Michele Anelli, al suo ritorno dopo la collaborazione con i Chemako, si presenta con un disco di svolta per la sua quasi trentennale carriera. Abbandonate definitivamente le sonorità Roots Rock degli esordi coi Groovers, il nostro vira infatti in modo deciso verso un Pop ispirato agli anni 60 non senza venature Rock Jazz Prog & Beat, ed un cantato che trova sempre più il suo faro in Lucio Battisti. Questa svolta è figlia dell’incontro con il tastierista Andrea Lentullo e con il contrabbassista Matteo Priori che hanno sviluppato idee che Anelli rincorreva da tempo ma che fin qui aveva solo sfiorato. Il disco, prodotto da Paolo Iafelice, già al lavoro con Fabrizio De Andrè, P.F.M., Vinicio Capossela, Daniele Silvestri e tanti altri, risulta essere molto curato ma non riesce a catturare. Le liriche di Anelli, che in passato ha prodotto rivisitazioni di canti di lavoro e resistenza, sembrano provenire direttamente da quei periodi (“Leader”) non convincendo appieno neanche nei momenti migliori. Anche il sound può talvolta risultare più datato di quanto dovrebbe; nonostante ciò non mancheranno comunque momenti piacevoli durante l’ascolto. Il disco ci parlerà dell’amore con le sue comprensioni ed incomprensioni, dell’importanza del suo tetto che ripara dalla pioggia battente che la società ci scaglia addosso, nonché della necessità di svegliarci, alzare la testa e riprenderci le nostre strade e possibilità, i nostri giorni, la nostra vita. Troveremo i momenti più apprezzabili nel brano di apertura “Lavoro Senza Emozioni” capace in qualche modo di coinvolgere con i suoi cori quasi ossessivi ed una melodia ariosa a far da contraltare, nella ballad Pop-Rock “Adele e le Rose” e nella gradevole “Alice” per quanto adatte, soprattutto durante i ritornelli, al festival della città dei fiori, in “Gospel”, brano nel quale interviene il Lift Your Voice Gospel Choir, che Anelli dedica alle persone incontrate durante il suo percorso e rilevatesi importanti per la sua crescita di uomo ed artista, e nella conclusiva title-track, leggera e jazzata, nella quale la voce oltre al cantato sarà impegnata in una parte parlata per il testo meglio riuscito dell’intero lotto. Michele Anelli, al quale non va negato il merito di cercare e frequentare da sempre strade distintive, sforna dunque il disco che da tempo sognava e inseguiva ma senza purtroppo riuscire a emozionarci. Giorni Usati alterna luci ed ombre, ma si tratta comunque di luci mai abbaglianti come di ombre con le quali è possibile convivere. È un disco che manca del giusto mordente e di conseguenza non lascia il segno ma che può, sotto certi punti di vista, essere considerato quasi come un esordio, un primo frutto di una pianta che in futuro potrà probabilmente donarne di più maturi, ricchi e succosi.
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Colapesce – Egomostro
Sono trascorsi tre anni dall’ultimo disco ufficiale di Colapesce, tre anni durante i quali il cantautore siciliano ha raccolto pezzi di “mostri” in giro per l’Italia, tre anni per dare vita al nuovo Egomostro. Un disco diverso dalle precedenti produzioni sotto ogni punto di vista, Colapesce appare più maturo e in un certo senso abbastanza “sperimentale”, il sound profuma di anni ottanta, Lucio Battisti che lascia la sicurezza Mogol per sperimentare liberamente. Con il precedente Un Meraviglioso Declino avevamo conosciuto un artista molto legato alla leva cantautorale degli anni zero, apprezzabile e godibile, niente però riusciva a tirarlo fuori dalla mischia con spiccate autorevolezze compositive. Le cose cambiano inevitabilmente, sia nel bene che nel male. Egomostro rappresenta la maturità artistica di Colapesce, un disco certamente poco diretto ma capace di entrarti dentro pian pianino per restarci prepotentemente. Ad un certo punto della vita senti il bisogno impellente di approfondire le cose, di capirne il senso, non per sembrare presuntuoso, soltanto per viverle a pieno. Egomostro racchiude la consapevolezza della maturità che non si ferma davanti alla facciata, Colapesce decide di entrare nel vecchio palazzo per ammirarne tutte le stanze, per respirare quell’aria di chiuso che a molti darebbe fastidio. Dopo l’intro, il disco dimostra subito di essere elettronicamente