerca e la sperimentazione, per favore, lasciamole a chi si fa il culo per uscire dal seminato dopo 60 anni e più di musica leggera (non basta un synth buttato dentro a caso). E il Rock… se Rock vuol dire una batteria in 4/4, qualche chitarra elettrica e due assoli, allora Sanremo è Woodstock e il mondo non ha più senso. E anche ad inserire questo disco nel filone del Pop italico mainstream, si fa fatica a dargli la sufficienza. Le melodie non sono poi così accattivanti come ci si vuole far credere, e la produzione, sebbene di livello, non è nello standard radiofonico che possiamo raggiungere oggi (alcuni suoni sono pugni nelle orecchie, e non riesco a farmi piacere questa voce maschile che si appoggia in ogni ritornello sulla voce principale: distrae troppo, manco fossero tutti duetti). E anche quando si tenta di fare di più, si toccano degli attimi di involontaria ilarità: sentire “No Chains” che cita “La Bamba” e “l’hit single” “Non è possibile” dove ad un certo punto si cerca il semi-Rap parlato con risultati purtroppo pessimi. Un disco da cui girare alla larga se appena appena capite la differenza tra Cristina Donà e Laura Pausini, tra Carmen Consoli e Emma Marrone. Fate voi.

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Medulla – Camera Oscura

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Il secondo disco dei Medulla, band milanese che si autodefinisce Dark Cabaret / Cantautoriale Disturbato, nei primi secondi rischia di farmi una prima impressione bruttina. Il primo brano, “La Bestia”, mi fionda in un mondo di Rock mescolato a tastiere gonfie e batterie energiche come schiaffi, con una voce bassa e lineare che ricorda quella di Francesco Bianconi dei Baustelle. Mi ci vuole un attimo per abituarmi alla costruzione sghemba dei Medulla di Camera Oscura, come quelle deformità architettoniche che sembrano poter crollare al primo alito di vento e invece poi noti che uno schema c’è, uno scheletro forte e resistente, una robustezza che pensavi di aver perso nelle linee storte del disegno generale.  I Medulla stanno in piedi, truccati e cupi nel loro mondo un po’ naif, dove ritmiche a metà tra l’alternativo italiano in salsa Ministri e le mode d’oltremanica sostengono una pasta di chitarre e (soprattutto) synth, pianoforti, con un gusto molto retrò che li fa sembrare fuori dal tempo. Camera Oscura passeggia ignaro sul filo di lama, tra attimi gustosi e interessanti (il ritornello di “La Bestia”, qualcosa in “La Polvere” che ha un riff che ricorda quello de “La Fine di Gaia” di Caparezza, la tranquillità iniziale di “La Tenebra”) e momenti di imbarazzo incosciente (ad esempio, i parlati, vedi proprio in “La Tenebra” o alcuni suoni che, nel migliore dei casi, paiono vecchi e stantii e fuori luogo come il riff iniziale  de “Il Coniglio”), probabilmente causati da un posizionamento a livello di mood che si basa più sul desiderio che sulla sostanza: per fare Dark Cabaret, ossia, per creare un lato teatrale e, in senso lato, atmosferico, che sia credibile, bisogna averne la capacità, e qui siamo alla sufficienza scarsa, niente di più. Magari è nel live che questo profilo riesce a farsi notare maggiormente (anzi, sono sicuro che sia così), ma qui stiamo parlando di un disco, e in Camera Oscura i momenti che si appoggiano su questo lato, purtroppo, sono momenti di piattezza, in un lavoro che comunque tenta di essere denso ed emotivamente intenso (alcuni passaggi de “La Notte”, ad esempio, possono tranquillamente immaginarsi sul palco di quel festival annuale che si tiene in Liguria, il che non è per forza un male). Anche sui testi si potrebbe lavorare di più: per fare qualcosa che si possa assimilare al cantautorato non basta fare dei testi intelligibili (questo è scrivere canzoni, lo fanno tutti). Se davvero si vuole scomodare la già di per sé scomoda e indefinita definizione di cantautorato, la ricerca (sia nella forma che nel contenuto) deve approfondirsi, e qui siamo senza dubbio sommersi, sì, ma vicini alla superficie.

