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IOSONOUNCANE: ascolta il nuovo singolo “Novembre”
Il brano sancisce l’inizio della collaborazione con la rinata etichetta Numero Uno.
Continue ReadingAdolfo De Cecco – Metromoralità
Se non fosse per l’anagrafe che lo lega fermamente alla terra abruzzese, sarebbe fin troppo facile scambiare Adolfo De Cecco per un cantautore uscito dai Folk Studios di Roma negli anni settanta.
Metromoralità è un disco che , prodotto artisticamente dal maestro Vince Tempera, noto ai più per essere stato l’autore o il coautore delle sigle di diversi cartoni animati degli anni settanta e ottanta (uno tra tutti Ufo Robot Goldrake) e da Guido Guglielminetti, da anni fido bassista di Francesco De Gregori, trasuda però influenze dal grande Bob Dylan e dai nostrani Claudio Lolli e Luigi Tenco. La title track ha tuttavia il sapore della protesta degli anni sessanta sostenuta da versi polemici quali “L’Italia è il paese della memoria di una generazione che non farà storia” contrapponendosi nettamente a “Tempo Tecnico” in cui si citano Beatles, Rolling Stones, Iphone, Facebook, Kerouac e Hemingway. Del resto essere al passo coi tempi musicalmente oggi significa anche raggiungere le generazioni moderne con testi semplici ed essenziali ma mai banali quali delle due canzoni appena citate. In “Chiara che Pensi?” c’è tutto l’amore di un cantautore che appare già abbastanza maturo con il suo secondo disco ufficiale. I versi di “Metromoralità” che mi hanno colpito maggiormente sono “Touchscreen il mondo è uno schermo che se lo sfiori lo muovi ma se non ci finisci dentro oggi magari non vivi”; ritratto perfetto di una società informatica che ci ha fagocitato nel giro di appena un ventennio? Non so sinceramente se le intenzioni di Adolfo De Cecco fossero quelle da me percepite, ma sarei pronto a giurare che sia così…
“Il Tempo dell’Amore” è invece una ballad che non avrebbe sfigurato se uscita dalla penna di Neil Young o di Jackson Browne (di certo di tutte e dieci le tracce dell’album è quella che si discosta di più dallo stile italico). “L’amore Paziente” e “Canzone Semplice” ci rimembrano il già citato Francesco De Gregori mentre “Come si Coltivano i Fiori” ci fa ritornare nel giro di pochi secondi alla scuola americana. Poco meno di dieci minuti e sole due tracce, “Dietro le Nuvole” e “A Cena da Soli”, ci separano dalla fine di questo disco, che ha saputo con la sua semplicità ed eleganza stupire in ogni singola nota. Merito anche delle prestigiose presenze? (Vince Tempera, Guido Guglielminetti, Elio Rivagli, Alessandro Arianti per citare i più importanti). Io credo che forse questi grandi nomi avranno certamente avuto il loro peso nella qualità di quanto ascoltato, ma di certo Adolfo De Cecco ci ha messo tanto talento, passione ed entusiasmo.
Alessia D’Andrea – Luna d’Inverno
Devo ammettere che nonostante il Pop all’italiana mi sia abbastanza avverso (fatta eccezione per alcuni rarissimi casi) la musica di Alessia D’Andrea tutto sommato non dispiace affatto. La voce della cantautrice calabrese ricorda molto da vicino quella di Fiordaliso (con le dovute giuste distanze però) ed Alessia D’Andrea ci mette del suo in tutto e per tutto per far capire che il sottobosco musicale rosa nasconde anche talenti come questo che, c’è da scommettere, non potranno passare per troppo tempo ancora inosservati . Notevole il suo personale palmares dove compaiono anche vittorie al Premio Mia Martini, al dodicesimo Premio Città di Recanati ed al Premio Musicultura che gli hanno permesso persino di entrare in contatto con sua maestà Ian Anderson (sì, proprio quello dei Jethro Tull). Quindi stiamo certamente parlando di un’artista talentuosa che inizia a calcare importanti palcoscenici.