diverso, quasi Punk, con “Dopo il Diluvio”. Roba fresca, diversamente attraente. Le mie papille percepiscono dell’agrodolce in “Reale”, la ritmica incalzante mette allegria ma l’aria non è delle migliori per sentirsi felici, la tristezza in un certo senso rende riflessivi. Lo stomaco si chiude, la bellezza incontrastata di “Sottocoperta”, la canzone italiana che offre grandi sensazioni, quelle capaci di farti accapponare la pelle, quando pensi che non avresti chiesto di ascoltare di meglio. Colonna sonora da dedicarsi nei momenti più intimi, ad ora il miglior pezzo dell’album almeno per emozioni trasmesse. “Egomostro” torna a portare sperimentazione fine anni settanta, non mi esalto troppo ma ne apprezzo le potenzialità, Colapesce ha deciso di spostare tutte le sonorità del disco su quella strada, sarà la sua personale passione nei confronti di Battiato. Ascolto il mare, penso al vento che taglia la faccia, penso alla dolcezza di una carezza, “L’Altra Guancia” scioglie ogni riserva emotiva alla quale ancora mi ero attaccato. “Maledetti Italiani”, rappresenta tutto il brutto della nostra società, una protesta a cui ultimamente siamo abituati, a cui non facciamo neanche più caso, della quale tutti ci sentiamo vittima senza reagire, inerti. Di Egomostro riesco ad apprezzare quasi tutto, la non convenzionalità dei brani mi rende fiducioso sul futuro della musica italiana, Colapesce si mette in gioco pesantemente e vince. Il disco è indubbiamente di duro impatto, fermarsi al primo ascolto significa non capirne la volontà, significa avere un approccio mediocre e superficiale verso l’arte. Colapesce è tornato in grande stile registrando un disco considerevole, questa volta riesce a togliersi l’etichetta di piccolo cantautore diventando grande, dimostra di saper comporre musica diversa e scrivere testi calibrati. Egomostro sono riuscito a renderlo mio, a farlo aderire alla mia personalità, a capire tutto quello che voleva trasmettere. Egomostro è un grande lavoro, avevamo tutti bisogno di un Colapesce in queste condizioni compositive, ormai non posso più farne a meno.
La Band della Settimana: Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere
Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere è un power trio nato a Piacenza nei primi anni ’10 con coordinate ben precise che si spingono sostanzialmente verso la musica che ha influenzato intere generazioni durante i nineties. Cantano in italiano, suonano in americano, cercando di scrivere belle canzoni. Musicalmente parlando, sono influenzati dai Dinosaur Jr così come da Lucio Battisti.
…Una Sera con Lucio, l’album di Alberto Radius e Ricky Portera
Esce …Una Sera con Lucio, il nuovo album di Alberto Radius e Ricky Portera, un tributo a due grandi della musica italiana: Lucio Dalla e Lucio Battisti. Radius e Ricky, storici collaboratori dei due grandi artisti, ripercorrono il repertorio rivisitando i brani, personalizzandoli e avvalendosi di due ospiti: Clara Moroni (corista di Vasco Rossi) e Roberta Coppone in duetto con Ricky in “Vita”. L’album racchiude anche “La Sera dei Miracoli”, che contiene la voce originale registrata da Lucio Dalla. Il disco, uscito con l’etichetta Videoradio di Beppe Aleo, è stato prodotto e registrato da Ugo Poddighe agli UP Studios di Milano ed è distribuito da Self.
Aa. Vv. – Streetambula
Streetambula è la compilation, di ben 20 pezzi in due dischi, che è stata prodotta in seguito all’ottima riuscita del concorso omonimo, svoltosi l’estate scorsa a Pratola Peligna (AQ). Prepariamoci quindi ad una carrellata dei brani presenti nei due dischi della compilation: due canzoni per gruppo più alcuni extra affidati ai De Rapage, vincitori del concorso. Aprono le danze The Old School, che, come da nome, regalano una ballabilissima “Rock’n’Roll All The Night” da vera vecchia scuola, sorprendentemente solida e frizzante. Nulla di nuovo, ma di certo un Rock’n’Roll che sta in piedi e che avrà fatto agitare una buona fetta di pubblico. Ci spostiamo in zone più raccolte con “Gloom” de A L’Aube Fluorescente, che invece, a dispetto del nome altisonante, si buttano su un Rock alternativo lineare e molto inglese, anche piacevole se vogliamo, suonato con coscienza e scritto con criterio, ma senza guizzi particolari.