Riassumendo, un disco prodotto bene, suonato altrettanto bene, che nel complesso sta in piedi e che a tratti sa anche essere convincente, ma che poi scade in mille piccoli particolari che sembrano improvvisati, o che vengono preparati con cura in teoria ma traditi dalla pratica. Con più focus e una scrittura più congeniale ai veri punti di forza della band (la voce calda, quando canta, le ritmiche piene, il pianoforte) poteva uscire un disco da gustarsi dall’inizio alla fine. Con Camera Oscura, così concepito, facciamo più fatica.

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Wild Beasts – Present Tense

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Seguo i Wild Beasts da quando vidi il video di “Brave Bulging Buoyant Clairvoyants” su qualche canale musicale una domenica mattina post-sbronza. Ipnotizzato da quella sequenza di immagini da emicrania, complice forse il mio stato mentale alterato, fu amore istantaneo, un amore che è cresciuto all’uscita del secondo disco, Two Dancers, e si è leggermente sopito con il terzo, Smother, che mi pareva mancasse di unità nel suo declinarsi verso l’elettronica.

Bene, con questo ultimo Present Tense il quartetto inglese recupera ciò che eventualmente aveva perso negli ultimi tempi, e si conferma una band intensa ed estremamente interessante, capace di creare atmosfere rarefatte e cariche di tensione allo stesso tempo, generando canzoni piene di meraviglie e con una sorpresa ad ogni piega della stoffa morbida di cui sono ricamate, ma riuscendo a renderle orecchiabilissime, un balsamo uditivo che scorre facile come un placido fiume fresco nella calura estiva (fin dal primo singolo, “Wanderlust”, brano che apre il disco e che con le sue percussioni ossessive bagnate in ondate sonore che le spostano in battere e in levare già dimostra come, nei Wild Beasts più che mai, il bello sia come il diavolo, nascosto nei dettagli). Il loro mix sapiente di beat elettronici e atmosfere sintetiche è ciò che li caratterizza maggiormente: sono danzerecci e radiofonici ma allo stesso tempo ricercati e imprevedibili, e nel panorama dell’elettronica vintage rimangono comunque gli aristocratici bohemienne e senza peli sulla lingua che erano ai tempi di cose più suonate. Senza tacere del fatto che, come musicisti, sono fenomenali: andateli a vedere dal vivo, se vi riesce. Fosse anche solo per le voci di Hayden Thorpe e Tom Fleming (risulta quasi incredibile la casualità con cui due vocalità del genere si siano trovate nella stessa band).

Present Tense è uno di quei dischi di cui non si può parlare più di tanto, perché tutto ciò che si può dire è contenuto nel disco stesso. Non c’è interpretazione o spiegazione che tenga: ascoltatelo. Può giusto non piacere a chi soffre l’elettronica e la morbidezza, ché qui si spinge l’acceleratore a tavoletta su tutte e due le strade, senza remore. Per tutti gli altri, fatevi accompagnare dai Wild Beasts per un tratto di strada, sarà la compagnia più bella: quella dell’amico con cui puoi stare in silenzio perché, tanto, non c’è bisogno di dire nulla.

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Le Luci della Centrale Elettrica – Costellazioni

