Le Hinds sono quattro ragazze spagnole, madrilene per l’esattezza, delle quali, nell’ultimo anno, si è già parlato moltissimo nonostante la giovane età (si va dai diciannove ai ventiquattro anni). Inizialmente erano un duo, composto dalle voci e dalle chitarre di Carlotta Cosials e Ana Perrote, ed il loro nome era Deers, cervi al maschile, animali ai quali tramite un’operazione indolore, affrontata col sorriso sulle labbra, si è dovuto far cambiare sesso a causa della minaccia di causa legale da parte di una band dal nome simile; dall’inizio dello scorso anno alle due si sono aggiunte Ade Martin al basso ed Amber Grimbergen alla batteria. Le ragazze, seppur al loro primo full length, avevano già avuto molto successo con un paio di singoli, su tutti “Bamboo”, e con l’EP Very Best of Hinds so Far dello scorso anno (prima pubblicazione di un certo peso a nome Hinds), grazie al quale le quattro spagnole hanno avuto modo di suonare praticamente ovunque, di aprire per gruppi dal calibro degli Strokes, e di partecipare a grandi festival come quello di Glastonbury. Ma passiamo al disco, che, oltre a parlare di leggerezze varie, è sostanzialmente un bignamino riguardante l’amore e le sue varie sfaccettature scritto da quattro ragazzine riottose, o presunte tali, del secondo decennio del ventunesimo secolo, ben calate nell’epoca in cui vivono, che di restare sole non sembrano proprio volerne sapere per quanto finiscano per correrne il rischio. L’amore e la sua mancanza sono cantati e suonati nel modo sguaiato e sbilenco cui le Hinds ci avevano già abituato e preparato con le precedenti pubblicazioni (solo leggermente più pulito) che qui ritroviamo in buona parte, cosicché questo disco risulta nuovo solo per ventisette dei suoi trentotto minuti di durata. Durante i brani che lo compongono le voci di Carlotta ed Ana, una più melodica, l’altra più grezza, si inseguono, si superano, capita sembrino trovarsi in disaccordo, dare significati diversi alle stesse parole, salvo poi avvicinarsi e stringersi in un abbraccio, talvolta disturbanti eppur piacevoli, capaci di poter farci ricordare Kim Deal (i pianeti Pixies e Breeders sono comunque ancora lontani per le nostre giovani), ma ancor più spesso due sedicenni ubriache al parco in una calda e soleggiata domenica pomeriggio. Musicalmente il disco non ha molto da dire, i pezzi suonano tutti piuttosto similmente, il sound è per lo più un Garage Rock con frequenti strizzate d’occhio al Pop, soprattutto in buonissima parte dei brani fin qui inediti che, escludendo la buona “San Diego”, vanno un po’ a velare l’immagine esuberante delle quattro, il che non è da considerarsi un male a prescindere. Tra i loro riferimenti possiamo trovare Raincoats e Morlocks, così come i Pastels o i B-52’s saccheggiati delle loro tastiere elettroniche, e come sempre chi più ne ha più ne metta; comunque, nel loro specifico caso, a farla da padrona sono quasi sempre le chitarre di Ana e Carlotta, suonate in modo amatoriale o poco più, basso e batteria risultano essere solo lo scheletro al quale appoggiarsi. Si tratta dunque di pezzi facili, fatti per essere imparati a memoria dopo un paio di ascolti, con testi freschi, giovani, talvolta dolcemente stupidi, comunque sempre con quella goccia di emotività ben presente, anche nei brani più espliciti, più vicini all’immagine che le madrilene hanno fin qui dato di loro. I brani menzionabili che troveremo saranno il Garage Pop del nuovo singolo “Garden”, posto in apertura, “Fat Calmed Kiddos” che, se ce ne fosse bisogno, ci fa capire che il titolo del disco è da leggere con la dovuta ironia: “I needed a risk ’cause I needed to try/And I needed a breath ’cause you were out tonight” fino al coretto finale Please don’t