Doriana Legge ci fa prendere una piccola pausa con “Palinsesti”, arpeggi in delay, pad iridescenti di synth in sottofondo, voce alternativamente sospesa e teatralmente piena (anche troppo, a volte) accompagnata da cori leggerissimi, e poi si sale a cercare l’esplosione, il climax, che però non arriva: viene solo suggerito da una chitarra distorta e dall’andamento vocale (pesa forse il non avere in organico qualcosa di percussivo – una batteria – che sostenga il crescendo). I De Rapage, vincitori della kermesse, infiammano tutto con l’energica “Il Grande Rock In Edicola”. Sembra di essere tornati a cavallo tra gli anni 80 e 90, sommersi da riff in distorto sostenuto e batterie ossessive, dove rullo e charlie fanno da padroni, a combattere una guerra assai rumorosa con le voci, sguaiate e sporche, come ben si confà all’impianto ironico-divertito dell’ensemble. La potenza live della band è fuori discussione: granitici, anche se non danno molto di più dell’energia grezza che producono.
“Crazy Duck” dei Dem è una sorta di Blues che triangola tra percussioni povere e continue, riff elettrici pieni di ritmo e groove, e una voce femminile che non sbaglia una virgola. Esibizione stralunata e a mio parere molto, molto divertente, che si perde un po’ quando rallenta sugli accordi di chitarra ritmica – ma poi si riprende, folle come in partenza, in un inseguimento allucinato di chitarra e percussioni. Stravaganti il giusto per spiccare nella massa, orecchiabili quello che basta per farmeli riascoltare con piacere. Approvati. Di nuovo Rock energico, questa volta dai Too Late To Wake: “Smooth Body” parte infuocata, cassa in quattro, promettendo assai bene (zona Foo Fighters); poi rallenta, si appoggia su un Rock in inglese più smorto e banale, con una voce che, sebbene calda in basso, non brilla sulle alte. Niente di eccezionale, nel complesso, ma con qualche idea interessante sparsa qua e là.
Un intro sospeso tra gli anni 70 e gli Arctic Monkeys per i Ghiaccio1, che in “Roby” si lanciano in un brano veloce, con sezione ritmica indiavolata e una voce trasformista, che qua e là tocca la timbrica di un Giuliano Sangiorgi qualsiasi. Poi rallentano, si rilassano, e ripartono, con un basso che sembra rubato a prodotti vari di Lucio Battisti. Notevole il tentativo di miscelare mood e generi diversi in un brano di poco più di 4 minuti (la coda scivola verso sonorità Reggae, e aggiunge varietà all’esibizione). La canzone non rimane troppo impressa, ma nel complesso si fanno ascoltare con gusto. The Suricates aprono con un intro Noise a cui seguono arpeggi sognanti, in un racconto Post-Punk straniante e circolare (c’è un po’ di confusione in ambito vocale, ma verso la metà del brano la cosa inizia ad avere un senso e a suonarmi così com’è: una voce che grida, sporca, gonfia di delay, esagerata). Un delirio generale ammaestrato, che riesce a tratti ad ipnotizzarmi. Non male.
Il Disco 1 si chiude con due extra firmati De Rapage che appaiono senza titolo: il primo, che dovrebbe intitolarsi “To Be Hawaii”, è una ballad in cui la band abbandona l’energia grezza del Rock italiano primi anni 90 per darsi alla leggerezza – sempre ironico-demenziale ovviamente. Devo dire che il pezzo sta in piedi anche musicalmente, con quel giro di chitarra facilissimo e per questo bello, paraculo ma bello. E mi sento di dire che avrebbe funzionato alla grande anche ad avere un testo più serio (ma non staremmo parlando più, probabilmente, dei De Rapage). Il secondo extra torna un po’ sul sentiero del già visto, si canta e si sbraita e si picchia e si ride, ritornelli da quattro accordi e strofe goliardiche, sempre suonando sporchi & granitici insieme.
Passiamo dunque al Disco 2: ecco di nuovo The Suricates, stavolta alle prese con “New Islands”. Intro psichico e allucinato, qualche intoppo qua e là sul nascere nel reparto chitarre, per un brano che stenta a decollare, ma poi si riprende: lento, lungo, ipnotico. Soundscapes di pianoforti, chitarre che si rincorrono, ritmiche incalzanti. L’onda scende, poi risale. Strumentale ed allucinatorio. Torna Doriana Legge, stavolta con un bel palm mute ritmico di chitarre ad introdurre “Scambisti Alla Deriva”. L’impianto è abbastanza confuso, con qualche imprecisione sparsa. Si è sempre dalle parti di una canzone d’autore post: c’è molto Lo-Fi, c’è molta teatralità, manca forse un focus maggiore. Il pathos, invece, c’è tutto. “Lisergia” per i Ghiaccio1: abbandonate le velocità Indie-Rock, ci si butta su un simil-Western con copiosi bending e momenti di frizzante distorsione strumentale. Un po’ peggio, un po’ noia.