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È difficile scrivere una recensione di questo disco. Forse perché non stiamo parlando davvero di UN disco, ma di dischi, al plurale. E poi stiamo parlando di Vasco Brondi, che, volenti o nolenti, è stato considerato una voce di punta della fantomatica leva cantautorale degli anni zero. Da questo disco (il terzo) ci si aspetta qualcosa, fosse anche il proseguimento della continuità che c’era tra i primi due, ma più realisticamente si spera in un’evoluzione, un passo avanti nel percorso artistico de Le Luci della Centrale Elettrica. E quindi? Andiamo con ordine. Prima di tutto va detto che il disco è un disco denso. Non è un disco facile da esplorare. Alcuni episodi sono magari più accessibili del solito, ma si ha bisogno di tempo per entrare in tutti i dettagli, e anche scrivendo questa recensione continuo a scoprire cose e a rendermi conto di particolari prima inosservati. Questo fatto è strettamente collegato a ciò che accennavo più sopra: I dischi, non IL disco. Costellazioni (così ammette lo stesso Vasco) ha avuto una genesi travagliata, prima scritto e arrangiato “al computer” con Federico Dragogna dei Ministri, poi registrato in studio con una pletora di (peraltro ottimi) musicisti, ottenendo in pratica due dischi distinti, che in seguito sono stati “fusi” per creare questo prodotto ibrido, che Vasco sente suonare come “canzoni dalla pianura padana lanciate verso la galassia, storie piccole ma che si vedono anche dalla luna”. È un disco in cui convivono tante anime diverse, dove Vasco si è divertito a inseguire i tanti suoi gusti e punti di riferimento (CCCP e Battiato su tutti), dove ha sperimentato cose mai tentate prima (testi narrativi, più focalizzati; il cantato, che prima era esclusivamente parlato o urlato, diventa in alcuni casi più melodico; la chitarra viene spesso relegata in secondo piano, e sostituita con pianoforti, beat elettronici, oceani di synth, archi, fiati). Abbiamo quindi “I Sonic Youth”, una dolce ballata per pianoforte, elettronica e voce, ma anche “Firmamento”, elettrica e aggressiva, dove Vasco riprende “lateralmente” i generi che suonava nella sua adolescenza; c’è “Le Ragazze Stanno Bene”, scritta con Giorgio Canali, più classica, con voce e chitarra acustica a giostrare il marasma, ma anche “Ti Vendi Bene”, che è in pratica un pezzo sfigato dei CCCP (ma non per colpa di Vasco, sono i CCCP che sono inarrivabili).

Insomma, Costellazioni è un pastiche, è caos, è confusionario e sfilacciato, però è anche un disco coraggioso, perché darà nuovo materiale critico ai detrattori, scontentando al contempo quella fetta di seguaci affezionata allo stile sempre identico che Le Luci della Centrale Elettrica aveva reso quasi materiale di barzellette o di generatori automatici di canzoni di Vasco Brondi. In questo io ci vedo coraggio, perché Vasco ha saputo inseguire alcune ispirazioni che lo tentavano, lasciando i lidi comodi e sicuri della sua solita solfa, sperimentando, incastrandosi, cucendo, scucendo e ricucendo i brani. In alcuni casi questo coraggio ha pagato (il primo singolo, “I Destini Generali”, è luminoso e leggero, cosa che non gli era mai riuscita bene in passato, e rappresenta bene il filone di speranza, di “musica sotto le bombe” che attraverso il disco come una lama di luce nel buio; in “Un Bar Sulla Via Lattea” e in “La Terra, l’Emilia, la Luna” è riuscito a rendere bene l’idea di musica rurale e spaziale” tra la provincia, a cui tiene tantissimo, lui emiliano di Ferrara, e le stelle), in altri casi rischia molto di più di spiazzare l’ascoltatore (“Padre Nostro dei Satelliti”, “40 Km”, “Macbeth Nella Nebbia”, per alcuni versi “Uno Scontro Tranquillo”) e di sembrare perso, smarrito nel disorientamento causato da un overload di informazioni, idee, spunti. Il disco, insomma, è un mezzo fallimento, ma al contempo una mezza vittoria: porta Le Luci della Centrale Elettrica fuori dal pantano, verso le stelle. È vero, lo fa spesso con ingenuità e con poca chiarezza del percorso da fare, ma mi sento di dire che ascoltando Vasco parlare durante la presentazione del disco ho percepito che questo, lui, lo sa. Sa che il disco è il risultato di tentativi, di prove, di colpi di reni disperati e molto, molto necessari. E sa (e lo ammette) che il futuro sarà scegliere, tra le numerose vie che questo album-crocicchio ha aperto, quella che saprà convincerlo di più, e prenderla e percorrerla fino in fondo.