leave me eseguito a modo loro, arriveranno poi “Castigadas en el Granero”,“Chili Town” e “Bamboo”, brani che comunque già conoscevamo, per scivolare verso la conclusione del disco e trovare “And I Will Send Your Flowers Back” col suo andamento triste e sbronzo (la soleggiata domenica si è ormai fatta scura e, scolando le ultime gocce dell’ennesima bottiglia, le nostre rientrano a casa, cantando e camminando maldestramente tra strade deserte illuminate dalle poche luci funzionanti e da un’eloquente mezza luna). Le Hinds confezionano il disco che avevano in mente e che il loro pubblico le chiedeva, ripulendolo giusto un po’, in modo da poter conquistare ulteriori ascoltatori, confermandosi così ben aderenti ai loro giorni, né più né meno. Non si tratta certamente di un lavoro da buttar via, il disco ha dei passaggi piacevoli, e si sente che è suonato da quattro ragazze che sono amiche anche fuori dai palchi e dagli studi di registrazione, in modo altrettanto certo non si può parlare di un gran lavoro; indubbio è che l’attesa per questo esordio lungo, seppur circoscritta al circuito indie, sia stata gonfiata parecchio rispetto a quanto ha da offrire.
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Friends – Manifest!
Fenomenale incrocio di una indistruttibile bolla di sapone glam con il catalogo anni Ottanta dove per una fortuita forza del destino o per un ricco tornaconto discografico punk e Dance music vennero in contatto, si toccarono e esplosero scintille come ESG, Blondie, che a loro volta generarono – sulla lunghissima distanza – giustificazioni di vita per gli odierni Friends, quintetto di Brooklyn nato sulle strade di Williamsburg e cresciuto alla “bell’e meglio” tra le coordinate urbane che contestualizzano sogni e rivalse da raggiungere come meta vitale, e “Manifest” – il loro ultimo lavoro discografico, li conferma come cool & must band per quell’aroma di freschezza retrò che trasmettono, per la vocalità di Samantha Urbani – ottimo concentrato di Cansei de Ser Sexy e Yeah Yeah Yeahs – che con l’aggiunta in plus valore di una certa identità musicale alla Lauper, alza le quotazioni artistiche della band americana al top.
Un album che ti dal del tu, che vuole comunicarti tutta la forza contemporanea delle storie di ieri, di tutti i movimenti fisici e d’animo che hanno arricchito scene e turbamenti sonori divenuti la moralità immorale e divina di hipsterismi a lunga gittata, una dozzina di tracce che debuttano per accaparrarsi i primi posti della nostra audience privata ancor prima di stracciare palinsesti e charts Tunes di chissà quante antenne alternative; ma anche – e soprattutto – un disco da ballare e riballare a sfinimento, soffice e tenace per notti di stordimento e, perché no, magari contemplarlo come segreto complice per qualche “limonata” che prima o poi, in qualsiasi notte sonora del creato, c’è sempre scappata con la squinza di turno, un adorabile party shuffle da adoperare dove, come e quando si vuole senza avere la paura che la noia avanzi.
Tutte potenziali Hits come si diceva sopra, i pezzi di Manifest! operano come brividini sulla pelle, fuori dalla fighetteria newyorkese nerd e dentro la sostanza materialista 80/90, una specie di dolce risucchio dal quale si può estrarre la melodia mid-elettro “Sorry”, la dance sinteticha “A thing like this”, “I’m his girl”, gli Ottanta della Berlino post muro “Mind control” o gli urletti alla Nina Hagen d’annata (più che dannata) che rimbalzano tra echi e strobo in “Ruins”; i Friends non sono solo amici, ma anche portatori sani di una voglia di ironizzare sulla musica odierna, e lo fanno con la forza anti-statica della dance, quella di sbieco, quella che quando ti accorgi che ti vuole catturare, lo ha già fatto.