I Too Late To Wake iniziano epici e brillanti la loro “Grey For A Day”, un Rock lento e malinconico, che, sempre senza sorprendere troppo, si dimostra composta con mestiere, mentre la voce ancora pecca nel registro alto (purtroppo). “Ngul Frekt Auà”, dedicata agli “alternativi del cazzo con la barba”, è il secondo pezzo “ufficiale” dei sempre più ghignanti De Rapage. La musica s’è ammorbidita e l’intento ironico è più preciso e affilato. Rischiano più volte di scadere nel cattivo gusto tanto per, ma qualche colpo di reni all’ultimo secondo sembra salvarli (il ritornello in dialetto, ad esempio – e chissà poi perché). Mi avevano lasciato con una simpatia inspiegabile nelle orecchie, ritornano un po’ meno luminosi e un po’ più piatti i Dem, che in “Ready If You Want Me” abbandonano la (bella) voce femminile per un cantato maschile più piatto, e un registro, in generale, più seventies. Sempre minimale, sempre percussioni leggere, chitarre frizzante e voci, il brano, sebbene sia sempre fuori di testa e pieno di arzigogoli ritmici e strutturali che proteggono lo spettatore dal disinteresse eventuale, non riesce a rimanermi incollato come quello del Disco 1. Sempre più inglesi e sempre più compatti gli A L’Aube Fluorescente (e più me lo ripeto, più il nome mi sembra figo – fuori di testa, ma figo). “Lizard” è un fascio di luce coerente e orecchiabile, che mi fa muovere la testa a ritmo, scritto bene e con una voce davvero poco italiana. Anche qui, niente di particolarmente nuovo, ma il lavoro è fatto bene, e potrebbe bastare.
Li abbiamo inquadrati nel Disco 1, non fanno che confermarsi qui: The Old School si presentano nella loro “We Are The Old School”, un Rock’n’Roll come dio comanda, e non c’è davvero bisogno che vi dica altro – nel bene e nel male. Chiudono il party, come sopra, i De Rapage, con due ulteriori extra: sempre Rock energico, sempre la demenza più spinta, con argomento, nello specifico, l’omosessualità e la terribile esperienza di terminare il rotolo di carta igienica (con una variazione-litania: “mestruo, assorbenti, ciclo, vomito”… ci siamo capiti).
Concludendo questa lunga carrellata di presentazioni varie: la compilation di Streetambula sorprende, e molto, perché una qualità mediamente così alta non era preventivata. Certo, l’audio non è dei migliori, le imprecisioni ogni tanto si fanno sentire, e tante band magari devono ancora mettere a punto qualcosa nei reparti tecnici: ma l’inventiva, la varietà e la passione che si possono trovare dentro questa compilation dimostrano che in giro c’è veramente tanta gente che ha qualcosa da dire. Il futuro sarà fatto di miriadi di band, che vivranno in una galassia musicale sempre più ampia e variegata, e ognuno di noi avrà mille sfaccettature da scoprire, senza doversi per forza aspettare la grande band dei nostri tempi. Iniziamo a guardarci intorno: date un’ascoltata a questa compilation e potreste incrociare qualcuno che vi convincerà a seguirlo con curiosità. Non si sa mai.
Sound of Ireland: Let’s Folk!
Annascaul, un villaggio di cento abitanti in culo all’Irlanda, nella contea di Kerry. Lontano dalla vita cittadina che una città come Dublino può offrire, lontano da contaminazioni metropolitane e frenesia turistica, ma vicino alla vita rurale, alle pecore, a stradine, ad un lago ed all’oceano; dove si respira aria pulita, odore di terra bagnata, rumore di bicchieri che brindano, gusto di birra e musica Folk, ecco dove mi trovo. Dopo solo due ore dal mio arrivo sono nel pub di fronte casa, al bancone con una pinta di birra locale in mano, ascoltando storie su un uomo che nel 1900 ha esplorato il polo sud e che dopo essere tornato a casa sfinito ma ancora vivo, ha deciso di aprire questo pub, chiamato non casualmente il South Pole Inn. Il suo nome era Tom Crean e la birra che sto bevendo si chiama Crean’s in suo onore. Bene, direi che il mio alcolismo qui si chiama normalità e che l’immaginario collettivo dell’irlandese perennemente sbronzo è confermato. Nei giorni successivi scopro che niente è più falso della credenza che gli irlandesi siano unicamente rossi e dalla pelle bianca per la perenne pioggia, infatti fanno ventitre gradi ed intorno a me ci sono persone castane in calzoncini con la pelle bruciata dal sole. Quindi toglietevi dalla testa che siano tutti come “Anna dai capelli rossi”, perché è una cazzata.