Per finire, due considerazioni: la prima è che non scherzavo quando dicevo che il disco è un mezzo fallimento, ma anche una mezza vittoria. Sono I dischi, ricordate? Quindi il mio consiglio per l’ascolto è di approcciare Costellazioni col cuore aperto, e di saper riconoscere quali canzoni riescono a parlarvi, e quali no. C’è per forza qualcosa per voi, lì dentro. Io, per esempio, sono stranamente stregato da “Blues del Delta del Po”, da “Uno Scontro Tranquillo”, da “Le Ragazze Stanno Bene”… insomma, io mi sono creato una sorta di Costellazioni privato, che mi parla in prima persona, lasciando fuori ciò che non mi arriva. In questo senso, l’avere perso focus in favore della varietà e della sperimentazione anche “strana” è stata una mossa vincente. Pezzi così, nel bene e nel male, difficilmente li incontrerete altrove. La seconda considerazione è su Vasco Brondi. In questo disco è chiaro come non mai che definirlo cantautore, se non un errore, è quantomeno un understatement. Vasco fa Punk, fa Rock, ha nelle orecchie gli anni 80, l’elettronica, i sintetizzatori, le distorsioni. Le Luci della Centrale Elettrica può diventare, ancora di più, un progetto trasversale, aperto, capace di tutto. Questo disco è un azzardo, è, se vogliamo, uno sbaglio, ma è dagli sbagli che nascono le emozioni vere. E quindi ascolto questo delirio di disco immaginandomelo con la metà delle canzoni e con una concentrazione più affinata, e so (e spero) di stare ascoltando il prossimo disco, Le Luci della Centrale Elettrica di domani, ed è un bel sperare.

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Gouton Rouge – Carne

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I Gouton Rouge presentano questo disco con un comunicato che ha come esergo un brano di Pavese (“Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione”), e io non posso non incuriosirmi. Anche perché il tema della carne (e Carne è proprio il titolo dell’album) è un tema affascinante, trasversale, uno di quei temi archetipici e universali che è possibile affrontare in modi molto diversi, approfondendone aspetti diversi. Qui, in realtà, di carne se ne trova veramente poca. È più un alludere, soprattutto attraverso i testi, secchi e brevissimi, che in realtà sembrano il materiale di una sola, lunga canzone, una canzone d’amore, di rifiuto, di speranze che sorgono e poi implodono, con un’attitudine emo-zionale che oggi si respira sempre di più, ma che a volte (e anche qui accade) corre il rischio di sembrare artefatta, una sorta di ricatto emotivo che deve strapparci per forza l’angoscia, la malinconia, o qualche altro sentimento crepuscolare. Musicalmente il disco si compone di un Rock alternativo che miscela bene la voglia di graffiare e la morbidezza dell’immaginario che lo contorna, con ritmiche sostenute, chitarre arpeggiate e limpide che oscillano tra il melodramma e l’atmosferico, e con una voce trasformista e un po’ retrò, che sa ammorbidirsi (tanto) e grattare (poco). Se devo dire la verità, mi è sembrato un impianto decente ma senza guizzi particolari (a parte alcuni episodi in cui il gioco è più riuscito, come “Sbiadire”).

Riassumendo, credo che Carne sia un disco che parte da un’idea non malvagia: il rapporto a due che c’è, non c’è, è sconvolto, torna, è speranza ma anche dispiacere, è salvezza ma anche perdizione, in un’ellissi continua della carne, quella vera, che si immagina e non si vede mai; però poi si incaglia in un ripetersi, in un ciclo di auto-citazioni che uccide in parte la “biodiversità” del disco. I Gouton Rouge suonano bene, ma con uno stile che vibra così contemporaneo, così “alla moda” che sembra già un po’ vecchio. Insomma, un disco che amerete a dismisura se il genere riesce a parlarvi, altrimenti rischiate di sentire una sola canzone triste lunga un disco, senza portarvi niente a casa. A voi la scelta.

