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Todays Festival | Torino 26-27-28/08/2016
E così l’autunno è arrivato, ed il TOdays festival è stato ancora un’ottima occasione per salutare l’estate in maniera degna. Il festival torinese che, tra le tante cose, mira anche a valorizzare la periferia di una città ormai sempre più ricca di architetture post-industriali soggette ad opere di riqualificazione, si è svolto in ampia parte, come l’anno scorso, in uno dei centri nevralgici della musica torinese: Lo Spazio 211. Altra sede riconfermata è quella del Museo Ettore Fico, che ha ospitato le esibizioni al chiuso di Calcutta (con coro Gospel a seguito) e AtomTM e Robin Fox in Double Vision, eventi gratuiti e a numero chiuso, in teoria accessibili a tutti coloro in grado di ritirare un biglietto in sede, nella pratica inaccessibili (causa sold out) a chi si è goduto il finale del live allo Spazio 211. Tra le nuove entrate, parlando di location, vi è l’ Ex Fabbrica Incet, edificio appartenente al patrimonio architettonico industriale ormai in disuso e riconsegnato alla popolazione quale sede di eventi all’aperto, comoda per i suoi ampi spazi e generosa per la sua acustica. E ancora il Parco Aurelio Peccei, che ha ospitato in anteprima, nella giornata di domenica 28 agosto, uno degli spettacoli più emozionanti di tutto il festival: Viaggio al Termine della Notte di Elio Germano e Teho Teardo, liberamente tratto dal capolavoro di Louis Ferdinand Céline. Spettacolo intenso, nelle musiche e nei testi (rivisitati e completamente inediti), ricco di momenti di riflessione e di introspezione, aspetti purtroppo vanificati dal forte caldo (probabilmente la causa che ha fatto slittare l’orario di inizio dalle 16.00 alle 17.00, con immensa gioia per i puntuali) e dal luogo non proprio adatto al tipo di spettacolo, (non a quell’ora, almeno), anche se le urla di sottofondo dei bambini dediti ai giochi pomeridiani sono almeno sintomo di un quartiere vivo!
Si comincia puntuali, quasi sempre (qualche ritardo nell’ultimo giorno) e la scaletta fortunatamente non prevede sovrapposizioni. Lo schema è lo stesso per le tre giornate: aprono le band del posto per poi passare ad altre realtà nazionali ed internazionali.
La prima giornata si apre con i suoni de il Pugile seguiti dall’elettronica dei Niagara, freschi di pubblicazione della loro ultima fatica, Hyperocean, e da Iosonouncane, ancora impegnato nella promozione di Die, uno dei dischi più belli del 2015 ma che purtroppo (ormai dopo 4 ascolti dal vivo posso dirlo) perde tantissimo nella bellezza del suono in versione live, ed è destinato a spezzarmi il cuore ogni volta. A chiudere la serie di concerti allo Spazio 211 ci pensa il Dream Pop degli degli M83.
Dopo il set di Calcutta al Museo Ettore Fico il festival si sposta all’Incet, dove ad attenderci ci sarà John Carpenter preceduto dalla chitarra di Paolo Spaccamonti accompagnato da Gup Alcaro (live electronics) del collettivo Superbudda, scelta a mio avviso riuscitissima, perché le cupe atmosfere e le distorsioni che la chitarra di Spaccamonti è riuscita a creare sono state il preambolo perfetto per poter entrare col cuore pronto nella musica visionaria di The Master of Horror. È incredibile pensare che John Carpenter abbia davvero quasi settant’ anni, la sua presenza scenica sul palco è enorme. Le colonne sonore dei suoi capolavori (tra i tanti: “Fuga da New York”, “Essi Vivono” e “Halloween”), rigorosamente accompagnate da video e dal conseguente boato del pubblico, si alternano ai pezzi appartenenti alla sua “nuova carriera” di musicista, sfociata nella pubblicazione prima dell’album Lost Themes e poi, nel 2016, di Lost Themes II. Si chiude così, col botto, questa prima giornata, e non meno carichi si passa alla seconda.