Siccome la mia permanenza in Irlanda non é di poche settimane, andando avanti col tempo mi rendo conto delle differenze culturali tra un italiano ed un irlandese, e soprattutto le differenze nel vivere la quotidianità. Andando oltre il fatto culinario (qui si mangiano patate, patate e ancora patate) direi che una differenza fondamentale sono anche i luoghi di ritrovo e gli orari d’uscita: noi abbiamo una cultura di piazza, infatti ci troviamo da qualche parte per poi spostarci in un bar, locale o concerto, loro hanno la cultura dei pubs. Sarà forse anche per una questione meteorologica, ma qui ci si ritrova al pub verso le 18/19 e poi al pub ci si rimane finché non ti sbatteranno fuori. Ecco dunque da dove nasce il mito dell’Irish Pub. Al pub ci entri, bevi, parli, ascolti musica prevalentemente Folk e live, e soprattutto ti metti a cantare ed a battere le mani con il tuo vicino di bancone o con il vecchio dal naso rosso. Questo é il bello, questo é ciò che noi non abbiamo, qui non ci sono distinzioni di classe o età, ed affianco a te potrebbero esserci i tuoi amici oppure tua madre ubriaca quanto te che sta cantando una canzone tradizionale a squarcia gola. Vi é mai capitato di cantare quotidianamente al bar Lucio Battisti sbronzi con vostra madre/padre? Io credo di no, o meglio non credo che sia la norma dell’italiano medio. E non è un caso che ci sia proprio uno slang completamente irlandese per descrivere tutto questo: la parola “the craic”, e l’espressione “the craic was grand!” Il craic (e non si sta parlando di droga) è proprio questo modo di celebrare l’Irish life: con musica, grida, gioia, vecchi amici e nuovi amici appena conosciuti, e dire “The craic was grand!” è come dire “Ieri sera ci siamo divertiti!”.
Insomma a livello musicale noi abbiamo la canzone melodica italiana come simbolo nazionale, loro hanno il Folk, caratterizzato ovviamente da un setup acustico composto al completo da chitarra acustica, violino, fisarmonica, il whistle (flauto irlandese), un benjo oppure il bouzouki (strumento però greco), il bodhràn (una specie di mini bongo-tamburo), cucchiai di legno usati in modo percussivo (stile nacchere), e soprattutto voci basse, piene e vive che raccontano storie quotidiane di bevute, marinai, amori internazionali, ribellione, e viaggi verso paesi lontani. La musica tradizionale irlandese non è fatta di giri di parole e sole-cuore-amore, infatti qui i testi più che cantati vengono raccontati, ed i ritornelli sono caratterizzati da “cori di massa”. Qualche esempio? Gli storici The Dubliners, The Clancy Brothers, The Dublin City Ramblers, o i più Punk The Pogues capitanati dal marcissimo Shane MacGowan, e canzoni come “Irish Rover”, “Spanish Lady” “Whiskey in The Jar”, “Pub With No Beer”, “Seven Drunken Night”, e la mia preferita: “The Wild Rover”. Una sorta di “parabola del figlio al prodigo” in chiave alcolica.
Rocco De Paola – Distinguere di Notte EP
Rocco De Paola è un cantante-compositore della provincia di Salerno, la cui musica e il cui stile maturano negli anni grazie allo studio di tutti gli elementi musicali. Contemporaneamente ascolta i grandi da cui trae aspirazione: Stevie Wonder, Bob Dylan, Lucio Battisti, Paolo Conte e molti altri e come tutti inizia a suonare nei locali e in giro per la terra salernitana fino ad arrivare nel 2012 all’autoproduzione, assieme ad altri musicisti della provincia, del suo mini-album Distinguere di Notte.
