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Luchè – L1
E’ un dato di fatto. Gli ultimi due anni hanno visto spuntare tra gli innumerevoli canali di MTV tipi più o meno loschi, più o meno muscolosi, più o meno tatuati sul collo, più o meno rasati ma decisamente più incarogniti e meno umili di qualsiasi altra cosa sia mai capitata nel music business in Italia.
A partire dall’esplosione di Fabri Fibra il grande schermo della musica è loro, tutti nati da i bassifondi, abituati a lottare in piccoli ring con le parole e con le braccia. E’ il loro momento ed è facile renderesene conto. E tutto ciò muove in me sentimenti contrastanti. Non saprei avere termini di paragone per stabilire chi è un semplice fenomeno incartato in diamanti e cappellino da chi emerge dal fondo e tiene il pugno chiuso con purezza e dignità, ma grida solamente un po’ più forte la sua prepotenza.
Potete dunque capire le difficoltà che io posso riscontare ora che mi trovo davanti a uno di questi personaggi. I muscoli? Ci sono. I tatuaggi sul collo? Pure. La rasatura? Capello sufficientemente corto. E ora concentriamoci sul contenuto del barattolo. Per vedere se riesco a distinguere la frutta fresca da quella omogeneizzata.
Luchè è un ragazzo di 31 anni, nato a Napoli e si sente (non solo dall’accento). Si presenta con le spalle forti di 15 anni di attività nell’underground hip-pop con il duo Co’Sang, ben conosciuto nell’ambiente. A pochi mesi dallo scioglimento del gruppo, Luchè prende coraggio, scrive in italiano (abbandonando il verbo napoletano che prodigava a spada tratta con il suo gruppo), si mette in gioco e ci mette la faccia. Ed ecco il suo primo disco “L1”.
Il ragazzo è furbo e si para subito con una produzione (magistrale) di Rosario Castagnola e Geeno e spara dritto sicuro allo schermo grazie alle collaborazioni con artisti ormai idolatrati come Marracash, Emis Killa e Club Dogo.
Si parte in quarta viaggiando verso il cuore, ma Luchè ci risputa fuori dalla sua ugola tagliente. “Bisogno di me” e il singolo “Appena il mondo sarà mio” fanno capire quanto intimo e incazzato sia l’esordio dello scugnizzo. Egoista per necessità, combatte il mondo che ha davanti con grande e fiera spavalderia (“davanti agli occhi del diavolo sarò un dio blasfemo”, “esiste l’hip-pop italiano poi esisto io”).
La precisione quasi maniacale nei dettagli e negli arrangiamenti spicca subito all’orecchio già dalle prime tracce, differenziando la musica di Luchè da gran parte del minestrone: tanta dance (a volte anche “vintage” da ricordare i gloriosi anni 90), basso distorto che pompa a manetta e tanta Napoli anche nelle melodie e nei beat che rendono ancora più luccicante la “poesia cruda” (così a lui piace definirla).
Poi arriva il superospite Marracash e il riffone di “Rockstar”, un po’ pacchiana e tamarra (solita questione: da quando strizzare l’occhio al music business è peccato?) ma onesta e ben bilanciata tra sacro e blasfemo.
Il disco si fa ascoltare tutto anche da chi come me l’hip-pop non lo digerisce facilmente: “Chi non dimentica” è violentissima, è guerra e far rabbrividire per quanto è sofferta e determinata; “On fire” sembra seguire un po’ troppo l’onda spregiudicata e autocelebrativa degli ospiti Club Dogo mentre l’altro ospite Emils Killa in “Lo so che non m’ami” ci riporta dentro le vecchie mura, atmosfere dance per rabbia sincera e irrazionale, a cuore in mano, delusione profonda di chi non molla la fune e risale piano piano la cima nonostante le innumerevoli valanghe gelide che gli piovono addosso (“per te io mi butto nel fuoco, tu invece ti incazzi e diventi di ghiaccio”).
La “poesia cruda” insomma stupisce fino alla fine del disco: “tatuarsi il mondo sulla pianta del piede e ballare fino a quando il sole interviene” è il grido d’amore de “La Risposta”; “sposo l’odio, il mio amore terreno, combatto questa guerra nel nome dei figli che avremo” è la profezia di “Figli dell’odio” che con giochi di parole riprende la dura guerra tra violenta passione e eccentrica spiritualità.
La chitarra di “S’il vous plait” grida ribellione nel pezzo più lento e sobrio del disco che chiude il cerchio e va al centro, proprio dentro le vene di Luchè, che pompano sangue marcio di vendetta e fluido come un mare in piena di emozioni.
Il frutto in definitiva sembra freschissimo, con quella punta di conservante che serve a mantenere piacione il prodotto, senza snaturarlo.
L’impressione ovviamente è che di tutto questo magna primordiale di brutti ceffi, che per ora intasa gli spettacoli pomeridiani delle reti musicali, non rimarrà molto neli anni a venire. E’ la dura legge del pop e lo sappiamo bene. Ma Luchè merita, la speranza per la buona musica è che arrivi in fretta in cima contro tutti i venti che ostacolano la salita. Per piantare ben salda nel terreno roccioso la sua personale bandiera, cucita con onestà, sangue, sudore e tante crude poesie.