Luna d’Inverno è prodotto in varie locations dall’etichetta indipendente RENILIN , si compone di dieci brevissimi episodi (nessuna canzone supera infatti i tre minutie “Anime Bruciate”, che conclude questo lavoro, supera di una manciata di secondi i due) che ad essere pignoli al massimo rappresentano l’unico vero (e purtroppo evidente) difetto del disco. Se non fosse poi per “Beyond the Clouds” Luna d’Inverno potrebbe essere considerato il primo lavoro interamente in italiano della cantante. Il primo singolo estratto, “Blu Occhi”, è stato scritta addirittura da Maurizio Lauzi, figlio d’arte del compianto e mai dimenticato Bruno, vero maestro e massimo esponente della scuola cantautorale genovese insieme a Fabrizio De Andrè, Umberto Bindi, Luigi Tenco, Sergio Endrigo e Gino Paoli. La malinconica “Alzami Nell’Aria”, nonostante sia un po’ statica nei ritmi, ha quel “qualcosa” che lascia estasiati e, senza togliere nulla a tutte le altre canzoni, è certamente l’episodio meglio riuscito del disco (pur dovendosi contendere il titolo in una lotta infinita all’ultima nota con la più complessa ed elettronica “Caccia Alla Volpe”). Promossa con debito formativo.
Sintomi di Gioia – S/t
Coprodotto da Umberto Giardini (Moltheni), vede la luce lo scorso ottobre il secondo full lenght dei Sintomi di Gioia, ovvero Luca Grossi (la voce, oltre tanto altro) e Fausto Franchini. Opera di forte matrice Pop, con un’infinità di melodie leggiadre e celestiali, rassicuranti e orecchiabili ma nello stesso tempo forti di strutture portanti e arrangiamenti indovinati e arricchiti dalla presenza di strumentazione extra (oltre a chitarre, synth, batteria e piano) fatta di violoncello, timpani, contrabbasso e quant’altro.
Pop soffice e aggraziato, nello stile di un Riccardo Senigallia o l’ex compagno artistico Federico Zampaglione (anche nella timbrica si possono notare somiglianze con Luca Grossi) ma comunque pieno di sé e fortemente articolato senza inutili pesantezze. Il sound dei Sintomi di Gioia è legato indissolubilmente alla tradizione italiana (Luigi Tenco, Gino Paoli, Vinicio Capossela) cosi come alle nuove leve pop cantautorali ma non disdegna echi di internazionalità in stile Beatles (“Varietà”, “Balcone”) o Flaming Lips (”Balcone”) ma anche Indie made in Uk (“2 Minuti Prima Che Cambiassi Idea”).
Assolutamente da ascoltare con attenzione anche la parte testuale (fortunatamente si canta in lingua madre) che spazia tra scenari cinematografici (“Pieno D’Oro”, “Di Blu”) a dediche esplicite a Marco Travaglio (“Canzone Per T”), passando per la decadenza economica, culturale e generazionale (“Varietà”) o la riscoperta dello sfavillio del creato (“Mi Dimentico di me”). Un album perfetto per chi ama il Pop puro, nel quale la melodia è padrona, gli arrangiamenti sono una fotografia cinematografica da oscar e le parole suonano come poesia. Perfetto per chi cerca uno spazio tranquillo dove dimenticare rabbia, angoscia e le brutture della vita. Un album perfetto per sognare ma con testi che ti fanno aprire gli occhi.
Non c’è spazio per voi rocker.
Sanremo 2013: le nostre pagelle dello show nazional-popolare più amato-odiato dagli italiani.
Che qualcuno dica a Marco Mengoni (ha passato tutto il festival a tirare su col naso e pulirsi con la manica della giacca… -?-) col sopracciglio spaccato da ragazzino ripulito che s’è tolto il piercing-sbaglio-di-gioventù-mo’-sono-maturato, che dedicare la sua vittoria a Luigi Tenco è circa non aver capito un cazzo di Tenco stesso. Oltre che dimostrare di avere un ego smisurato. Suicidatosi lasciando un biglietto con scritto “faccio questo come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale”, Tenco avrebbe fatto altrettanto stanotte a sentire del primo posto. Ma pure del piazzamento dei Modà al terzo posto, del premio come miglior testo a Il Cile e dell’esistenza di Maria Nazionale. Come donna prima ancora che artista.