L’Ep è formato da cinque brani in acustico, primo tra tutti l’unico in inglese “Don’t Remember”, dolce e di quel tipico sapore musicale che mi riconduce la memoria a James Taylor, per poi continuare col brano che da il titolo all’Ep “Distinguere di Notte” simile a un melodico Jazz caratterizzato dal bel suono del duo chitarra-tromba. Il lavoro continua con “Il Mostro” che lo stesso Rocco De Paola definisce emblema di tutto e che in poche settimane ha ricevuto moltissime visualizzazioni e condivisioni. Si prosegue con il penultimo pezzo “Paura” che ripercorre nel testo quel tipico sentimento umano che si scorge durante la notte a causa del buio ma poi arriva la musica che fa star bene e con agilità mi metterò a ballare. Il mini album si chiude con “La buona Intenzione” nel complesso formata dagli stessi elementi degli altri brani: chitarra ritmica, melodia ondulante e testo in italiano. Un finale che non impreziosisce l’album e che non aggiunge niente ad un lavoro che comunque appare ben fatto e maturo soprattutto nella parte iniziale. Un primo Ep soddisfacente nella vocalità semplice ma comunque curata, nei testi che parlano di attualità, politica e amore, e nell’arrangiamento strumentale a tratti molto maturo soprattutto nelle ballate.
Oltre ai concerti in giro, il progetto principale di Rocco De Paola è la realizzazione del secondo album, questa volta elettrico…io lo aspetto, consigliando infine di sperimentare, certo, ma anche di centrare e sviluppare soprattutto i punti di forza, che sono parecchi.
Il Maniscalco Maldestro – …Solo Opere Di Bene
Odiosi, casinari, massicci, amari e roboanti, in poche parole strabilianti, una di quelle band che sono redditizie per ogni genere di orecchi: lanciatissimi da Volterra tornano Il Maniscalco Maldestro, il groviglio sonico che più di tutti porta a significato il senso delle ottime cose, affogando i minimalismi e le angosce di tanto nerdume intorno in un vortice di imprevedibilità e baldoria precostituita, un ascolto che una volta imbracciato il flusso delle loro canzoni, di redimersi ad altri stili non se ne parla proprio.
Solo Opere Di Bene non è un passaparola fittizio per nascondere una aspettativa di parole secche e pastrocchi non rifiniti, ma un disco esplosivo, scatenante e da corteggiare in quanto è vero, vivo e senza compromessi, una tracklist a “sceneggiate” musicali per una acty-band tra le più promettenti in giro. Deliziosamente squilibrato e fuori, alieno alle mode, il disco dei toscani stampa un caos variegato, uno Zappiano move-it che salta come un indemoniato al cospetto di certi vezzi Caparezziani, e in mezzo le eccitazioni distorte di gole arrossate, tastiere sixsteen, rockettate a taglio, teatralità e poesia a testa in giù, praticamente tutto quello che può trasmettere energia e simpatia brutale, dopodiché la stravaganza di un modo di concepire musica rifinisce questo magmatico dodici tracce, che più che tracce potremmo decifrarle in piccole esperienze sensoriali senza nessun THC a dare di manforte, a fare da ulteriore spessore “tecnico”.
Autentico bordello organizzato, i IMM sono una efficace quanto artistica quadratura alternative, quella dimensione anarco/jump-inducting che, esaltando le radici di una certa “commedia dell’assurdo”, riesce a colorare, trasmettere e (ri)trasmettere la condizione del teatro della vita, quei salti, urli e quadri iconoclastici delle “stanze di vita accanto” che sarebbero tanto piaciute ad un Pasolini se non addirittura ad un Malaparte; scaffalata nella mente la riproposizione personalizzata di “Nessun Dolore” di Battisti avanza il passo guascone e Gaetaniano di “Briciole”, lo zampettare Gipsy su aria alla Buscaglione “Niente d’Importante”, lo Swing da cartoons che sghembeggia divino in “Confessioni Di Un Italiano Medio” prima del Funk/Ska di “Declino Lento” per terminare la corsa in una murder-ballad “Resto Qui”, sibilo, confessione e coro scorato di un’anima/anime in pena che sigla alla grande questa impazzita scheggia di schiettezza di provincia.
Ce ne fossero! Il nuovo Signor Disco dè Il Maniscalco Maldestro, bello e rischioso come uno zig-zag sulla tangenziale di notte e senza lampioni.