Il 27 agosto si comincia con i con i portentosi Stearica e con i pezzi tratti dal loro ultimo album, Fertile, che ho ascoltato diverse volte e che nella sua versione live raggiungono vette di potenza egemonica notevoli, arricchendosi di sfumature, dettagli, suoni, che lo rendono diverso di volta in volta, a dimostrazione che le loro esibizioni live sono qualcosa di prezioso e notevole.
A loro seguono i romani Giuda, acclamatissimi dal pubblico ma non di certo quanto Francesco Motta, in arte semplicemente Motta, protagonista indiscusso dei festival estivi italiani (insieme a Calcutta ed a I Cani, ovviamente). Sebbene l’ascolto de La Fine dei Vent’Anni mi abbia fatto pensare a sonorità più vicine al Pop nostrano, dal vivo la sua esibizione diventa decisamente più graffiante e godibile alla mie orecchie. Una nota di disappunto la provo quando rifletto sul fatto che sia proprio lui ad esibirsi prima degli headliner (la stessa sensazione che avrò per I Cani che si esibiranno prima dei Soulwax). In un festival di questo calibro mi sarebbe piaciuto qualche colpo di scena in più (vedi Spaccamonti che si esibisce prima di Carpenter), che venisse data ad altri artisti nostrani, probabilmente meno pubblicizzati in questo periodo ma sicuramente non meno validi, la possibilità di potersi esibire in presenza di un pubblico più corposo. La scelta dei sopra citati (Motta, I Cani), sarà pure stata strategica, ma di certo non può definirsi originale.
The Jesus and Mary Chain salgono sul palco e come spesso capita con i grandi nomi dei veterani della musica, l’attesa si carica di curiosità e aspettative che nella maggior parte dei casi si riveleranno esagerati. In questo caso ci siamo trovati davanti un live godibile, ma con moderazione, senza picchi di esaltazione.
Saltando AtomTM e Robin Fox causa sold out, ci spostiamo direttamente all’Incet per l’esibizione de I Cani e a seguire dei Soulwax, autori di uno spettacolo che difficilmente mi toglierò dalla testa. In tutto sul palco sono in sette. Tra loro, tre batterie, una delle quali suonata da Igor Cavalera dei Sepultura. Il colore predominante è il bianco ghiaccio. Il suono è un misto di elettronica e percussioni primitive. Il risultato è uno spettacolo di suoni e luci al quale l’intera Incet non può fare altro che piegarsi e cominciare a muoversi, senza sosta. E finisce così il secondo giorno.
La terza giornata vede il pubblico un po’ stanco, e lo si intuisce dal numero di coperte sul prato in notevole aumento. C’è però chi ha ancora un po’ di energia per farsi trasportare dal sound eclettico di Victor Kwality, e chi anche sotto il sole ancora cocente delle sette di sera non rinuncia a guadagnarsi le prime file per godersi The Brian Jonestown Massacre, che hanno sostenuto uno spettacolo di altissimo livello, anche se ha perso un po’ di fascino a causa dell’orario.
Abbandonate le atmosfere più cupe ci si sposta ad atmosfere più Indie e “danzerecce” prima con i Local Natives, e successivamente con i Crystal Fighters, autori di Electro-Folk che li ha portati ad addobbare il palco in modo tale da trasformarlo in una giungla. La chiusura è in bellezza con i Goat, e anche se ci si arriva un po’ stanchi e stremati, nulla può contro i loro ritmi viscerali ed il loro suono sinuoso. Finisce così il TOdays 2016, tra questi suoni e luci che sprigionano un calore che speriamo ci accompagni a lungo, almeno fino alla prossima estate.
Il TOdays vince anche quest’anno. L’offerta musicale è stata enorme e di certo questo festival, ancora molto giovane, già compete in popolarità con altri eventi (nostrani e non) di fama internazionale. I presupposti ci sono e la strada su cui ci si è incamminati è quella giusta, i progressi si sono visti. Manca ancora però un ultimo slancio finale verso l’alto, per alcuni motivi che ho citato sopra. Auguro al TOdays di arrivare ad avere gambe fortissime, di prendere la giusta rincorsa e di spiccare, infine, il volo.
Torna il TOdays Festival, a Torino dal 26 al 28 agosto 2016
L’ultimo week-end di agosto, dal primo pomeriggio a notte inoltrata, Torino passa dall’essere corpo al dare corpo a un crocevia di suoni che si propagano lungo le spine architettoniche e l’archeologia industriale riqualificata della periferia urbana che li contiene, li custodisce, li rimescola, li riverbera e lascia che si diffondano.