Prima di dare le pagelle su qualsiasi cosa si sia mossa all’Ariston questa settimana, vorrei sottolineare una cosa che mi ha colpito. Si crede che il Festival sia un evento che ammazza la musica, che promuove solo gli artisti in odore di major, di grandi produttori o di recenti reality musicali. E sono d’accordo in linea generale. Ma è anche e soprattutto la fotografia socio-culturale della nostra Italia e io quest’anno mi sono spaventata. Non per la crisi bistrattata a fronte di tanta magniloquenza (il Festival è stato ripagato e il bilancio si è chiuso con un guadagno, grazie agli introiti della pubblicità e degli sponsor), quanto perché le band fanno ancora paura -stile “Ommiodio quell’uomo ha una chitarra elettrica e una cresta, mi farà del male!”- o comunque sono ancora l’eccezione e soprattutto perchè c’è bisogno che Luciana Littizzetto, il giorno di San Valentino ricordi alle donne italiane che un uomo innamorato non mena, nel tentativo di sensibilizzare il pubblico sulla violenza alle donne. E perchè due omosessuali sul palco che raccontano che andranno a sposarsi a New York fanno ancora notizia. Potete stare, come me, nelle vostre casette dorate, circondati da gente dalla mentalità aperta che ascolta rock da mo’ e i cui amici migliori sono gay, ma la normalità è altra e Sanremo ce l’ha sbattuta in faccia. Ed è triste. Non fraintendetemi, sapevo che siamo un paese di fresconi un po’ retrogradi, ma certi traguardi pensavo li avessimo acquisiti (tipo almeno non chiamare i Marta sui Tubi “complesso”, come ha fatto mia madre).
Fabio Fazio (7/10): se l’è cavata nonostante questa sua conduzione monocorde, nannimorettiana, che non lascia quasi mai trasparire emozioni se non un po’ di gigionismo e che viene messa da parte in favore di una ritrovata selfconfidence per improponibili imitazioni di Bruno Vespa o nella falsa modestia del “vi ho portato Anthony, vi ho portato Asaf Avidan, ché voi ignoranti non sapevate chi fossero”.
Luciana Littizzetto (9/10): mattatrice! Ha tenuto palco meglio di chiunque altro, mantenendo il suo stile ma in modo consono al palco sanremese. Ha cantato, ballato, sfottutto Carla Bruni ed esultato quando Bianca Balti si è inciampata, incarnando il pensiero del 99,9% del pubblico femminile a casa. Ha abbracciato Martin Castrogiovanni come fosse un baobab.
I VECCHI.
Marco Mengoni (4/10): retorico lui, retorico il brano, retorico il grazie papà grazie mammà e la dedica a Tenco. Quindi il perfetto vincitore del Festival.
Raphael Gualazzi (3/10): un buon pianista jazz che si improvvisa cantante per non rimanere nella nicchia del genere. Peccato che non sappia cantare. E qualcuno gli dica che muoversi da sociopatico non lo rende artistoide, ma solo spaventoso.
Daniele Silvestri (6/10): a me non è piaciuto. Anzitutto preferivo il secondo brano, quello che ovviamente non è stato selezionato per continuare la gara, poi ho trovato un po’ troppo didascalica la presenza del traduttore e lasciamo stare il testo mezzo con la cadenza romana che non mi sono proprio spiegata. Non che abbia nulla contro i dialetti, anzi. Ma perchè?
Simona Molinari – Pietro Cincotti (2/10): se lei non si fosse vestita da albero di Natale-prostituta-personaggio di Futurama (solo per citare i tweet che più mi hanno fatto ridere), non me li ricorderei nemmeno.
Marta sui Tubi (6.5/10): ci hanno provato. E ok. Sanremo non è pronto, l’Italia tutta non è pronta a sentire i “complessi”. E ok. Io avrei evitato lo stereotipo della linguaccia sul palco e della cresta (prossima volta corna? Banchettiamo a pipistrelli?) e avrei cercato un arrangiamento meno ruffiano alla Negramaro, in favore di qualcosa di più rischioso e personale.
Maria Nazionale (N.C.): 1) chi? 2) perchè? 3) quanti cellulari sono stati comprati dal boss tal de’ tali per farla televotare?
Chiara (6/10): ha fatto il compitino da cantantessa italiana che va a Sanremo. Brava figlia di X-Factor, per me è una categoria di musicisti che non esiste neanche. Mi fa lo stesso effetto di sentire dire “un dj che suona”. Ssssse.
Modà (4/10): loro sono così. C’è a chi piacciono ecco. “Se un abbraccio si potesse scomparire” comunque, è troppo anche come licenza poetica. Cantante in inglese che almeno non vi si capisce.