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Le Chiavi del Faro – La Furia degli Elementi

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La Furia degli Elementi: il titolo di questo primo lavoro degli umbri Le Chiavi del Faro è azzeccatissimo. Partiamo subito con il dire che in questo disco c’è veramente tanta (troppa?) roba. I tre definiscono la loro musica Free Funk, ma diciamo che l’accento va messo, senza dubbio, sulla parola free. Il disco infatti miscela di tutto, dall’elettronica giocattolo, fuori posto, di “1-2 (IN)” (che prosegue nelle successive “3 (CON)”, “4-5 (SCIA)” e “6 (MENTE)” – scelta che mi sento di non condividere, sembra un EP piazzato forzatamente dentro ad un disco che è tutt’altro), al sax in salsa progressive di “Tentativo Numero Uno”, al “Post-Funk” con cui aprono le danze, nei sette minuti e rotti di “Tormentati alla Ricerca dell’Obbiettivo Comune”.

A Le Chiavi del Faro va dato atto di non risparmiarsi su nulla, e di seguire le loro inclinazioni con una libertà rara, che permette loro di arrivare veramente ovunque. Il rischio (che qua è certezza) è di creare un prodotto magmatico, “furioso”, per l’appunto, dove si fa fatica a trovare capo e coda, le tracce, almeno, di un discorso, di un percorso. Musicalmente il trio gira, sa inventare e re-inventare, suona anarchico e spaziale, con attimi di quasi Post-Rock atmosferico (“Cambiamento”) da un lato e groove virtuosistici dall’altro (“Le Macchine Straordinarie”, “La Morte del Fuoco”). Manca una direzione, ma può essere una scelta, e se di scelta si tratta, è solo (!) questione di arrivare alle orecchie (e alle teste) giuste. Discorso a parte per il cantato, che sembra sempre un po’ fuori luogo, messo lì a caso, con linee melodiche che sanno di vecchio, tra accenti dislocati, un suono troppo neutro sopra la follia strumentale, e testi che non riescono proprio ad arrivare. Forse ci voleva più coraggio (poco, pochissimo in più di quello che già c’è – ed è tanto!): fare un album strumentale di musica infuocata, tempestosa, devastante, senza parole ad interrompere questo flusso inconscio, questa esigenza psicofisica, come la chiamano loro, dove comunque appare chiara e lampante la necessità, l’ansia, l’urgenza di fare, di creare. Un po’ di controllo in più, qualche ingenuità in meno e il disco avrebbe acquistato spessore e importanza. Così sembra un’eruzione vulcanica caotica, un maelstrom senza direzione. La capacità c’è, si può fare di meglio, senza la necessità di voler stupire a tutti i costi. Aspettiamo il seguito.

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Sam Mickens – Kayfabe: Laamb of G.O.D.

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Chi diavolo è Sam Mickens? Un oscuro figuro trasferitosi da Seattle a NY, che da anni rimescola le carte in tavola, tra Post Punk, Soul, Indie Rock, R’n’B, e tutto ciò che la sua malata testa cresciuta tra spirito Garage e afflato da musical gli fa sputar fuori.  E il marasma prosegue in questo suo nuovo Kayfabe: Laamb of G.O.D., progetto autoprodotto su Kickstarter con una presentazione barocca (“a baseline cosmically aware majestic production”, “an old-school concept record marrying charged glam rock with left-field R & B and the wide terrain of guitar-based rock music”, “a great and timeless pop record to make the hills alive”): quindici brani dal suono grezzo, ma nel senso di primordiale, con organi e chitarre a copulare nelle stanze ombrose di riverberi e delay, e un falsetto leggero, vibrante e sincero a collegare i tasselli del mosaico, come calce pronta a rapprendersi al primo vento. 

È strano a volte come le cose ti capitino proprio in quel momento, e non in un altro. Ultimamente mi è successo, per vari motivi, di ragionare su cosa forma il nucleo di una canzone, e di iniziare a contemplare (o approfondire) il concetto di sintesi estrema di una produzione musicale, anche come riutilizzazione di stili, riappropriazione di concetti sonori già utilizzati, nell’ottica di un risparmio, di un’economia del processo creativo. Perché comunque, come un amico mi faceva notare, ogni canzone, per il suo stesso esistere, porta comunque novità (in senso lato); o, nel peggiore dei casi, una variazione sul tema, che è poi è lo stesso. Sta al quid, all’insieme di suggerimenti e spunti che la canzone dà, cercare di darci un appiglio per poter definire quanto ci ha saputo muovere, e, insomma, quanto funzioni il prodotto finale. Questo per dire che i quindici brani di questo Kayfabe: Laamb of G.O.D. si collocano proprio in una prospettiva di risparmio estremo, di sintesi, da un lato: penso alla produzione, all’insieme organico degli strumenti (tastiere, chitarre, cori, batterie, tutti esperiti con un gusto a metà tra il vintage e il lo-fi spinto), alle strutture dei pezzi, alla durata del disco (breve). Dall’altro, si respira una voglia gustosissima di spaziare, di stupire, di cambiare la combinazione degli elementi sempre diversamente, con un impianto che porta a denudare, di ogni pezzo, un piccolo dettaglio sempre differente (passare da “Ballet of the Night” a “Tyrant Sun” – nella tracklist del disco sono in sequenza – è vero bungee jumping).

