Iniziamo la nostra copertura del Theatre Quinto Festival, una rassegna che durerà fino a giugno e che vedrà susseguirsi sul palco del locale rozzanese gli act più diversi, dai Finley ad Andrea Nardinocchi, passando per i gli Yokoano, i Nadar Solo e Dargen D’Amico. La serata inaugurale è affidata ai Finley, band che non ha bisogno di troppe presentazioni: scoperti giovanissimi da un sempre vulcanico Claudio Cecchetto, i quattro inanellano successo dopo successo, diventando il paradigma della band gggiovane che “dice” di fare Punk Rock, e diventano presto una rodatissima macchina scalda-ragazzine, passando addirittura da Sanremo. Da qualche anno i Finley hanno aperto la loro etichetta, Gruppo Randa, senza che questo abbia portato ad un cambiamento nella loro proposta musicale. C’è sempre curiosità intorno a gruppi di questo tipo, che appaiono come strane entità create negli uffici di qualche etichetta, scoprendo il fianco a critiche preconcette e a idiosincrasie astratte. Abbiamo cercato perciò di vederli con i nostri occhi, per scoprire come vivono la dimensione del live, il rapporto con il pubblico, le loro canzoni.
Quando arrivo, davanti al Theatre la fila è ancora lunga. Mi dicono che le prime ragazzine si sono presentate all’entrata intorno a mezzogiorno. Si potrebbero fare succose elucubrazioni sull’aspetto socio-psicologico di un concerto dei Finley, ma per quelle vi rimando ad un precedente report… Nel locale sta già suonando il secondo gruppo d’apertura, i Made In Italy, Pop Rock ironico che critica in maniera sottile alcuni stilemi della musica per teenager (dal finto rap di certi pezzi dance alle mostruosità stile One Direction passando, per l’appunto, anche dagli stessi Finley, di cui eseguono una cover “autorizzata” dalla band stessa…). Finito il loro set parte un breve cambio palco e poi eccoli: Ka (chitarra), Dani (batteria) e Ivan (basso, nella band da qualche anno) salgono on stage mentre in sottofondo parte… l’Inno di Mameli. (Non guardate da questa parte, non ho idea del perché. Scelta terribile, comunque).
Passato il momento patriottico, arriva Pedro (voce). Giusto il tempo di tirare una sonora botta di microfono sulla paletta del basso e il concerto parte a bomba, a grappoli di tre/quattro canzoni eseguite spalla a spalla. La prima parte del live è adrenalinica e tesa (“Gruppo Randa”, “Fuego”, “Tutto è Possibile”): i quattro pestano duro, canzoni Rock lineari e senza troppe pretese ma energiche, soprattutto nelle ritmiche, dove si distingue la bravura tecnica del batterista Dani, capace di sostenere groove rapidi e infuocati, vera spina dorsale dello spettacolo Finley. Come sempre, il rapporto con i fan è centrale: molto più che in altri casi, il concerto è letteralmente fatto per loro. Non manca nessuna canzone delle più famose (ci sarebbero disordini e sommosse), e i ringraziamenti al pubblico sono ubiqui e continui: grazie a chi arriva da lontano, grazie a chi ci segue dagli inizi, grazie a chi ci supporta e ci permette di continuare a fare musica. Il concerto prosegue caldissimo, i pezzi lenti sono veramente pochi: ci si concentra sulla velocità, sulla melodia di ritornelli cantati in coro a squarciagola (“Un’Altra Come Te”, “Adrenalina”, il richiamo al ritornello di “Dentro alla Scatola”). I pezzi sono tutti classici del loro repertorio: testi banali fatti per essere imparati a memoria e cantati a pappagallo, alcuni con prese di posizione apparentemente forti ma basate sul niente, come “La Mia Generazione”, che fa tanto effetto fiction di Rai2. Mi accorgo peraltro che alcuni momenti del live sono estremamente preparati: la presentazione in medias res de “La Mia Generazione” è la stessa identica che fecero l’anno scorso quando li vidi la prima volta, e anche l’introduzione di “I Fought the Law” dei Clash rimane uguale, come uguale rimane l’idea di far salire Roberto Broggi ad accompagnare il brano con il violino, promuovendo l’operazione benefica Punk Goes Acoustic ideata da Andrea Rock, che verso la fine del concerto verrà ospitato dalla band per qualche brano, tra cui una “Blitzkrieg Bop” abbastanza spompa. Ma prima il live fa in tempo a rallentare un po’, mentre i Finley si danno a “Ricordi”, loro brano sanremese che si porta dietro tutti i cliché del caso. La gente inizia piano piano ad uscire, il concerto si sta allungando (non credete chissà che, avranno superato a malapena l’ora, a questo punto: ma non stiamo parlando di Springsteen, stiamo parlando dei Finley).
Dopo il già citato passaggio sul palco di Andrea Rock, la band ci abbandona per qualche minuto, dando il tempo al pubblico di intonare “Diventerai una Star”, il loro pezzo più famoso. Scatta quindi l’encore, con partenza acustica e pianti tra il pubblico (giuro) per “Fumo e Cenere”, seguita a ruota dall’ultimo brano, “dedicato a chi pensa che abbiamo fatto solo questa”, ovviamente, “Diventerai una Star”, cantata da tutto il pubblico con una sola voce. Applausi, saluti, inchini. I Finley mi confermano così tutte le impressioni che già avevo avuto l’ultima volta, un anno fa: una band tecnicamente mediocre (a parte forse Dani, il batterista), sicuramente professionale e capace di gestire in modo sufficiente un palco e una platea di questo tipo, dando al pubblico tutto ciò che vuole e facendo più spettacolo che musica. Le loro canzoni sono banali, vuote di senso, niente più che materia vendibile, e infatti funzionano benissimo nelle pubblicità, a Sanremo, e con le ragazzine (ma non solo: si segnalano anche quarantenni ballerine e più-che-ventenni ubriache e scatenatissime, oltre a parecchi individui di sesso maschile, anch’essi esaltati). È musica da vendere fatta da un gruppo costantemente in vendita, e che, purtroppo, la gente non smette di comprare. Una volta accettato questo, il live assume le caratteristiche di un evento eseguito con professionalità e mestiere. Ma la passione e l’arte stanno tutte da un’altra parte.