[ non è mai troppo tardi per il ] Primavera Sound 2015 – parte II (e per i rumors sull’edizione 2016)
Sì, abbiamo un conto in sospeso con il festival dei festival, quello che inaugura la stagione e a cui tutti gli altri si ispirano, e non ce ne siamo dimenticati (trovate qui un resoconto dettagliato dei primi due giorni dell’edizione 2015).
Che tu faccia parte degli scettici o dei frequentatori seriali che hanno già in tasca l’Abono 2016, ti raccontiamo quello per cui è valsa la pena di trascorrere la tre-giorni più massacrante dell’anno in Catalogna, ma anche tutti gli imprevisti che mai ci saremmo aspettati dalla mastodontica macchina organizzativa dietro a un evento come il Primavera Sound Festival.
Nel frattempo le prime info sulla line-up 2016 si fanno attendere fino a gennaio inoltrato, e il web si sbizzarrisce a suon di pronostici scientifici e speranze infondate. Quel razzo in locandina riaccende la consueta chimera della presenza di David Bowie, ancor più dopo l’annuncio della release ufficiale di Blackstar prevista per l’8 di questo mese, giusto il giorno dopo quello in cui il prezzo dell’abbonamento al Prima subirà l’ennesimo aumento. Sí, il Primavera Sound riesce a vendersi (a caro prezzo) anche a scatola chiusa, ma d’altronde i grandi nomi del momento passano tutti per la kermesse spagnola, e la cifra da sborsare per poter presenziare a una tale quantità di live, all’apparenza esorbitante, è a conti fatti un’occasione irripetibile e convenientissima. Ok, resta il fatto che nella pratica ci vorrebbe il dono dell’ubiquità per poter stare sotto a una decina di palchi in contemporanea, ma questo lo avevamo già mestamente constatato lo scorso anno. In ogni caso, si può star certi che davanti al programma completo sarà impossibile restare delusi: se Bowie sembra un miraggio, i protagonisti più quotati dietro all’hashtag #PrimaveraAllStars sono del calibro di Beach House, Pj Harvey, M83, Deerhunter, Grimes, Animal Collective e Tame Impala.
Uno sguardo alle recenti reunion suggerisce inoltre alcuni nomi altisonanti, quali Guns’n’Roses e LCD Soundsystem, ancor più in quanto entrambi confermati in cartellone al Coachella 2016. I più attenti hanno presto depennato gli Stone Roses, che per il 2 giugno sembra abbiano già preso impegni in Giappone.
Di occasioni per assistere alle performance di formazioni storiche il Primavera Sound ne offre sempre in abbondanza, ma per evitare di incorrere in grosse delusioni (per non dire in anacronismi deprimenti) sarebbe bene fare alcune distinzioni tra le proposte. Lo scorso anno sullo stage Heineken sono salite le Sleater-Kinney, con un validissimo disco di inediti uscito a inizio anno, a sprigionare un’energia fuori dal comune, rock duro e puro distillato in brani eseguiti senza soluzione di continuità, e con un’eleganza da copertina patinata a demolire ogni stereotipo sull’androginia delle donne devote al genere. Tra gli show migliori della passata edizione, sono queste le reunion da non lasciarsi sfuggire. Molto spesso però, al di là delle indubbie qualità dei progetti musicali, i ritorni rischiano di ridursi ad autocelebrazioni nostalgiche. Nei casi peggiori finiscono anche per rivelare la loro vera natura di operazione meramente commerciale: è quello che è accaduto agli Strokes, probabilmente i più attesi dell’edizione 2015, con un Julian Casablancas che definire fuori forma sarebbe stato un eufemismo, per una performance durante cui, forti di un repertorio collaudatissimo, nessuno sul palco si è preoccupato di nascondere un’innegabile carenza di entusiasmo.
Sleater-Kinney
Paradossalmente, non è stata questa la cosa peggiore verificatasi durante l’ora abbondante in cui gli Strokes si sono esibiti, perchè quel che nel mentre stava accadendo sotto al palco é stato al limite dell’incredibile: gli stand stavano per terminare le scorte di alcolici. L’imprevisto da sagra di paese avveniva all’interno di una manifestazione sponsorizzata in maniera massiccia da un colosso della birra scadente che risponde al nome di Heineken.