Cosmo – Disordine
La musica d’autore italiana in qualche modo è viva, sono qui a renderlo noto con una felicità che mi stringe il cuore e con una notevole quantità di gioia interiore. L’album d’esordio di Cosmo ne è la prova, l’album d’esordio di Cosmo si chiama Disordine. Dietro l’artistico nome di Cosmo si “nasconde” il cuore pulsante dei Drink to Me Marco Jacopo Bianchi, un musicista con una vena artistica talmente in fermento da non riuscire a trovare mai pace e con una voglia di sperimentare ai limiti delle possibilità umane. Bene, ma siamo qui per parlare del disco e che disco. Come dicevo prima la musica italiana impatta contro qualcosa a cui non era certamente abituata, Disordine è cantautorato italiano in forma evoluta, una roba talmente ben confezionata da rimanerci spiazzati con grande interesse sin dalle primissime battute. Si canta e parecchio bene in questo lavoro, i testi sono curati (e molto belli) e la musica si mette sopra le spalle quintalate di elettronica propositiva, immaginate un Lucio Battisti catapultato negli anni dieci sopra una DeLorean con tutte le diavolerie tecnologiche di questo periodo storico e l’intenzione di incidere Anima Latina, il risultato sarà un disco terribilmente Elettro Pop come il sotto esame Disordine. Paragone forte ma sincero.
Cosmo butta dentro Disordine un’impressionante quantità di emozioni interstellari, le parole si fondono dentro le melodie sintetiche ma non troppo fredde, un equilibrio perfetto tra classico e sperimentazione.
Disordine si apre con “Dedica” e subito gli occhi diventano incessantemente sbarrati, molto intensa, il brano ci prepara alla più schizofrenica “Ho Visto un Dio” dalla quale è difficile scollegarsi. Non mi riprendo affatto quando subisco tre coltellate letali della lunghezza penetrante di “Le Cose Più Rare”, “Wittgenstein” e “Numeri e Parole”. Si torna prepotentemente al pop più popular esistente quando si ascolta “Ecco la Felicità”, un’orecchiabilità talmente schietta e sincera da prolungare l’ascolto per svariate volte prima di passare alle più intime tracce che vengono a seguire di cui non sto qui a farvi la noiosissima recensione step by step. Disordine rimane un disco da godersi nel complesso senza scendere nella banalità delle singole situazioni, ovviamente non tutto regge lo stesso livello (sarebbe la perfezione che non esiste) ma il prodotto aderisce precisamente al concetto del “disco” che tutti vorrebbero ascoltare. Un esordio che non poteva essere più colorato per Cosmo, l’elettro cantautore più impressionabile di questo già prepotentemente smezzato duemilatredici, mi verrebbe da urlare “Cazzo che disco” ma per educazione non è possibile.
Calcutta – Forse…
È scientificamente provato che vivere l’esperienza del viaggio nel tempo ha pesanti ripercussioni sul fisico e sulla mente. Io, ad esempio, ne ho vissuta una proprio di recente ed ora mi sento debilitato e fuori forma, faccio fatica a concentrarmi ed a portare a termine qualsiasi semplice azione quotidiana. A parte lo shock di essere catapultato ai giorni della mia adolescenza dove tutto sapeva di brufoli e marmellata, il trauma più grande è stato trovarmi faccia a faccia col me stesso di 20 anni fa che, traslucido di fronte allo stereo, mi ripeteva: “Non farlo, nooo!”. Un evidente caso di paradosso temporale, che avrà pesanti conseguenze sul mio futuro e forse anche sul mio passato. Forse prima di quell’incontro ero un ricco e lardoso figlio di puttana che se ne stava stravaccato sul suo yacht a contare soldi e prendere il sole… Ma veniamo al punto.