È un disco da ascoltare più volte, che non cambierà la storia e che magari non sarà timeless, come vorrebbe il nostro Sam Mickens; ma di certo ci può arpionare e trascinare nel suo mondo a scala di grigi, per farci fare un rapido e vorticante viaggio tra il freddo e il caldo, tra il dolce e il salato, tra il chiaro e lo scuro, con pezzi che parlano un loro linguaggio e sanno farsi capire (“False Lion”, “The Demon Star”, “The Fate of Kings Unmade”). Un percorso da mezze tinte che potrebbe anche riservare qualche inaspettata epifania.

Sam Mickens’ Sexual Madness from Kayfabe: Laamb of God from sue-ling braun on Vimeo.

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Warpaint – Warpaint

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Ho visto le Warpaint dal vivo nel loro primo concerto in Italia, al Magnolia di Segrate, non mi ricordo l’anno (ricordo però che chiudevano la serata i Dinosaur Jr). Già all’epoca le quattro fanciulle California-based mi avevano saputo conquistare (dopo aver già conquistato gente tipo John Frusciante, che aveva mixato e masterizzato il loro EP d’esordio, Exquisite Corpse) con la loro miscela di Indie rarefatto e ossessività psichedelica vellutata, sospesa, da persiane chiuse su cappa di fumo da bong, con la luce a filtrare, gialla e pallida, tra le volute lente. Ecco, le Warpaint mi fanno salire l’espressionismo.

In quest’ultimo album self titled, che segue il già fortunato ma alquanto sfilacciato The Fool del 2010, la strada della nebbia Psico Indie è stata presa con ancora più forza e convinzione, trasformandola quasi in un labirinto purpureo di involuzioni fosfeniche, un palazzo escheriano in cui perdersi in saliscendi e false porte. Gli ingredienti del preparato psicotropo sono semplici e neanche troppo imprevedibili (vedere ultimi dischi dei Wild Beasts, per esempio): ritmiche quadrate e ossessionanti, con largo uso di drum machine e percussioni varie; un mare di synth, arpeggi di chitarra in delay, insomma, tutto quanto di più atmosferico ed etereo si possa innestare intorno a pattern ridondanti e riff dai tempi spezzati e rotolanti; e per finire, voci lontane, morbide, d’una femminilità impersonale, una sull’altra, come un coro di occhi lucidi a brillare nel buio.

Il disco (prodotto da Flood, già al lavoro con, tra gli altri, Smashing Pumpkins, Sigur Rós, Nick Cave And The Bad Seeds e mixato da Nigel Godrich di radioheadiana memoria) non ci rimane impresso per qualche canzone in particolare (anche se quelle riuscite per se ci sono: “Love Is to Die”, un instant classic, o “Disco//very”, col suo andamento danzereccio e strafottente, che farebbe la sua porca figura come colonna sonora in qualche episodio di Girls) ma è nel complesso che gira come deve, nella somma delle sue parti: una cavalcata mentale da strafatti californiani che può diventare il ballo ipnotico e lento di qualche sballata nei piccoli locali di LA (d’altronde, “love is to die, love is to not die, love is to dance […] why did you not die, why don’t you, why don’t you dance, and dance…”). Insomma, un buon prodotto in cui perdersi in occasioni rilassate da riempire di fumo e atmosfera. Astenersi cercatori di graffi ed oppositori delle droghe leggere.

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