Reduce dal live degli Interpol, proprio allo stage che dello sponsor porta il nome (e da un paio di ore senza liquidi che avevo dovuto affrontare per difendere la mia sudatissima posizione in prima fila), mi facevo strada verso gli stand tra il palco in questione e lo stage Primavera, dove Casablancas e soci erano già di scena.
La mappa del Parc del Forum per l’edizione 2015
Raggiungere gli stand si è rivelata presto un’impresa disperata, perchè il pubblico degli Strokes si era sommato a quello degli Interpol e aveva già invaso ogni centimetro quadrato degli ettari che dividono i due palchi, e se non avessi avuto la sete inverosimile di cui sopra la scelta più saggia sarebbe stata quella di ruotare di 180 gradi e guardare i maxischermi appoggiata di spalle alle stesse transenne a cui ero stata aggrappata fino ad allora. Per giunta, al termine della traversata, lo scenario che si è prospettato ai miei occhi aveva un’aria da emergenza umanitaria, tra le file scomposte di ubriachi impazienti e gli addetti al beveraggio in preda al panico davanti ai fusti vuoti.
Poi però non vi lamentate se di anno in anno continuiamo ad affinare le tattiche per eludere i controlli anti-alcool all’ingresso.
Interpol
In quanto a imprevisti di portata monumentale, la questione alcolici è seconda solo a quanto accaduto al povero Tobias Jesso Jr.: andarsi a gustare il pianoforte di uno degli esordi migliori dell’anno col sole tiepido del tramonto di sabato sembrava la cosa migliore da farsi, ma l’energia incontenibile dei New Pornographers che si esibivano all’ATP nello stesso momento ha sovrastato senza pietà il set acustico di Tobias al Pitchfork, performance definitivamente compromessa poi dalle distorsioni e dalle prorompenti voci femminee di The Julie Ruin levatesi dal Ray-Ban, altro palco attiguo e con impianto di tutt’altra potenza.
Tobias Jesso Jr. @ Pitchfork stage
In generale, il 2015 sembra essere stato all’insegna delle difficoltà nello scheduling. Le sovrapposizioni degli imperdibili sono state moltissime. Il programma del venerdì non solo ci ha costretti a scegliere prima tra Damien Rice, Belle and Sebastian, Sleater-Kinney e Perfume Genius, ma in seconda battuta anche tra Ride, Ariel Pink, Voivod e Run The Jewels. Presi dall’hype, siamo rimasti al Pitchfork per il californiano e i suoi Haunted Graffiti. Dopo gli evidenti problemi tecnici dei primi due pezzi, il live è decollato rapidamente insieme col suo eccentrico protagonista, strizzato in una tutina pastello (che in realtà è forse uno degli outfit più sobri mai sfoggiati on stage da Ariel Rosenberg), davanti a una folla considerevole, esaltata e compatta nell’intonare il refrain di “Black Ballerina”.
Se la lungimiranza del Primavera nel comporre le line-up è ormai un dato di fatto, è pur vero che, come ogni regola, non è esente da eccezioni.
Tra quelli a cui è stato concesso il salto di qualità dal Pitchfork stage all’Heineken quest’anno c’è stato Mac De Marco. Con la stessa salopette e la stessa aria scanzonata (per non dire un po’ beota) che suppongo indossi quando scende in garage a truccare il cinquantino ci ha proposto quasi tutto il suo Salad Days (i due EP datati 2015 sarebbero usciti in estate inoltrata), per poi prendere per culo Chris Martin con una cover di “Yellow” deliberatamente blanda, lanciarsi in uno stage diving a spasso per qualche centinaio di metri su una folla di tardoadolescenti fino a un attimo prima occupati più che altro a drogarsi e venir poi ricondotto sul palco senza una scarpa ma con un’espressione ancor più felicemente idiota di prima, per annunciare infine l’arrivo di Anthony Kiedis, esclamando “Mr Dani California himself!”, mentre sul palco saliva un soggetto raccattato chissá dove (e che a Kiedis non somigliava manco un po’). Se è vero che una delle icone che resteranno del Primavera 2015 è senz’altro quella di Mac sospeso sulla folla, di fatto quella volta a fidarmi della proposta sul main stage ho finito per perdermi tre quarti d’ora di collaudati struggimenti emo con gli American Football al Pitchfork.