Simone Cristicchi (3/10): basta. Lo trovo intollerabile. E una volta i pazzi, una volta quello che muore e si immagina tutte le cose che avrebbe potuto fare. Simone, esci e fatte ‘na vita.
Malika Ayane (7/10): una vocalità indiscussa, indubbiamente una delle migliori sul palco dell’Ariston, con una canzone di poco impatto però, in cui l’impronta di Sangiorgi gravava parecchio sul testo.
Almamegretta (3/10): se la sarebbero pure potuta cavare. Peccato il cattivo gusto dell’ideona di andare a fare i rastafariani con tanto di light designer dell’Ariston che mette luci rosse gialle e verdi -la sagra dell’ovvio- a inneggiare all’erba libera. Ma ancora? Meno male che c’è crisi signori, se pensiamo a come fare a buttar via dei soldi nella marjiuana prêt à porter -lamentandoci poi magari dell’Iva, dell’Imu, del cachet della Littizzetto.
Max Gazzè (6/10): come al solito i suoi brani parlano di disadattati che ti chiamano di notte per dirti che non vogliono fare il solito sesso, di guardoni che ti tengono d’occhio mentre sei in spiaggia col fidanzato o, come quest’anno, di gente che ti suona a casa. Il meeting dello stalker, insomma. E a me Gazzè piace parecchio eh, che è tutto dire.
Annalisa (4/10): questa arriva da Amici di Maria de Filippi. Parlapà si dice dalle mie parti, cioè non parlare, lascia perdere, non aggiungere altro.
Elio e le storie tese (8.5/10): la canzone rompe le palle forte dopo il primo ascolto eh, però ha del genio, della competenza, del talento. Geniali ad averla pensata, talentuosi ad averla realizzata, competenti per avere le conoscenze necessarie a costruire un’impalcatura armonica del genere sotto una melodia composta di una sola nota.
I GIOVANI.
Renzo Rubino (5/10): ecco, la canzone sui gay. Ché c’è bisogno di sensibilizzare come per la violenza sulle donne. Mi mette una certa tristezza. Comunque Rubino non mi è sembrato chissà quanto dotato vocalmente e neanche chissà quanto raffinato nell’interpretazione. Eppure si è preso il premio per critica intitolato a Mia Martini. Il testo moderno e attuale ha avuto ciò per cui era stato realmente scritto. Evvai.
Blastema (7.5/10): li ho apprezzati più dei Marta sui Tubi. Mi sono sembrati più integri e meno corrotti dal Festival, capaci di fare un rock nazionale sicuramente già sentito e anche parecchio scontato, ma di buona qualità.
Il Cile (5/10): ma è voluto che abbiano dato il premio come miglior testo a una canzone che si intitola “Le parole non servono più”? A me non è sembrato niente per cui strapparsi i capelli. Cioè, l’underground è pieno di gente che Il Cile possono prenderlo metaforicamente a calci dal mattino alla sera.
Irene Ghiotto: … forse ero in bagno. Scusate.
Ilaria Porceddu (8/10): sorvolando sul taglio di capelli, la canzone è molto delicata, eseguita con molta grazia e molta dolcezza. Non ho apprezzato la parte cantata in sardo finché non me la sono fatta tradurre da un amico che conosce quel dialetto, scoprendo che avrebbero dovuto trovare il modo di sottotitolarla o altro, perché è una frase davvero ben concepita.
Antonio Maggio (8.5/10): è radiofonica, divertente e ironica. La sentiremo così tanto in radio che romperà le palle alla grande. Per adesso, a piccole dosi, si apprezza e parecchio.
Andrea Nardinocchi (2/10): ditegli di fare altro. Un finto rapper-dj che scrive canzoni con le rime emo che manco i Dari. Sparisci. E lascia qui il Mac.
Paolo Simoni (1/10): no, no, no. Allora: l’idea del brano ricorda “Una musica può fare di Gazzè”, cioè l’elencone dei poteri benefici o meno delle parole. Ovviamente noiosa allo stremo, finto intellettuale, finto riflessiva. Lui poi ricorda Philippe Daverio con tanto di cravattino e canta credendosi Riccardo Cocciante. Altro che giovane: vecchio dentro, vecchio per ispirazione, vecchio con l’odore di giacca di velluto e antitarme. No. Già detto?
Ps. Dov’erano i fiori di Sanremo? Qualcuno era allergico e li hanno aboliti?