Diversamente come? Partiamo da questa semplice quanto necessaria domanda. Domanda che blocca in uno stato di estrema staticità. Ci dimeniamo, sbraitiamo, ci incazziamo contro un sistema, una quotidianità che non riusciamo proprio ad accettare. Ma poi da dove iniziamo domani mattina? Come muoveremo i nostri muscoli per fare in modo che questo presente ci appartenga di più? Come faremo a sfruttare le opportunità se ad un certo punto ci prendessero per mano? Avremo anche solo il timido coraggio di stringerla questa mano oppure ce la faremo sfuggire? Se questo “vento tornasse a soffiare” sapremmo cosa fare oppure rimarremo fermi noi, attori di un vigliacco scambio delle parti?
Da quanto avrete capito il nuovo dei torinesi Nadàr Solo ha suscitato in me parecchi quesiti. Incastonati uno dietro l’altro. Un disco che muove le rotelle del cervello con le sue parole fitte e dirette, tra piccoli drammi quotidiani e decadente cultura popolare, tra poesia di strada e luoghi comuni smontati, tra le miriadi di filastrocche accompagnate da sali e scendi che accompagnano le nostre sensazioni. Questo album è per altro suonato benissimo, non eccede e segue la sua linea dritta, a volte fin troppo sicura e marcata. In ogni caso il suono si plasma sempre perfettamente sulle corde e sui testi di Matteo De Simone, arrivando a graffiare dove la sua soave ugola accarezza.
Ma torniamo alle domande. No, non troviamo risposte, ma solo altri punti interrogativi. Sempre più fitti, sempre più ampi e che allargano il cerchio come il disegno di una nuvola pasticciata che copre sempre di più un cielo azzurro, nuvola che perde la sua forma ma non il presagio di pioggia. E presagio è anche il coro inaspettato nell’apertura di “Non conto gli anni”, sintomo di uno stato confusionale costante. Corsa forsennata a testa bassa, corpo ricurvo in avanti. Tentativo disperato di spostare l’aria statica che ci circonda, il tutto poi arricchito da basso bello pulsante, rullante magistrale e qualche chitarrina alla Coldplay che male non fa e colora un po’ la grigia nube che inizia ad infittirsi.
Le occasioni per tirare il fiato ci sono, boccate d’aria amara e malsana in “La ballata del giorno dopo”: lentamente ci torna su tutto lo schifo. La canzone dell’hangover rende davvero ridicoli noi che continuiamo a giocare al “carpe diem” nei tristi sabati sera metropolitani. “Le case senza le porte” ci consegna una band in splendida forma: dinamica, passionale, dall’anima viscerale, primordiale. E poi non lamentatevi che in Italia non abbiamo band rock’n’roll. “L’amore sta nelle case in rovina che cadono a pezzi senza padrone, sta nelle case senza le porte, che quando piove ci posso entrare, ma cosa volete che sappia io che non sono capace ad amare”. La pioggia inizia a scendere ma sappiamo momentaneamente dove ripararci. Uno dei momenti più lucidi del disco.
Il manifesto dei Nadàr Solo rimane indubbiamente “Il vento” che vanta la partecipazione de Il Teatro degli Orrori al completo. Quest’altra perla di magistrale musica popolare ci descrive alla perfezione lo stato d’animo che aleggia nel disco. La voce di Capovilla rinforza e riesce a delineare tutte le linee pasticciate nel cielo. Angoscia? Forse. Per ora mi accontento di un pezzo che è pura esplosione di emotività. E tra la gigantesca nuvola grigia confusamente disegnata si intravede qualche sprazzo di azzurro. E tanto rosso.