stage diving di Mac DeMarco di fronte al palco Heineken
A parte qualche episodio come questo, fortunatamente gli imprevisti in genere sono per lo più piacevoli. Il Primavera Sound è una roba in cui, mentre ad esempio sei a metà strada diretta a vedere gli Shellac, ti può capitare di passare davanti a un’altra performance, che neppure avevi inserito nel tuo piano di attacco, e che finisce per piacerti così tanto da convincerti a cambiare tutti i programmi. È stato così che nella tarda serata di sabato, a intervallare le granate di elettronica di Dan Deacon prima e Caribou in chiusura, ho beccato i Thee Oh Sees a prodursi in una delle performance migliori di questa edizione.
Date un’occhiata, e se poi vi viene voglia di farvi un regalo eccovi il link giusto.
https://portal.primaverasound.com/?_ga=1.157760122.1796721096.1451657543
Dear Baby Deer – Tryst
C’era una volta Gianluca Spezza, co-fondatore dei Divine, valido episodio Trip Hop prodotto da Gianni Maroccolo all’ombra del CPI di Giovanni Lindo Ferretti sul finire degli anni ‘90. C’è ancora, e da quando ha incontrato Lilia si fa chiamare Dear Baby Deer. Il ritorno in auge dello Shoegaze ha generato le declinazioni più disparate di quel fenomeno musicale che in realtà all’epoca in Italia non attecchì mai compiutamente. Tryst è invece un EP che nasce dalla consapevolezza di chi abitava la scena in quegli anni e ne assimilava in tempo reale le influenze che giungevano da oltremanica, e dimostra oltretutto la giusta attenzione nei confronti del panorama contemporaneo. Mi dicono dalla regia che Gianluca sia un musico girovago, me lo immagino anche poliglotta, chissà in quale lingua si esprime, ma che importa? Sebbene non saprei bene come pronunciarlo ad alta voce, letteralmente Tryst ha un significato alquanto intrigante, “un incontro sentimentale tenuto segreto”. Per registrare questo secondo EP firmato Dear Baby Deer, Spezza sceglie un giovane studio in provincia di Teramo, il Colonnella Sound dei Two Fates, quel duo che suona come una piccola orchestra sintetica. Arricchisce il prodotto finale la voce di Lilia, abruzzese anche lei, con un onirico EP all’attivo (44) ed un concept album in arrivo. Ciò che ne viene fuori è una immersione soffice sin dal primo ascolto, come tradizione Shoegaze impone, con un orecchio memore delle lezioni Alt Rock italiche di Scisma e Ustmamò, e l’altro proiettato al futuro dettato dal Dream Pop di recenti esperimenti internazionali (Daughter, M83). Si spazia dalla title track, di inclinazione prepotentemente Rock ma ovattata con cura, ai sussurri sintetici di “You Don’t Know”, con le voci di Lilia e Gianluca che si rincorrono tra i beat (“Things in Rain”), il tutto intriso di una miscela Elettronica morbida e ben calibrata che scivola spesso ammiccante in territori 80’s. Discreto e ammaliante questo gradito ritorno che lascia ben sperare per il futuro.
La Band della Settimana: The C.I.P.
Il duo Electro Pop The C.I.P., durante gli Mtv Digital Days che si sono tenuti qualche giorno fa alla Reggia di Venaria Reale di Torino, si è aggiudicato la vittoria per la categoria “Best New Generation Electro”. Sono stati loro i più votati della categoria e hanno confermato di essere una delle rivelazioni degli ultimi mesi. I due ragazzi hanno suonato su un palco che ha visto alternarsi alcuni tra i migliori dj nazionali e internazionali tra i quali Congorock, Stylophonic, Planet Funk ma anche esponenti del Rap come Shade e Fred De Palma. Lo scorso 9 giugno i The C.I.P. hanno pubblicato il loro album di debutto, Daydream, arrivato al numero 1 della classifica Musica Elettronica di iTunes, mentre dal 2 settembre è in rotazione radiofonica il loro nuovo singolo “We’ll Set the World on Fire”.