È successo che con estrema curiosità ho inserito nel lettore del mio stereo questo Forse… di Calcutta, un giovane cantautore di Latina che si propone forte solo della sua voce e della sua chitarra acustica, e già penso ad una di queste nuove leve dell’indipendenza nostrana tutta barba, occhiali da nerd e melodie esili esili pronte a buttarti nella malinconia e nella depressione. Invece nulla di tutto questo. Parte la prima traccia, Senza Aciugamano, che è da subito molto piacevole e ricorda lievemente i Grant Lee Buffalo per ritmica ed impatto, ma non solo… Il brano si fa ascoltare senza alcun impedimento e prosegue naturalmente fino alla fine, ma è netta una sensazione di deja-vu che ne permea l’esecuzione. Non riesco a capire cosa sia, bisogna andare avanti…
Solo al terzo brano il collegamento è ovvio. Me ne rendo conto quando davanti a me si materializza il poster di Lucio Battisti che mia cugina teneva orgogliosamente sulla parete più grande della sua camera e che ora è proprio qui, davanti a me, evocato dal timbro rauco e distante del nostro Calcutta. Mica roba da poco, direte voi. E no, rispondo io, ma ce ne sarà davvero bisogno? Vado avanti e non mi scoraggio, anche se i miei jeans sono improvvisamente diventati a vita alta. Calcutta si muove bene fra liriche accattivanti e acrobazie semantiche, ti lascia canticchiare ciò che hai appena ascoltato imprimendotelo bene in mente, a volte anche abbandonando strade già tracciate per avventurarsi in interessanti escursioni meno melodiche come in Nicole o nella spiazzante Il tempo che resta sing along, ma l’impressione che resti troppo ancorato al passato è evidente nella maggior parte dei passaggi. Intendiamoci, non che sia un plagio del buon Lucio con tanto di motocicletta e hp, ma questo Forse… ne respira appieno le arie peraltro conosciutissime e si confonde un pochino col già ascoltato. Pregevolissime sono comunque le citazioni (Arbre Magique), simpatico il tormentone dell’amico Enrico (Enrico), trascinante il non-sense (Cane) e interessanti le liriche (Pomezia, dalla quale Flavio Scutti ha tratto anche un video), ma forse non abbastanza per convincere chi ne è incuriosito ad apprezzare in toto il progetto che tuttavia si fa ascoltare ed apprezzare in quanto ad esecuzioni ed idee. Purtroppo la pesante eredità a cui si aggancia e che mi trasporta indietro nel tempo ne sminuisce la preziosità e non ne premia la bellezza anche se, ed è da rimarcare, è di certo un buon disco. È da sottolineare che il nostro si deve essere già cimentato col buon Lucio nazionale e che ne è sicuramente profondo conoscitore nonché artista che ha saputo far suo uno stile piuttosto che limitarsi ad imitare, ma per farsi conoscere ed apprezzare dal pubblico per le sue doti cantautoriali forse dovrebbe discostarsene ancora.
Comunque dal giorno in cui ho ascoltato Forse… comincio a rimpiangere i pantaloni a vita alta: controindicazioni da viaggio nel tempo.
“Diamanti Vintage” Lucio Battisti – Anima latina
Malandrino fu quel viaggio in Brasile e Sudamerica che portò il Lucio Battisti nazionale ad un travagliato parto di questo bel disco Anima Latina, un lavoro intenso, amalgamato in due contrapposti generi musicali, un antesignano lavoro world che comprende le influenze latine – poi assottigliate al minimo – e le vibrazioni personalizzate di tutto quello che dalla Canterbury del Nord arrivava come vento oltre i nostri confini.
Un disco possiamo dire sperimentale, ricco e nutrito di ELP, Genesis e quant’altro faceva Progressive; ma la fama di Battisti è stata anche quella di fagocitare nello spirito che lo pervadeva in quel dato periodo enormi patrimoni di stilemi e sonorità quali new-wave, disco, il prog stesso, molto di beat e abbastanza di R’N’B’ che, una volta rielaborati dalla sua fervida immaginazione, fuoriuscivano in un continuo gioco di sfumature capaci di scavare un solco pieno d’agio e novità stupefacenti per il tempo che correva.
Un Battisti più spirituale e meno cantante? Sì certamente, a pieno titolo, ed è qui che infatti l’artista lascia da parte la forma canzone strofa/ritornello/strofa per abbracciare il cantos senza paramenti, il volo libero del “cante jondo” che si libra su percussioni, cesellamenti armonici e sensibilità estrema fino allora – nella sua odiernità – mai adottate per quello che discograficamente conosciamo.
Al contrario però anche un lavoro poco accessibile – per chi non abituato a vedere e sentire il cantante di Poggio Bustone in queste vesti “alternative”, per la stesura a tratti criptica dei testi, quell’oscurità che fievolmente affiora nelle sottotracce espressive, ma che una volta chiusi gli occhi, ti faceva immaginare e sognare cose distanti dal tran tran festivaliero che becchettava l’Italia della canzonetta; gli ortodossi drizzarono il pelo, gli innovatori lo acclamarono a tal punto che rimase in classifica per ben 65 settimane di cui 13 al primo posto della Hit Parade.
Non era poco per quel 1974 musicale che oramai si rivolgeva solamente all’esterofilismo d’avanguardia, il progressive d’oltremanica arrembava tutto il resto d’Europa e formazioni come King Crimson, ELP, Gentle Giant e vari erano gli alati eroi altolocati del nuovo rock e dettavano legge ovunque, ma questo grande capolavoro si conficcò in mezzo a loro come una spina nel fianco, e i dolori dei Golia – in un certo modo – si piegarono al cospetto di questo Davide della storia sonora del nostro Paese.