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DelaWater – Open Book at Page Eleven
Arrivano da Teramo i cinque Delawater, che nel disco d’esordio Open Book At Page Eleven giocano col sembrare poco, pochissimo italiani (e qui è un bene, s’intende): ciò che colpisce delle otto tracce (in inglese) di questo album, sospeso tra la morbidezza del Pop e una pasta sonora quasi Shoegaze, è il gusto nel comporre, la maestria nell’infilare, uno dietro l’altro, dettagli impeccabili, in un tentativo ammirevole di scrivere canzoni Pop (in senso lato) di livello che siano comode, semplici, ma architettate con attenzione, con amore (il primo singolo, “Now I Can See No More”, ne è un’ottima prova: strofa sommessa, ritornello intenso, aperto dai synth, e poi atterraggio su hi-hat in levare nella seconda strofa: da manuale), come una certa tradizione perlopiù inglese e americana ha fatto a partire dai meravigliosi anni 60 (citano tra i loro riferimenti i Beatles e i Love, per capirci). Tutto questo senza disdegnare attimi di disorientamento controllato e liberatorio (la seconda metà di “This Place Doesn’t Build Opinions”, per esempio), che spezzano la morbidezza quel tanto che basta per giungere alla fine del disco senza troppi rimpianti.
E quindi, come da ricettario, chitarre e ritmiche che non hanno paura di rendersi intense e vibranti, passando dalla morbidezza delle acustiche alle distorsioni pastose di elettriche ben calibrate, appoggiate ad un basso torrido e liquido, in mezzo a tappeti di synth e pianoforti che bagnano il tutto e rendono gli spigoli smussati, a prova di bambino, in un calore che più che materno è uterino, e per una volta l’ufficio stampa non mente: “Ascoltare la musica dei DelaWater è come immergersi in una vasca di acqua calda senza fondo, senza rischio di affogare”. Tuttavia, per essere un disco memorabile questo non basta. La bravura con cui i Delawater ci trascinano nel loro mondo acqueo, nel loro libro aperto (per caso o meno) sull’undicesima pagina, non basta a tenerci ancorati lì, a volerne ancora. Sembra una scusa da amante paraculo (“non ti amo, ma amo stare con te”) ma è la sacrosanta verità. Un bel disco, Open Book at Page Eleven, di Rock indie sognante e morbido, di melodie e armonie progettate al millimetro, di soundscapes aperti e confortanti, di Pop studiato e arrangiato e prodotto con coscienza ad ogni livello, ma che lascia poco il segno. Una volta arrivati qui, però, al prossimo passo la strada è breve: e i Delawater promettono bene.
Dead Man Watching – Love, come on!
Genere arduo, almeno per il sottoscritto, quello con cui si misurano i Dead Man Watching, trio veronese che dopo due Ep pubblica il suo primo “Full lenght”. Genere in cui è facilissimo sbagliare e risultare, come dire, un po’ banali. Fosse realmente alt country sarebbe facile bollarlo come un tedioso tentativo di sentirsi piccoli Neil Young alla riscossa. E invece l’album è una piacevolissima scoperta ascolto dopo ascolto. Ricchissimo di spunti, contaminazioni che vanno dallo slowcore al brit-pop i Dead Man mostrano di saperci fare e di catturare l’attenzione a piccoli colpi di classe e intelligenti accorgimenti che denotano stile ed eleganza. Avete presente quell’arguzia di Jeff Tweedy in grado di riabilitare cantautori solitari mid-seventies e farli apparire moderni e sensati rileggendoli in chiave anni novanta? E’ più o meno così che suona quest’album. Mascherata la tecnica e messe da parte volontà individuali di eccellere, il trio trova costantemente il giusto equilibrio tra i moltissimi ingredienti desiderati senza sbilanciarsi mai troppo. Minimale quanto basta per dare sensazioni più che lasciare soddisfatti, il disco passa con disinvoltura da momenti più acustici e intimisti (August Burns, Love, come on!) a spunti più devoti al classic rock (Give it a sound) sempre affrontati in maniera consapevole e originale: il crescendo finale di chitarra in Red Baloon non solo è da manuale ma è ancor più intrigante e spettacolare l’idea di smorzarlo quasi sul nascere evitando un evolversi banale e scontato. Piccoli grandi Wilco di casa nostra crescono.