I The C.I.P. sono Michele Scheveger e Simone Cavalli. Si ispirano a gruppi come Chvrches, M83, Purity Rings, Capital Cities, Empire of the Sun e fondono sonorità Electro derivanti dagli anni 80 e 90. Il duo si propone come un progetto di respiro internazionale, nato in Italia ed esportato in Australia con base a Sidney. Dopo una lunga pre-produzione e la scrittura di più di 30 brani entrano in studio per realizzare l’album di debutto Daydream, uscito per Volcan Records. Sono loro la nostra nuova scelta settimanale! The C.I.P.
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Fitz And The Tantrums: annunciata l’unica data italiana
Reduce dal clamoroso successo dell’album di debutto del 2010 Pickin’ Up the Pieces, la band soul pop di Los Angeles arriva in Italia per un’unica data per presentare il nuovo More Than Just a Dream, in uscita il 7 maggio del 2014. Prodotto da Tony Hoffer (Beck, M83, Depeche Mode, Phoenix) presso The Sound Factory, Studio B a Los Angeles, il nuovo lavoro sarà pubblicato da Elektra Records. Sarà possibile sentire la band dal vivo in un’unica data italiana, al Tunnel di Milano il prossimo 14 marzo.
Midnight Faces – Fornication
Le due facce di mezzanotte che stanno dietro a questo progetto arrivato direttamente dalla capitale dello stato capitalista per eccellenza sono Philip Stancil e Matthew Warn. Warn inizia ben presto a fare musica con un amico d’infanzia, Jonny Pierce, poi voce dei The Drums (con lui Jacob Graham, Adam Kessler e Connor Hanwick), band Indie Pop in orbita dal 2009, con all’attivo due full lenght, l’omonimo esordio e “Portamento” del 2010, oltre a numerosi singoli, Ep e partecipazioni a compilation. Dopo un primo album pubblicato con l’amico Pierce, Warn fonda insieme a Josh Tillman (dall’anno scorso ex batterista dei Fleet Foxes, oggi più noto come Father John Misty), i Saxon Shore, formazione Post Rock di buonissimo livello.
I Midnight Faces nascono dall’incontro di Warn con Philip Stancil, anche lui cresciuto con la musica intorno, giacché la sua è proprio una famiglia di musicisti. Warn aveva già realizzato le parti strumentali e invitò quello che ne è il compagno artistico ad aggiungere le sezioni vocali. Prese cosi vita questo Fornication.
Dieci tracce, dieci canzoni melodicamente Pop ma dai mille retrogusti. Si passa da alcuni momenti più oscuri, quasi Darkwave, specie nella sezione ritmica e negli echi delle chitarre (“Fornication”, “Kingdome Come” “Turn Back”), ad altri nei quali la vocalità e l’approccio cantautorale di Stancil prendono il sopravvento (“Identity”, “Heartless”). Tanti sono i passaggi nei quali l’Alt Rock (“Crowed Halls”) si addolcisce per seguire strade più popolari e di più facile ascolto (“Give In Give Out”, “Now I’m Done”), grazie anche a un’attenta e puntuale ricerca melodica e moltissime sono le congiunture nelle quali tutta la vita di Warn e quindi le sue conoscenze personali, più o meno dirette (abbiamo detto The Drums, Fleet Foxes, Saxon Shore), sono riportate in musica. I brani più riusciti sono quelli nei quali il Dream Pop particolarmente sintetico si sposa con l’elettronica creando suggestive ambientazioni filmiche, a tratti danzereccie quasi eighties (“Feel This Way”, “Give In Give Out”, “Kingdome Come”) in uno stile perfetto che richiama il grande Anthony Gonzales (M83) ma anche, volendo ampliare il proprio spettro di vedute, i Depeche Mode (“Holding On”), cosi come gli Slowdive, ovviamente con ritmi più dinamici.
Un disco che miscela quindi atmosfera e melodia, con cura ed eleganza, puntando forte sulla voce ma senza tralasciare l’aspetto strumentale, elettronico soprattutto. Sceglie melodie orecchiabili e non calca troppo la mano su artifizi di alcun tipo finendo però per sprofondare nell’altro versante della questione. Eccessiva semplicità che si trasforma in povertà d’appeal e melodie che, per quanto gradevoli, finiscono per essere di facile oblio, perché troppo simili le une alle altre. Dieci episodi che si presentano, in linea di massima, tutti ugualmente apprezzabili e facilmente godibili, senza però riuscire a suscitare un interesse che vada oltre la semplice amabilità sonora. Per chiudere, se avete difficoltà a trovare mezze misure, questo è il disco perfetto per affibbiare la vostra sufficienza, niente di più, niente di meno, almeno per questa volta.
M83 – Oblivion OST
L’ultimo disco dei francesi M83, ex-duo (ora più che altro nom de plume del frontman Anthony Gonzalez)di musica elettronica sui generis, è in realtà la colonna sonora del film Oblivion, diretto da Joseph Kosinski (anche co-sceneggiatore e produttore), con Tom Cruise e Morgan Freeman.
Non ho ancora avuto modo di vedere il film, quindi non posso dirvi se la colonna sonora funzioni come accompagnamento drammatico, né quanto sia azzeccata come atmosfere o scelte di mood. È un disco interessante, però: gli M83 creano una colonna sonora “classica”, piena di archi e atmosfere retrò, dove lunghi crescendo elettronici sospesi si aprono in cavalcate orchestrali ritmiche e aperte (il finale di “Tech 49”), in pieno stile hollywoodiano, senza inventare granché ma rendendo epica ogni risoluzione, ogni svolta nel discorso intrapreso. D’altronde lo stesso regista ha commentato la scelta degli M83 in questo modo: “la musica degli M83 mi è sembrata fresca e originale, e grande ed epica, ma allo stesso tempo emotiva, e questo è un film molto emotivo, e mi è sembrata un’ottima scelta”.
Ecco quindi che sintetizzatori e archi si mischiano in soundscapes intriganti (“StarwWaves”), arpeggiatori e ritmiche elettroniche montano cupi qua e là (“Odyssey Rescue”, “Canyon Battle”), misteri s’infittiscono nelle rapide movenze degli alti e nelle esplosioni dei bassi (“Radiation Zone”). E poi terzine d’archi che s’alzano e scorrono incalzanti (“Ashes of Our Fathers”) e cupezze e cori angelici da un altro universo (“Temple of Our Gods”), o firme Ambient in calce, interrotte da poche, parche note di piano (la sospesa “Undimmed by Time, Unbound by Death”).
L’impressione generale è che, come colonna sonora, la musica degli M83 possa funzionare bene, così sospesa tra passato recente e contemporaneità, soprattutto per un film di SF che pare si ispiri ai classici degli anni ’70. Certo, non inventa niente, non c’è un approccio originale al materiale, e nemmeno il gancio che li farà passare alla storia (un tema alla Mission: Impossible, o alla Pirati Dei Caraibi, per fare solo due – piccoli – esempi). Anche la traccia conclusiva, la title track, l’unica cantata (da Susanne Sundfør, che in alcuni momenti pare Florence Welch), non si muove tanto dal già sentito (anche se è decisamente scritta bene per una colonna sonora, e immagino sia servita per i titoli di coda, che scommetto abbia accompagnato alla perfezione). Sono soundscapes che sembrano spacescapes, quando riescono meglio; quando riescono peggio, invece, assomigliano ad una qualsiasi colonna sonora “di mestiere” fatta da un professionista qualunque di un qualche studio di Hollywood.
Come disco a sé stante non regala molto: forse è troppo “colonna sonora” per funzionare da solo, troppo pieno di ambienti sonori, di tappeti svuotati e poi riempiti, ma con una lentezza parsimoniosa, che così bene s’adatta al grande schermo, ma meno ad un ascolto dedicato. Non mi resta che vedere Oblivion e vedere quanto, di tutto questo, rimane durante il film.
Prima anticipazione dalla colonna sonora di Oblivion.
Ecco la prima anticipazione tratta dalla colonna sonora curata dagli M83 in collaborazione con il compositore Joseph Trapanese di Oblivion, film diretto da Joseph Kosinski e che vede protagonisti Tom Cruise e Morgan Freeman. Questo brano si intitola “Starwaves”
https://soundcloud.com/iljin/m83-starwaves